martedì 30 ottobre 2012

Juventus, vittoria al veleno


Quando si parla di vittorie che maturano dalla panchina solitamente ci si riferisce ad episodi simili a quelli capitati durante Juventus-Napoli dello scorso 20 febbraio: Cáceres e Pogba entrano sul campo di gioco ad incontro iniziato, segnano una rete a testa e diventano decisivi per il successo finale ottenuto dai bianconeri a scapito degli uomini di Mazzarri.

Sempre sullo stesso tema, stando alle recenti dichiarazioni del presidente del Catania Pulvirenti in merito a quanto accaduto la scorsa domenica, c'è una novità nel nostro campionato: "Il goal di Bergessio lo ha annullato la panchina della Juventus. Il guardalinee lo aveva dato". Inutile raccontare nel dettaglio l'episodio in questione, dato che ormai se ne parla diffusamente in tutte le salse e a tutte le latitudini dello stivale.

Resta l'errore che ha danneggiato i padroni di casa, autori una rete valida, che sommato a quello relativo alla successiva marcatura del bianconero Vidal (viziata da un fuorigioco del danese Bendtner) ha contribuito a creare un clima irrespirabile dentro e fuori lo stadio siciliano. Se la rabbia di Pulvirenti è comprensibile, le parole che hanno accompagnato il suo sfogo non lo sono senza ombra di dubbio.

La linea difensiva usata per l'occasione da Giuseppe Marotta ("Il gol del Catania era regolare, ma non avrebbe inciso in maniera decisiva sulla partita") è servita soltanto a girare il coltello nella piaga. Alla fine si possono sintetizzare brevemente le due distinte posizioni: quella dei siciliani, da una parte, che memori di episodi a loro sfavore capitati in altre gare si sono sfogati duramente alzando la voce, nella speranza di non sentirsi più danneggiati nel prossimo futuro; quella dei bianconeri, dall'altra, che non possono restare in silenzio dopo quanto è piovuto addosso loro nell'arco di poche ore.

La manata di Spolli a Pogba ed altri interventi di gioco meritevoli di qualche approfondimento sono sfilati via via in secondo piano, nascosti dal continuo crescendo di polemiche. Così come è stato per la partita in sé, scomparsa dalle discussioni della domenica.

Madama vince anche a Catania, mantenendo un ritmo impressionante in classifica pur continuando a mostrare luci ed ombre sul campo. Benino Bendtner, nel contesto di un reparto offensivo che è stato costruito male in estate e dal quale Conte dovrà comunque cercare di tirare fuori il meglio. Almeno sino a quando la società non si deciderà ad acquistare un fuoriclasse degno di tale nome in attacco.

La squadra di Maran, dal canto suo, perde il primo incontro della stagione in casa dopo averne vinti tre e pareggiato uno, contro il Napoli. Proprio nel corso di quella gara i siciliani affrontarono la formazione guidata da Mazzarri in dieci uomini a partire dal secondo minuto di gioco, a causa dell'espulsione rimediata da Alvarez. Segno, questo, che espugnare lo stadio “Angelo Massimino” non è facile per nessuno.

In merito ai fatti di Catania, annullata la conferenza stampa che avrebbe dovuto precedere l’incontro con il Bologna Andrea Agnelli ha poi preso le difese del suo club: “Ci sarebbe da riflettere sull’atteggiamento che abbiamo ricevuto prima, dopo e durante la partita. Un accanimento e una durezza contro i nostri dirigenti che hanno dovuto lasciare la tribuna, insultati da prima del fatto. E ci sarebbe da riflettere sul ritrovarsi, ieri nelle trasmissioni televisive, e oggi in uno stato di quasi assedio, che io trovo anormale e atipico: ci sono stati errori, a nostro favore e a nostro sfavore”.

Anche Massimo Moratti, sempre sullo stesso argomento, ha voluto far conoscere il proprio pensiero: “È una situazione assurda quella di domenica, ma bisogna pensare sempre che sia solo un errore e dobbiamo solo sperare che non si ripresentino errori così gravi. Fino al 2006 abbiamo avuto una terrificante esperienza, con tanti risvolti, che è rimasta dentro tutti. Qualcuno lo dimentica, ma è bene ricordarselo, perché è una macchia spaventosa e non credo che nessuno sia disposto a tornare a quel clima, né che l'attuale società della Juventus stia seguendo certe modalità".

Sotto certi punti di vista si può dire che il turno infrasettimanale arrivi al momento giusto, nella speranza che non riservi la collezione di errori e sviste arbitrali diventati sempre più frequenti nel corso delle ultime giornate di serie A. Anche perché sabato prossimo sarà la volta di Juventus-Inter, ed è facile intuire cosa potrebbe accadere nel caso in cui si dovessero verificare episodi dubbi di una certa rilevanza…

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lunedì 29 ottobre 2012

La solita musica

Questo articolo è di Danny67. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Un Bianconero a Roma

Subito dopo il triplice fischio dell’arbitro Gervasoni che sanciva la vittoria della Juventus sul difficile campo di Catania, partiva la solita aggressione mediatica contro la Vecchia Signora, su tutte le tv, su tutti i siti internet, sui blog, e sulle emittenti radiofoniche. Una aggressione, per la verità già iniziata subito dopo l’annullamento del goal, regolarissimo per essere giusti, annullato a Bergessio, proseguita poi nei salotti sportivi televisivi e soprattutto in conferenza stampa, dove Angelo Alessio, veniva praticamente aggredito verbalmente da giornalisti locali. 

La gogna ovviamente continua anche oggi e di ora in ora fa salire sempre di più il livello delle polemiche, in un vero e proprio massacro, dove tutti intervengono, tutti si permettono di giudicare ed attaccare la Juventus e di tirare fuori perfino prove inventate per dimostrare il dolo (ad esempio falsi profili facebook). Tutto questo can can chiaramente è destinato ad aumentare in previsione si del turno infrasettimanale di campionato, ma soprattutto, in vista del big match di sabato prossimo che vedrà di fronte i bianconeri ed i nerazzurri interisti. Si ripete lo stesso film a cui abbiamo assistito decine e decine di volte, l’ultima prima della sfida contro il Napoli. Non mi stupirei se durante questa settimana uscissero altri spifferi dalle procure per rendere l’atmosfera ancora più incandescente e per destabilizzare sempre di più l’ambiente in casa Juventus. 

Credo di non essere l’unico ad essere stanco di tutto questo, in particolar modo del metodo che viene usato dai media per valutare episodi di pari gravità o quasi, a seconda di quale sia la squadra ad avvantaggiarsene. Si parla in un modo degli episodi di Catania che hanno favorito la Juventus (trascurando il rigore su Chiellini, quello causato dal pugno al volto con conseguente rosso su Pogba da parte di Spolli, la mancata espulsione di Legrottaglie per fallo da ultimo uomo su Giovinco lanciato a rete) e in un altro, anzi quasi per niente, di episodi che hanno favorito altri, vedi Napoli (rigore negato al Chievo), Fiorentina (vedi goal regolare annullato alla Lazio), o Milan (vincente grazie a rete nata da una posizione irregolare di Abate). Tutto questo è ormai nauseante. 

La Società Juventus tace, o replica in maniera poco convincente, ma credo che debba fare qualcosa di più per impedire questo gioco al massacro che già nel 2006 ha portato a quello che sappiamo e nel 2012 ha portato ad identificare scommessopoli con Antonio Conte. La proposta dell’azionista Nino Ori, sulla creazione di un canale tematico gratuito, potrebbe essere un primo passo per tentare di creare un’informazione alternativa, se non altro per togliere alle altre televisioni l’ascolto dei tifosi bianconeri che sono tantissimi. 

Al di là di questo, vorrei fare un breve commento tecnico alla gara, sottolineando che, pur avendo mostrato nel match di ieri pomeriggio un netto predominio, confermato dal possesso palla, dai tiri in porta e dalle occasioni da rete create, la squadra ha sprecato troppe opportunità per chiudere l’incontro molto prima e per dimostrare la propria netta superiorità, dando un calcio alle polemiche che ci sarebbero state, ma forse in misura minore.

Non voglio cercare il pelo nell’uovo però, secondo me, quest’anno si gioca meno bene dell’anno passato e, pur avendo alla fine diversi punti in più rispetto a quelli ottenuti la stagione scorsa a questo stesso punto del campionato, la veemenza, il pressing e la fame che hanno guidato in ogni singola partita i bianconeri nella volata scudetto, in questo momento non ci sono. La Juve è una squadra nettamente più forte delle altre e questo le da la possibilità di vincere anche in quelle domeniche in cui si esprime meno bene, ma qualcosa dal punto di vista della determinazione deve cambiare. Forse il ritorno in panchina di Antonio Conte ci restituirà quell’ardore agonistico che ci ha fatto tutti innamorare di questo gruppo?

sabato 27 ottobre 2012

Nereo Rocco, il Paròn


Vigilia di un Padova-Juventus di molti anni fa, un giornalista si era avvicinato al tecnico dei veneti dicendogli: "Vinca il migliore". La sua risposta, immediata, non aveva lasciato spazio ad ulteriori repliche: "Ciò, speremo de no". In queste parole c'è tutto Nereo Rocco, il Paròn. Descritto da chi ha avuto modo di conoscerlo, era proprio così: diretto, sincero, trasparente. Nato nel 1912, figlio di un macellaio e nipote di un cambiavalute di Vienna, ha portato il cognome Rock sino al 1925. Costretto ad italianizzarlo per motivi di lavoro durante il periodo fascista, iniziò la sua seconda vita, quella legata al pallone, facendosi conoscere come Rocco. Calciatore, allenatore, uomo. Soprattutto uomo. Le vittorie ottenute da sportivo restano in bella evidenza nel palmarès, il ricordo della sua straripante personalità è rimasto vivo nel cuore quanti hanno condiviso con lui gioie e dolori dentro ed intorno al rettangolo di gioco.

Per esprimersi usava il dialetto della sua città, Trieste, condito dai "mona" che non risparmiava a nessuno. Nella veste di tecnico, quando qualcuno provava ad avvicinarlo chiamandolo "Mister" reagiva in malo modo: "Mister a chi, muso de mona? Mi son il signor Rocco". Nei confronti di chi non capiva il motivo di un'esclusione ripeteva spesso la stessa frase: "Decision de la siora Maria". Che poi era sua moglie. Girò l'Italia da solo, senza Maria e i figli Tito e Bruno, partendo proprio da Trieste. Le tappe toccate (alcune a più riprese) furono Napoli, Padova, Treviso, Milano, Torino e Firenze. Per Milano si intende quella rossonera, ovviamente, dove gli inizi erano stati complicati: “Milano non fa per me. E’ troppo grande. E poi, qua, perdi una partita e succede il finimondo”, aveva confidato a Cesare Maldini, così come testimoniano le pagine del libro “Il Paròn” scritto da Gabriele Moroni. Era abituato a comandare, quella realtà non gli sembrava cucita su misura per lui. Nel giro di due anni vinse uno scudetto e una Coppa dei Campioni.

Ovunque andasse cercava i due punti di riferimento dai quali cominciare il proprio lavoro: lo spogliatoio, dove cementificava lo spirito di squadra, e un ristorante, il luogo in cui si rifugiava nei momenti di intimità. Prediligeva alcune compagnie ad altre, Nicolò Carosio e Gianni Brera su tutti. Nel momento del commiato, proprio Brera lo aveva descritto con queste parole: "Poco abile politico, è un grande in spogliatoio, non in sede. Ai presidenti non bacia né vellica niente. Cambia città (e si pente): scopre nuovi Italienern, magari contagiati di vezzi franciosi: così rimpiange i lombardi e torna fra loro per vincere un altro campionato, un'altra Coppa Campioni. Rivera si è fatto uomo e un pò ne viene plagiato. Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso". Circa il modo di vivere la sua professione, ancora Brera scrisse: "Dalla panchina torna sudato più dei giocatori: e con loro si spoglia e prende la doccia sentendone tutti i discorsi, dei quali puntualmente si serve per governare il timone. Sotto la doccia, il sudore acre dei poveri, le contumelie, le lodi, le reciproche accuse: e la partita interpretata a caldo. Poi con gli anziani, diciamo gli arimanni, si riflette e decide per il meglio".

All'apparenza burbero, caratterialmente aperto quando si trattava di stare con i suoi ragazzi, si chiudeva a riccio di fronte al mondo esterno. Quando non voleva dare troppa corda ai giornalisti se la cavava con poche parole: "Domenica giocheremo così: Cudicini in porta e tutti gli altri fuori...". Per definire le marcature degli avversari sul campo, all’arcigno difensore Angelo Anquilletti era solito lasciare alcune brevi istruzioni: “Ciò, fagli fare tutto quello che vuole. Basta che non faccia gol”. Sull'introduzione della figura del libero in difesa, aveva dichiarato: "La sostanza è quella: che si chiami uomo libero, ala tornante, mezzala fluttuante. Tutte le squadre hanno quest'uomo in più in difesa, e ciò per valorizzare l'estro, l'indole, la facoltà d'improvvisazione del giocatore italiano".

I derby con l'Inter di Angelo Moratti, guidata da Helenio Herrera, diventarono celebri anche grazie alle battute che si cambiavano i due tecnici, i veri e propri precursori di una nuova visione della figura dell'allenatore. Uno dei momenti più difficili vissuti su una panchina è datato 20 maggio 1973, in occasione della "fatal Verona". Il miglior complimento che potesse riservare a qualcuno era “El xè un omo”, proprio per il valore che dava alle qualità umane. Tendenzialmente si fidava dei suoi uomini, prova ne sia che a volte concedeva la possibilità di ricevere le visite delle persone care anche durante i ritiri: “Domani potete portare, se volete, a pranzo mogli e figli. Mi raccomando, però, roba seria: non fidanzate di quelle ballerine”. Per tenerli tutti sulla corda, però, aveva introdotto abitudini apparentemente incomprensibili come quella della colazione mattutina di gruppo a Milano, in piazza Sant’Alessandro. Dietro la volontà di trascorrere più tempo in compagnia c'era pure quella di verificare costantemente lo stile di vita dei calciatori.

Pierino Prati ha raccontato che nel momento in cui venne presentato a Rocco, in un albergo, dopo averlo squadrato il Paròn si era rivolto ad un dirigente dicendogli: “Guarda che io ti avevo chiesto di portarmi un calciatore, mica un cantante”. Fine psicologo, percorrendo il tratto di strada che portava la squadra dal ritiro allo stadio “Santiago Bernabéu” di Madrid per giocare la finale di Coppa dei Campioni contro l'Ajax (vinta per 4-1, 28 maggio 1969), nel silenzio generale si era alzato i piedi per dire: “Ciò mona, se c’è qualcuno che ha paura stia pure sul pullman che a giocare vanno gli altri”. I giocatori scesero uno a uno, per dirigersi nello spogliatoio. Dopo aver aspettato invano il tecnico, preoccupati tornarono al parcheggio e lo trovarono lì: era seduto sul pullman. Scoppiarono tutti a ridere. Con quello stratagemma era riuscito a spezzare la tensione.
Era uno dei metodi usati per questo fine da Nereo Rocco. Il Paròn.

Articolo pubblicato su Lettera43

giovedì 25 ottobre 2012

Juventus, frenata in Danimarca


Nell'attuale edizione della Champions League la Juventus ha disputato tre partite, contro Chelsea, Shakhtar Donetsk e Nordsjælland. In ognuna di queste gare è andata inizialmente in svantaggio, salvo poi riprendersi e concludere gli incontri con altrettanti pareggi. In buona sostanza, dopo aver preso dei ceffoni è sempre stata in grado di reagire, mantenendo inviolata la propria imbattibilità.

Va ricordato, però, che esistono due tipi di imbattibilità: quella fine a se stessa e quella che dà sostanza ai risultati.
La prima può portare ad accumulare record, destinati - nella maggior parte dei casi, col tempo - ad essere superati. La seconda, invece, accresce il valore di un'impresa compiuta. Prendendo come esempio le Olimpiadi, è la differenza che intercorre tra un'atleta che stabilisce un primato ed un altro che vince una medaglia d'oro.

La recente conquista dello scudetto da parte della Juventus, successiva a due settimi posti consecutivi, è stata impreziosita dalla mancanza di sconfitte dei bianconeri in serie A dal lontano 15 maggio 2011. Il fatto che la sua ultima disfatta europea risalga alla gara disputata il 18 marzo 2010 al "Craven Cottage" di Londra contro il Fulham (ottavi di finale dell'Europa League), viceversa, in termini di praticità significa poco o nulla. Anche perché l'anno immediatamente successivo, in quella stessa competizione, pareggiando tutte le sei partite del girone iniziale era stata poi eliminata dal torneo.

Ascoltare il richiamo alla massima concentrazione di Claudio Marchisio nei momenti precedenti l'incontro con il Nordsjælland ("In Champions League non ci sono mai partite facili") e vedere l'atteggiamento mostrato successivamente dai bianconeri sul campo, fa pensare che uno dei problemi principali della Vecchia Signora in questo genere di competizioni risieda proprio in un approccio sbagliato a quelle gare.

Il passaggio al turno successivo non è ancora compromesso, a patto che la Juventus inizi a dedicare alla Champions League le medesime attenzioni che riserva alla serie A. La personalità acquisita (ritrovata) in campionato è il risultato di un processo di maturazione avviato con il ritorno di Antonio Conte a Torino. Ora, però, Madama non deve fermarsi a questo punto.

Per banalizzare il concetto, l'Europa non è l'Italia. Sono due "mondi" diversi tra loro. Due club del calibro di Chelsea e Shakhtar Donetsk nel nostro calcio - al giorno d'oggi - non ci sono, tanto per quanto riguarda i valori tecnici espressi sul terreno di gioco quanto per ciò che concerne l'aspetto societario. Non a caso attualmente entrambe comandano i rispettivi campionati. Gli inglesi, oltretutto, sono pure i detentori del torneo.

Considerare il pareggio ottenuto contro il Nordsjælland (1-1) alla stessa stregua dei due che lo hanno preceduto non è possibile. Sotto certi punti di vista si è trattato di una sconfitta, un passo falso, un'occasione persa per incamerare tre punti importantissimi. Sono episodi evitabili, ma che comunque capitano. Con estrema franchezza lo ha detto anche Gianluigi Buffon ai microfoni dell'emittente satellitare "Sky Sport": "Ci sono gradini da passare nello sport, è un salto di qualità e difficoltà questo della Champions League a cui ci stiamo sottoponendo. Quello che fai in campionato non basta in Champions, ci sono passaggi naturali nello sport".

Visto e considerato che la soluzione ad uno dei problemi è stata trovata, adesso non resta che impegnarsi per metterla in pratica.

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mercoledì 24 ottobre 2012

La Juve non è pronta?

Questo articolo è di Danny67. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Un Bianconero a Roma

La sensazione che mi rimane dentro dopo aver assistito all’ennesima prova non convincente della Juventus in Champion’s League è una sensazione di inadeguatezza. Si, sembra proprio che la squadra bianconera sia inadeguata, non ancora pronta ad affrontare la più importante competizione europea e ad esibirsi su certi palcoscenici; e tutto questo non per un solo motivo. Di sicuro basta guardare la netta differenza di approccio che la Vecchia Signora mostra nelle gare di campionato per rendersi conto che qualcosa non va. 

Nelle partite di serie A ammiriamo una compagine che guida il gioco, sicura di se e che mette in pratica uno spartito imparato a memoria con un’efficacia impressionante, che attacca l’avversario, lo mette alle corde, lo fiacca con l’intensità del proprio gioco, ma soprattutto che non si perde mai d’animo, certa, prima o poi, di trovare la vittoria. Nei confronti continentali vediamo invece una squadra insicura, titubante, che stenta ad entrare in partita, che spesso (praticamente sempre) subisce goal, e che perfino in tutte quelle cose che solitamente le riescono alla perfezione, come ad esempio i disimpegni difensivi, commette troppi errori. 

Molti motivano ciò con il fatto che gli avversari che si trovano in coppa sono nettamente più forti della media delle squadre italiane. Ma secondo me questo può valere quando si incontrano il Chelsea o lo Shakhtar e non quando si affronta il Nordsjaelland. I Danesi, seppur volenterosi, fisicamente molto forti e tutto sommato affatto sprovveduti tatticamente sono nettamente inferiori alla Juventus. Pertanto una Juve che giochi come sa fare può e deve battere questi avversari, non dico facilmente, ma li deve assolutamente sconfiggere. 

Personalmente io noto una difficoltà psicologica, mentale, forse dovuta alla scarsa esperienza della maggior parte degli uomini di Conte a cimentarsi in match di questo tipo. Intendiamoci la partita la Juve la fa sempre, i tiri in porta ieri sera sono stati addirittura 15, ma questo non è sufficiente per dire di aver dominato la partita come avrebbe dovuto essere. Da parte mia ho la sensazione che nemmeno la dirigenza e Conte ritengano di avere molte possibilità di andare avanti nella massima competizione continentale, prova ne è il largo turn over proposto ieri sera, con un Isla che generalmente non viene mai impiegato perché non ritenuto ancora in condizione, inserito come unico esterno sulla destra e con un Vidal apparso stanco nelle ultime gare, preferito ad un Pogba probabilmente molto carico per la rete segnata sabato scorso con il Napoli. Chiaramente capisco benissimo che l’anticipo con i partenopei ha lasciato tossine nelle gambe dei bianconeri e che quindi qualcuno doveva riposare, ma forse Caceres e Pogba avrebbero potuto dare qualcosina in più rispetto a chi è stato utilizzato al loro posto. 

E’ altresì innegabile che le occasioni per vincere siano state molteplici, ed è qui che si torna al solito problema che ormai ci portiamo dietro da moltissimo tempo. Giovinco, anche se sì è dannato l’anima ed è stato il più pericoloso degli attaccanti, sbaglia veramente troppo ed anche le occasioni più facili. Matri è partito benino ma poi si è rivelato quasi impalpabile e per segnare si è dovuto far entrare il pur debilitato Vucinic che comunque resta la punta più forte e di maggior classe di cui disponiamo con tutta la sua incostanza. Avrei inserito prima anche Bendtner, verso l’utilizzo del quale sembra ci sia una resistenza ai limiti dell’ostracismo, ma che, nonostante l’errore su colpo di testa- una delle sue specialità - è stato molto bravo nel dare appoggio all’inserimento dei compagni di squadra ed a favorire la deviazione vincente di Vucinic portando i difensori dietro di se. 

Senza un grandissimo attaccante in Europa non si va lontano. Detto questo possiamo con certezza affermare che allo stato attuale delle cose la situazione è molto difficile, anche se la qualificazione non è del tutto impossibile, ma è chiaro che per passare il turno le prossime tre partite dovranno essere tre vittorie o quasi. Il precedente c’è (stagione 1998-1999) auguriamoci che si ripeta.

domenica 21 ottobre 2012

Continua la marcia della Juventus


Il compito che la Juventus avrebbe dovuto svolgere nell’anticipo pomeridiano dell’ottava giornata di serie A era stato svelato da Claudio Marchisio nei momenti precedenti l’incontro con il Napoli: “sconfiggerlo, sgasarlo, togliergli un po’ di fiducia, impedire che l’ambiente da quelle parti si carichi troppo”. Visto e considerato l’esito della partita, Madama adesso può cambiare pagina ed iniziare a pensare al prossimo impegno.

A differenza del rendez-vous tra le due formazioni dello scorso 11 agosto a Pechino, in occasione della finale di Supercoppa italiana, le polemiche sono scomparse al termine dell’incontro, concentrandosi – invece - prima del fischio d’inizio dell’arbitro Damato. Assenti Buffon e Vucinic, due punti fissi nello scacchiere della Vecchia Signora, al Napoli si era presentata una buona opportunità per frenare la corsa inarrestabile in campionato dell’undici guidato dal duo Alessio-Conte.

Il caso vuole che proprio Damato fosse stato il direttore di gara dell’ultima vittoria esterna dei campani a Torino: era il 31 ottobre 2009, si era giocato – anche allora – alle 18.00. Lo stadio, però, era diverso, così come – soprattutto – tra le due Juventus non c’è stato paragone. Quella attuale è figlia legittima del club più scudettato d’Italia, abituato a far sue le corse a tappe entro i confini dello stivale.

Walter Mazzarri aveva ragione a sostenere che “il risultato di questa gara non cambierà nulla, anche in caso di sconfitta ne mancheranno trenta alla fine”, ma dovrebbe riflettere bene sulle parole pronunciate a sua volta da Carrera, nel punto in cui affermava che i sistemi di gioco tra le due squadre “saranno pure simili, ma l’interpretazione è diversa: noi facciamo un calcio propositivo, mentre il Napoli si affida di più alle ripartenze e alle giocate dei singoli”.

In una partita condizionata (anche a livello di infortuni) dagli impegni dei vari nazionali sparsi in giro per il mondo, la Juventus – più degli avversari - ha mostrato di avere i cambi necessari per far fronte alle emergenze: i due goleador di giornata, Cáceres e Pogba, sono entrati in campo durante lo svolgimento dell’incontro. Lo stesso discorso vale pure per quanto riguarda gli allenatori: nell’arco temporale di sette mesi Mazzarri è stato sconfitto da Conte, Carrera e Alessio. In pratica, Madama ormai viaggia con il pilota automatico.

La vittoria ottenuta dal Napoli in coppa Italia contro i bianconeri resta un trofeo da esibire in bacheca e sulla maglia, ma rischia di diventare un limite alla crescita di quella società nel caso in cui non dovesse decidere di aggiungere qualcosa di diverso ad un metodo di gioco che si adatta unicamente all’avversario di turno. Se la strada che verrà intrapresa continuerà ad essere quella, almeno dovrà cercare di imparare dagli errori del passato: così come era accaduto a Pechino, sulla propria fascia destra Maggio è stato nuovamente travolto da Asamoah.

Durante l’analisi tecnica della partita, in diretta televisiva dagli studi di Mediaset Premium Arrigo Sacchi ha espresso un parere critico nei confronti della Vecchia Signora: “Per me questa vittoria non vuol dire molto. Quando vinci con merito è diverso, questa però è una vittoria differente. Non dico che è immeritata, ma era più giusto il pareggio. E' molto pericolosa questa partita per la Juventus, se non viene interpretata nel modo giusto ti può far pensare certe cose che non sono quelle vere”.

Il concetto, banale, è che “non è tutto oro quel che luccica”. Il discorso, ovviamente, non riguarda certo l’astro nascente Paul Pogba, quanto il rischio che Madama smetta di cercare di migliorarsi continuamente in virtù di un avvio di campionato in cui i numeri parlano di un probabile dominio bianconero durante questa stagione.

I suoi limiti nel reparto offensivo sono evidenti, così come è altrettanto chiaro che nelle competizioni europee risaltano in maniera maggiore rispetto a quando accade in Italia. Alla Juventus, però, va anche dato atto di essere imbattuta da quarantasette incontri consecutivi in serie A. Prima di lei soltanto il Milan di Fabio Capello aveva saputo far meglio. Quello stellare guidato dallo stesso Sacchi si era fermato prima. Nel valutare una singola gara nella sua completezza, forse, è opportuno considerare prima tutti gli elementi.
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sabato 20 ottobre 2012

Giuseppe Meazza, da Porta Vittoria alla conquista del mondo


"Il pallone è il mio amore: perché devo trattarlo male?". Per tracciare il profilo di un fuoriclasse a volte basta semplicemente mettere in evidenza alcune delle parole da lui pronunciate. Questa considerazione vale anche per Giuseppe Meazza, detto "Peppìn", “Peppino”, "Pepp" o "Pinella", uno dei più grandi calciatori della storia del calcio italiano. A dire la verità possedeva anche un altro soprannome, "Balilla", dovuto ad un aneddoto relativo al suo esordio con la maglia dell'Inter, a Como, nella coppa Volta. Scovato da Fulvio Bernardini e lanciato in prima squadra dal tecnico ungherese Árpád Weisz, la sua presenza nell'undici iniziale nel corso di quella manifestazione aveva provocato una battuta del compagno di squadra Leopoldo Conti: "Adesso facciamo giocare anche i Balilla!".

In tutta risposta Meazza aveva messo a segno una doppietta. All'uscita dal campo lo stesso Conti lo prese sottobraccio per poi complimentarsi con lui. Era il 1927 e il giovanissimo Giuseppe, nato nel 1910, senza neanche saperlo aveva iniziato a scrivere la storia di una leggenda. La sua, iniziata a Milano tirando i primi calci al pallone nel quartiere di Porta Vittoria. “Porta” e “Vittoria”, quasi un segno del destino: nel corso della carriera segnò una valanga di goals dentro le porte avversarie e le vittorie accumulate furono la logica conseguenza.

Più di quattrocento partite giocate in carriera, quota duecentocinquanta reti realizzati abbondantemente superata, un palmarès dove si possono trovare due scudetti ('30 e '38), una Coppa Italia ('39) e tre titoli di capocannoniere ('30, '36 e '38), tutti conquistati con la maglia dell’Ambrosiana Inter. Rimasto orfano a soli sette anni (il padre era morto durante la prima guerra mondiale), era stato cresciuto dalla madre Ersilia. Da ragazzino aveva partecipato a diverse gare podistiche, ma la buona attitudine allo sforzo atletico non gli aveva evitato la delusione della bocciatura del Milan a causa del fisico gracile.

Centravanti o mezz’ala, il suo talento gli consentiva di giocare ovunque. In questo senso è stato il precursore del calciatore moderno, lui che aveva conquistato il primo campionato di serie A con la formula del girone unico. Era diventato un personaggio anche al di fuori del rettangolo verde: donne, auto (un privilegio, all’epoca), divertimento, gioco, abiti alla moda. Simboleggiava l’uomo che era riuscito a sfondare partendo dal nulla, grazie alla sua classe infinita.

Non ancora ventenne aveva esordito in nazionale, a Roma, il 9 febbraio del 1930, realizzando una doppietta contro la Svizzera (4-2 il risultato finale). Un’altra, tanto per gradire. Con Vittorio Pozzo sulla panchina azzurra aveva conquistato i mondiali del 1934 e del 1938. Proprio nel corso di quest’ultimo, il 16 giugno a Marsiglia, nella semifinale contro il Brasile aveva segnato su rigore tenendo per mano i pantaloncini: era saltato l’elastico, ma neanche quello era bastato a frenarlo. Era stato capace di anteporre il bene della squadra all’egoismo personale, lasciando il ruolo di attaccante ad Angelo Schiavio prima e Silvio Piola poi. Parlando di lui Pozzo amava dire: "Averlo in squadra significava partire dall'1-0". Le monumentali prestazioni contro l’Ungheria nel 1930 (tripletta) e con l’Inghilterra nel 1934 (doppietta) lo consegnarono alla storia prima ancora che la cronaca avesse finito di compiere il proprio percorso. Con la maglia dell’Italia siglò la bellezza di trentatré goals.

Era stato fermo per una stagione intera a causa di un infortunio, il celebre “piede gelato” (dovuto ad un'occlusione dei vasi sanguigni), per poi passare al Milan. Ancora innamorato dell’Inter, si era trasferito alla Juventus dopo due soli campionati, firmando il contratto – per comodità - sdraiato sull’erba del un campo d’allenamento. Negli ultimi spiccioli di carriera aveva incrementato le esperienze con Varese, Atalanta e ancora Inter, salvandola dalla retrocessione in serie B. Aveva provato a cimentarsi nel ruolo di allenatore, ma di lui resteranno celebri soltanto le imprese con le scarpette ai piedi.

Dopo la sua morte, avvenuta a Rapallo nel 1979, gli è stato intitolato lo stadio di “San Siro”, laddove migliaia di tifosi avevano potuto ammirarlo a più riprese mentre attirava il portiere vicino a sé, per poi scartarlo e depositare la palla in rete. Quelli erano i “suoi” goal.

Naturalmente anche lui aveva un punto debole, con tanto di nome e cognome: Ricardo Zamora. Quando ne parlava faceva fatica a nascondere il rammarico: “Era il portiere più famoso del mondo, era spagnolo. In nazionale non riuscii mai a vincerlo. Soltanto una volta, in amichevole, gli segnai un goal. Zamora aveva due mani gigantesche, da gorilla, e a me bastava mangiare un poco di più la sera per sognarmi di notte le sue grandi mani sul mio pallone. Era il mio incubo. Mi sono battuto contro di lui con rabbia, e lui sapeva che lo temevo, che avrei dato chissà cosa per segnargli un gol. Zamora era un buono fuori del campo, ma davanti alla porta era un muro, una montagna di pietre. Quella volta che gli feci il goal, sparando da quindici metri, lui venne dritto a darmi la mano. 'Bravo, mi disse. Bravo Balilla'”.
Non è escluso che lontano da qui, da qualche parte, lo stia ancora cercando per proporgli una rivincita. Magari nel suo stadio. Al riparo, stavolta, da occhi indiscreti.
Articolo pubblicato su Lettera43

giovedì 18 ottobre 2012

La nazionale vince e frena le polemiche


Prima di fare qualsiasi considerazione sulle gare appena disputate dalla nazionale di Cesare Prandelli contro Armenia e Danimarca, lasciamo che siano i numeri a parlare: sei goals segnati, due subiti, sei punti conquistati e la distanza sulla seconda in classifica nel girone B di qualificazione ai mondiali brasiliani (attualmente la Bulgaria) portata a quattro lunghezze.
A onor del vero va ricordato che la Repubblica Ceca, terza, dovrà disputare ancora una partita. Nell'ipotesi in cui dovesse vincerla, comunque, si porterebbe a quota "meno due" dall'Italia.

Questo doppio impegno ravvicinato degli azzurri verrà ricordato, nel tempo, come uno dei peggiori viatici possibili all'ormai prossimo scontro in campionato tra Juventus e Napoli, in programma sabato 20 ottobre a Torino. Non sono mancati, infatti, sospetti, veleni, illazioni a non finire su qualsiasi situazione potesse riguardare - direttamente o indirettamente - alcuni tra i probabili protagonisti della gara, anche se in questi giorni si trovavano sparsi per il mondo con le rispettive selezioni.
Stuzzicata in conferenza stampa in merito al celebre "biscotto" contro la Svezia negli Europei del 2004, la comitiva danese ha fatto fatica a nascondere - dietro sorrisi di circostanza - qualche fastidio. Gli è poi bastato buttare l’occhio in serie A per rimandare al mittente qualsiasi tipo di insinuazione sul comportamento tenuto in Portogallo otto anni fa.

Armenia e Danimarca non erano certo ostacoli insormontabili per gli uomini di Prandelli, ma il fatto di essere riusciti a non scivolare sulla classica buccia di banana rappresenta comunque una nota di merito.
Se nelle gare precedenti (contro Bulgaria e Malta) era mancato Balotelli, in quest’occasione il commissario tecnico ha deciso di rinunciare ad Antonio Cassano. Gianluigi Buffon, sul tema, ha mostrato di avere le idee chiare: "L’assenza di Cassano in questa Italia non mi sorprende. Il progetto adesso prevede forza fresche, sperando che l’evoluzione sia rapida. Il Mondiale infatti non è così lontano, e anche la Confederations Cup a giugno andrebbe onorata".

Il fantasista dell'Inter non si è perso d'animo, trovando il modo di far parlare di sé: ospite della trasmissione “Che tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio, ha motivato il suo mancato passaggio alla Juventus affermando di averla "rifiutata" in tre diverse occasioni. Perché? "Ho l’idea che lì vogliano solo soldatini che vadano diritti sul binario". Leonardo Bonucci, tramite il proprio profilo ufficiale di twitter, gli ha risposto usando meno dei 140 caratteri disponibili: "Più che soldatini... professionisti!".

Punto e a capo.

De Rossi e Osvaldo, momentaneamente accantonati da Zeman alla Roma, si sono tolti qualche soddisfazione in nazionale: con una rete a testa hanno spinto l'Italia alla vittoria ottenuta in Armenia (3-1, a Yerevan). In vantaggio grazie al rigore realizzato da Pirlo (il migliore in campo), gli azzurri - infatti - erano stati momentaneamente raggiunti da Henrikh Mkhitaryan, l'uomo di spicco dello Shakhtar Donetsk di Lucescu. Prandelli, contento in un primo momento per l'esito della gara ("Ho visto una grande partita di una squadra con grande personalità. Non voglio parlare di svolta, ma avevamo bisogno di una partita così"), ha poi cambiato improvvisamente umore dopo aver letto i giornali ("Avevamo pensato di aver fatto una buona gara e il clima nello spogliatoio alla fine lo confermava, ma leggendo i giornali abbiamo letto qualcosa di diverso. A parte la Spagna, non ci sono squadre che dettano legge in ogni partita o vincono ancora prima di iniziare").

Contro la Danimarca, a Milano, De Rossi è stato nuovamente protagonista, segnando il goal del raddoppio dopo la prima rete messa a segna da Montolivo. Di Kvist e Balotelli (ottima la sua prestazione) le altre marcature della serata (3-1 il risultato finale). Osvaldo, espulso all'inizio della seconda frazione di gioco, è finito dietro la lavagna. Stavolta Prandelli era visibilmente soddisfatto: "In 10 abbiamo lottato con ordine e determinazione. Ora siamo in po’ più sereni ma dobbiamo migliorare. La rete subita alla fine del primo tempo poteva costarci cara. Ma in dieci siamo stati molto ordinati anche se abbiamo speso molto".

La settimana azzurra si chiude con il lieto fine, con la ciliegina sulla torta rappresentata dai complimenti che Lionel Messi ha riservato ad Andrea Pirlo. Subito dopo la gara vinta dall'Argentina contro l'Uruguay, dove ha segnato l'ennesima doppietta della carriera, ha infatti dichiarato: "La mia punizione è nata guardando quella che Andrea ha fatto contro il Siena, facendo passare la palla sotto la barriera avversaria". La risposta dello juventino non si è fatta attendere: "Davvero ha detto così? Non lo sapevo, mi fa piacere".
Tutto bello, nella speranza che duri.
Perché sabato prossimo ci sarà Juventus-Napoli, ed è forte il sospetto che le polemiche che l’accompagnano possano rovinare un simile momento di festa.
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sabato 13 ottobre 2012

Lev Jašin, il ‘Ragno nero’


Lev Ivanovič Jašin era solito prendere appunti sulle caratteristiche dei suoi avversari (movenze e stili di gioco) per poi raccoglierli dentro un quaderno, suo prezioso alleato, prima di affrontarli sui campi di pallone. Su di lui Enrico Albertosi diceva: “Lo vedevi tra i pali ed era un gatto, con una rapidità ed una sveltezza incredibili. Aveva due braccia che gli arrivavano oltre le ginocchia, quando si posizionava in porta”.

Josef Maier, il leggendario numero uno del Bayern Monaco e della nazionale tedesca, lo ha descritto – invece - con queste parole: “Quando prendeva il pallone a terra era come una pantera. Stava rannicchiato sulla palla. Guardava a destra e a sinistra, come se dovesse nasconderla. Poi scattava in piedi. E rinviava.....”.

Jašin è stato votato come il miglior portiere del XX secolo dall’IFFHS, l’Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio. Si è trattato di un riconoscimento tra i numerosi (e prestigiosi) ricevuti durante e dopo una carriera da estremo difensore della Dinamo Mosca e dell'URSS, le due squadre della sua vita.

Soprannominato il ‘Ragno nero’ per il colore della divisa che indossava prima di infilare i guanti, è stato l’unico portiere a vincere il prestigioso Pallone d’Oro (1963). I pali e la traversa, per lui, erano compagni di gioco non soltanto sui prati verdi: prima di esordire nel calcio che conta aveva infatti conquistato un campionato sovietico di hockey su ghiaccio. Sempre, ovviamente, per la Dinamo Mosca, la squadra del Ministero per gli Affari Interni del suo paese.

Nato nel 1929, appena dodicenne si era ritrovato a lavorare in fabbrica. Partito dal basso, gli era mancato il mondiale per arrivare a toccare il cielo con un dito. Sull’argomento, intervistato qualche mese prima di Italia ’90, aveva dichiarato: “Mi sembra che la nostra squadra non sia ancora pronta a diventare una grande nazionale. Sono necessarie tradizioni che noi ancora non abbiamo. L'Italia ed il Brasile le hanno, per questo hanno vinto diverse volte la Coppa del Mondo. Le tradizioni contano quasi più dei soldi. Ma forse un giorno o l'altro i calciatori sovietici potranno assaporare il piacere di questo successo”.

Aveva smesso di giocare a quarantuno anni, esattamente come Dino Zoff, che così lo aveva voluto ricordare il giorno in cui era mancato a causa di un tumore allo stomaco: “Per me è stato senza dubbio un modello, anche se direttamente l'ho visto giocare solo nell'ultima parte della sua carriera, quando ormai quarantenne stava per ritirarsi. Comunque lui prima e l'inglese Banks poi sono stati i giocatori cui mi sono ispirato. Ci legava una grande amicizia e quando festeggiai a Sanremo il mio addio al calcio Jašin volle essere presente”.

A proposito di Gordon Banks: anche il portiere inglese, arrivato secondo nella speciale classifica dell’IFFHS davanti a Zoff e Maier, aveva speso bellissime parole a favore del ‘Ragno Nero’: “Era un grandissimo portiere. E un vero signore”.

Nel palmarès di Jašin figurano cinque campionati sovietici e tre coppe dell’URSS, un Oro olimpico (1956) ed un Europeo (1960), accompagnati da una serie lunghissima di aneddoti e leggende. Di lui si era detto che parava moltissimi tiri dal dischetto (oltre cento in tutta la carriera) perché ipnotizzava l’avversario: “Non ho poi parato così tanti rigori. Praticamente parare un tiro dagli undici metri è impossibile. Gli undici metri, per un portiere, creano una situazione molto sgradevole. Per esempio: adesso mi ricordo il penalty di Mazzola che ho parato in Italia (10/11/1963, ndr.). Io contavo sempre sull’errore dell’avversario. Pensavo: ‘se l’avversario sbaglia, sei avvantaggiato’, sapendo che la porta è enorme, e che è facilissimo segnare. Invece al giocatore sembra che la porta sia piccolissima, e il portiere enorme. Dunque chi attacca e sbaglia, aiuta il portiere che para. Era stato un errore di Mazzola… E se non avesse sbagliato? Avrebbe fatto goal. E nessun Jašin sarebbe stato in grado di parare”.

Aveva preso parte a quattro edizioni dei campionati mondiali, non partecipando da protagonista all’ultima, quella disputata in Messico nel 1970, dove aveva trionfato il Brasile di Pelè. Il fuoriclasse verdeoro era stato invitato al suo addio al calcio, avvenuto allo stadio “Lenin” di Mosca il 27 maggio del 1971 e celebrato grazie ad un’amichevole contro il Resto del Mondo. “Tutti mi chiedono il campione che ho preferito. Anch’io ho avuto un idolo ed è stato Pelè, il brasiliano non ha strabiliato con il suo talento solo i tifosi, anche noi avversari, appassionati, innamorati del calcio. Per i portieri era un inferno. Sapeva inventare dei gol così belli e interessanti che certe volte per lo stesso portiere era quasi un piacere vedere come Pelè riusciva a realizzarli. Vi dico di più: io sono orgoglioso che Pelè mi abbia segnato dei gol, certi gol. Sì, ne sono orgoglioso. Lo giuro”.

Umile, sincero, sportivo nel senso più profondo della parola, Jašin non si considerava il migliore del mondo. “Può darsi che sia frutto della fantasia giornalistica”, amava sostenere.
Questa, però, era riuscita talmente bene da risultare vera.

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giovedì 11 ottobre 2012

"Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione". Intervista a Marco Iaria



"Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione" è il libro scritto da Marco Iaria, giornalista della "Gazzetta dello Sport", in onore del fuoriclasse russo che in molti hanno definito il "Pelé bianco".

Calciatore dotato di un talento cristallino, nel corso della propria carriera Streltsov aveva militato soltanto nella Torpedo Mosca rifiutando le proposte avanzate dalla Dinamo e dal Cska, club legati all'apparato militare sovietico nella seconda metà degli anni cinquanta del vecchio secolo.
Avrebbe potuto incrociare lo stesso Pelé durante il mondiale tenutosi in Svezia nel 1958, ma il fuoriclasse russo non prese parte alla manifestazione: accusato di violenza carnale, consumata ai danni di una donna nel corso di una festa svoltasi qualche giorno prima dell’inizio del torneo, era finito in prigione e successivamente nel gulag, dove trascorse cinque anni.
Dietro al processo a suo carico, sommario e veloce, ci furono troppi buchi vuoti. Compreso quello creato dal rifiuto di sposare la figlia di una potente donna membro del Politbjuro, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico.
Al regime non piaceva quel ragazzo che incantava le folle, amava la bella vita e le donne, troppo lontano dal modello socialista voluto dalla dittatura. Tornato in libertà, aveva poi guidato la Torpedo alla conquista del secondo titolo nazionale della propria storia. In nazionale aveva segnato 25 goals in 38 partite disputate.
E' morto all'età di 53 anni, nel 1990, a causa di un tumore.

Ancora oggi il colpo di tacco in Russia viene chiamato "alla Streltsov", nel ricordo delle magie di quel campione.
Marco Iaria, in esclusiva per "Pagina", risponde ad alcune domande sul suo libro.

In passato hai confessato di essere rimasto colpito dalla vicenda umana e sportiva di Eduard Streltsov dopo averne sentito parlare in un documentario. Successivamente ti sei convinto a scrivere un libro sull'argomento. C'è stato un episodio, in particolare, che ha catturato maggiormente la tua attenzione rispetto ad altri?

Più che un episodio, mi ha colpito, da giornalista, la superficialità e, a volte, l’irriverenza con cui i fatti che succedevano al di là della cortina di ferro venivano raccontati dalla stampa occidentale. Anche una rivista autorevole come Time si permise di pubblicare, nel 1958, un album segnaletico, tipo quelli appesi nei commissariati di polizia. Vennero raccontate, con tono ironico, storie di sportivi finiti nel mirino dei regimi comunisti, compreso Streltsov. Senza interrogarsi se dietro quegli aneddoti si stessero consumando tragedie umane.

Il lavoro di ricerca del materiale sul quale hai basato la tua opera è stato imponente. Chi ha avuto modo di leggerla immagino se ne sia reso conto quanto il sottoscritto. Durante quella fase ti è mai capitato di trovarti in una situazione così difficile da farti pensare "Ma chi me lo ha fatto fare?"

La ricerca, in effetti, è stata la sfida più affascinante e allo stesso tempo complicata. Icona in patria, Streltsov è quasi sconosciuto in Occidente. Proprio questo mi ha spinto ad andare oltre. Con un ostacolo apparentemente insormontabile: il cirillico. Per fortuna un mio amico, Dario Magnati, che insegna il russo, mi ha aiutato traducendo tutta la documentazione originale e facendo da interprete. Il lavoro più arduo è stato ricostruire il periodo di detenzione di Streltsov nel gulag. Pensavo di non farcela, ma sapevo che una ricostruzione la più dettagliata possibile di quegli anni avrebbe dato un valore aggiunto all’opera. Così, dopo diversi tentativi, ho scoperto quel bellissimo recupero della memoria che è riuscita a fare un’associazione di parenti e amici di ex detenuti dei campi del Vjatlag.

La stesura definitiva del testo è passata anche tramite la conoscenza diretta dei familiari del protagonista. Che idea si sono fatti della vicenda capitata al fuoriclasse? Hanno avuto modo di leggere il tuo libro o comunque di conoscerne il contenuto?

Il figlio Igor ha raccontato che in punto di morte Streltsov fece allontanare tutti dalla stanza, chiamò vicino a sé la moglie Raisa e le disse che era innocente. Quella fu l’unica volta che l’argomento venne trattato in famiglia. C’era pudore nel parlarne e anche io l’ho percepito. I contatti maggiori, comunque, li ho avuti col nipote del calciatore, si chiama Eduard pure lui, ha vent’anni ed era il più interessato al fatto che in Italia uscisse un libro sul nonno. Gli sono grato per avermi concesso l’archivio fotografico di famiglia.

L'elenco delle nazionali di calcio utilizzate come strumento di propaganda di un regime, purtroppo, è lungo: l’Italia di Mussolini, la Germania di Hitler, la DDR e lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) nei mondiali del 1974, l’Argentina in quelli del 1978 e via discorrendo. La gestione dell’uomo-Streltsov ritieni che sarebbe stata simile nelle realtà elencate, oppure quella sovietica era stata particolarmente feroce e risolutiva nei suoi confronti?

Streltsov non era funzionale al regime perché il suo stile di vita mal si conciliava con l’ideale dell’uomo sovietico che gli sportivi, specialmente i calciatori, dovevano interpretare. Non è un caso se venne fatto fuori dal Mondiale del 1958 a pochi giorni dalla partenza e in seguito, dopo il ritorno dal gulag, non riuscì a partecipare a nessuna fase finale di un Europeo o di un Mondiale.

Dopo i primi goals segnati nel calcio professionistico, quando ancora era ragazzino, Streltsov gioiva ma non esultava troppo. Puntava a migliorarsi continuamente. Se fuori dal campo il suo comportamento era criticabile, con le scarpette ai piedi era un campione di tutto rispetto. Sotto questo punto di vista quali fuoriclasse del presente o del passato ti ha ricordato?

Difficile fare paragoni per me non avendolo visto giocare, se non in spezzoni di partite recuperate in Rete. Chi l’ha visto dal vivo me l’ha raccontato come un calciatore atipico rispetto al cliché sovietico, capace di unire potenza e fantasia. Il suo essere centravanti ma allo stesso tempo ispiratore della manovra mi fa venire in mente il grande Di Stefano. Di sicuro, sul piano della qualità e dell’intelligenza, era di una spanna sopra a tutti in Russia.

Dopo un'infanzia difficile, grazie al successo nel calcio per Streltsov arrivarono soldi e notorietà. Poi fu la volta della campagna denigratoria nei suoi confronti, per finire con l'arresto e gli anni trascorsi nei gulag. E' giusto affermare che la sua più grande vittoria sia stata quella di tornare a giocare ad altissimi livelli dopo gli anni di prigionia?

Sicuramente. Dopo il gulag, il suo ritorno al calcio venne ostacolato in tutti i modi da qualche zelante funzionario di partito. Ci furono petizioni e cori allo stadio da parte dei tifosi, probabilmente tutto quell’affetto diede a Streltsov una spinta straordinaria. Il risultato fu che nella stagione del rientro, nel 1965, contribuì alla vittoria del campionato nazionale, fu premiato per due anni di fila come migliore giocatore sovietico dai giornalisti e riconquistò la maglia dell’Urss. Un testimone oculare che lo vide giocare prima e dopo il gulag, l’inglese Jim Riordan, mi ha raccontato di come i campi di lavoro lo avessero segnato: capelli caduti, fisico appesantito, aria dimessa. Ma la classe rimase intatta.

Uno degli aspetti della storia del calciatore che colpisce maggiormente è il fortissimo legame che aveva instaurato con la squadra della sua vita, la Torpedo Mosca. Quanto ritieni sia stato importante per Streltsov sapere che fuori dall'incubo che stava vivendo c'era ancora chi credeva in lui?

Tantissimo. Il calcio è stato la salvezza di Streltsov nel gulag. Il fatto che, per ragioni propagandistiche, venisse praticato nei campi, con tanto di tornei e coppe da assegnare, fu un enorme vantaggio per lui. Gli consentì di tenersi in allenamento e soprattutto di sentirsi ancora un calciatore. A Tula il suo compagno di squadra Sustikov andava a trovarlo assieme alla madre più volte al mese e gli portava palloni, magliette, generi alimentari, tutto ciò che i ragazzi della Torpedo riuscivano a raccogliere per rendergli l’esistenza più sopportabile.

E' risaputo che paragonare giocatori di epoche (e realtà) differenti è un esercizio che inevitabilmente porta a risultati dal valore più soggettivo che oggettivo. Dal tuo punto di vista, senza l'allontanamento forzato dai campi di gioco quale posizione avrebbe occupato Streltsov nella classifica dei migliori calciatori di tutti i tempi?

Di sicuro avrebbe potuto essere ricordato come il calciatore russo più forte di sempre. A livello internazionale i dubbi sono legati al suo essere genio e sregolatezza. Secondo Gabriel Hanot, l’inventore del Pallone d’Oro, a vent’anni Streltsov era ‘la più grande promessa del calcio mondiale nel ruolo di centravanti’. Vorrei ricordare che, nonostante una carriera spezzata, si piazzò una volta settimo e due volte tredicesimo nella classifica del Pallone d’Oro.

L’ultima domanda, prima di salutarci: c'è un altro calciatore per il quale avresti voluto (o vorresti) scrivere un libro?

Di sicuro mi sarebbe piaciuto moltissimo ripercorrere le orme di Arpad Weisz, l’allenatore ebreo deportato ad Auschwitz, visto che proprio l’Italia, per via delle leggi razziali, fu la prima tappa del suo calvario. L’ha fatto con sensibilità e rigore Matteo Marani e il suo libro è un piccolo gioiello della memoria.

Grazie per l’intervista.
Una nota, per concludere: all’inizio del 2013 uscirà la ristampa del libro, nella collana di tascabili Limina Pocket.

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martedì 9 ottobre 2012

Juventus-Napoli e i pronostici scontati


Sette partite giocate nell'attuale campionato di serie A, delle quali sei vinte ed una pareggiata (contro la Fiorentina di Montella), diciassette goals fatti e soltanto quattro subiti, diciannove punti accumulati su un totale di ventuno a disposizione, sei in più di quanti ne aveva conquistati nella scorsa stagione a parità di incontri disputati. Quelli appena sciorinati sono i numeri, impressionanti, della Juventus guidata dal duo Carrera-Conte. Senza dimenticare, poi, che grazie al successo ottenuto a Siena Madama ha raggiunto la ragguardevole quota di quarantasei partite consecutive senza sconfitte.

Se il Napoli di Mazzarri non si trovasse appaiato in vetta alla classifica con lei, in questo momento si potrebbe parlare - a ragion veduta - di una Vecchia Signora vicina a far suo il tricolore sin dalle prime battute del campionato. Il caso vuole che nella prossima giornata, terminata la sosta dovuta agli impegni delle varie nazionali, le due contendenti si troveranno una di fronte all'altra a Torino.

La vittoria dell'Inter in un derby condizionato dall'operato di Valeri ed il facile successo esterno della Lazio a Pescara hanno fatto sì che dietro le prime della classe non ci sia ancora il vuoto. E' difficile pensare che le squadre guidate da Stramaccioni e Petkovic possano realisticamente ambire allo scudetto, però la strada verso la vittoria finale è ancora lunga e tortuosa per tutti. Nella scorsa stagione in pochi avrebbero puntato qualcosa sul trionfo degli uomini di Conte, escludere a priori - adesso - una sorpresa potrebbe rivelarsi un errore.

Non potendo disporre in attacco dell'apporto di un fuoriclasse dalle potenzialità simili a quelle dei vari Ibrahimovic, Messi, Cristiano Ronaldo e Radamel Falcao (quattro protagonisti del fine settimana nei rispettivi campionati), alla Juventus "basterebbe" un Cavani per sbloccare a proprio favore gli incontri, senza dover macinare chilometri nell'attesa che il cannoniere di giornata tiri fuori dal cilindro il colpo vincente.

Dopo la gara di Siena Carrera ha tenuto a precisare il personale apprezzamento per il lavoro svolto dalle sue punte: "Quasi tutte le squadre si chiudono e gli attaccanti magari fanno lavoro anche sporco che permette ai centrocampisti di segnare. Questo è il nostro gioco". Il numero di reti realizzate dalla Juventus sino ad oggi, d'altronde, sembra avvalorare la sua tesi.

Favorita per lo scudetto nel contesto di una serie A livellata verso il basso, alla Juventus spetta il compito di dosare le forze a propria disposizione in tre manifestazioni (a dicembre inizierà a giocare in coppa Italia) cercando di non perdere terreno in termini di competitività. Se puntare alla conquista della Champions League, almeno in questa stagione, è obiettivamente difficile, nella coppa nazionale Madama dovrà cercare di far meglio rispetto all'ultima edizione, laddove aveva perso in finale contro il Napoli. Ancora lui.

E' accaduto più volte, in passato, che pronostici in apparenza scontati alla fine si siano rivelati degli errori di valutazione. Perché le variabili sono molte, e non sempre tutte preventivabili.
Il Milan stellare di Arrigo Sacchi ha fatto epoca in Europa e nel mondo, ma in Italia ha vinto uno scudetto su quattro a disposizione. La prima Juventus trapattoniana, durata dieci anni, di tricolori ne aveva conquistato sei. Viceversa, guardando il rovescio della medaglia si potrebbe sostenere come ne abbia persi quattro.

E' vero, esistono gli avversari, dovranno pur vincere qualcosa anche loro.
Queste sono considerazioni che di norma si fanno col senno di poi, quando i giochi sono terminati. Per adesso la corsa alla vittoria finale è ristretta alla Vecchia Signora e al Napoli.

Le dichiarazioni di Walter Mazzarri subito dopo la scoppola subita contro il Psv Eindhoven in Europa League (0-3, lo scorso giovedì) dovrebbero far riflettere i bianconeri: “I punti o li perdi in campionato o li perdi nelle coppe: se oggi avessi schierato tutti i titolari e se fossimo andati a mille all’ora avremmo pagato di sicuro contro l’Udinese”.
La Juventus è avvisata.

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lunedì 8 ottobre 2012

Un pò di analisi oltre la vittoria


Questo articolo è di Danny67. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Un Bianconero a Roma

Ieri pomeriggio, immediatamente dopo la fine del match Siena – Juventus, terminato con la vittoria dei bianconeri torinesi per 2-1 ho inviato un sms al nostro amico Thomas lagnandomi per l’eccessiva sofferenza con cui la Vecchia Signora è riuscita a portare via i tre punti dall’Artemio Franchi di Siena, contro una compagine messa bene in campo quanto si vuole, ma decisamente inferiore di livello rispetto ai Campioni d’Italia in carica. 

La risposta che mi è giunta, della quale vi riporto il senso, mi ha fatto riflettere; in effetti è vero, si è dovuto faticare tantissimo ed i tre punti proprio per questo sono preziosissimi, ma il nostro Thomas mi ha fatto notare come su 7 gare di campionato la Juventus ne abbia vinte 6. Già, i numeri alla fine parlano molto più chiaramente delle nostre sensazioni e la realtà è che non si può vincere sempre e soprattutto sempre senza mai concedere niente all’avversario. D’altra parte se mi avessero detto all’inizio del campionato che dopo 7 partite saremmo stati ancora in testa alla classifica e per giunta imbattuti beh…forse non ci avrei creduto. 

Il ruolino di marcia di Madama, da quando a guidarla è il nostro Antonio Conte (seppur ultimamente dai gabbiotti delle tribune e non da dove meriterebbe e cioè in panchina), è in effetti spaventoso e magari non dovrei essere così tanto esigente, viste le soddisfazioni che i ragazzi ci stanno regalando da più di un anno. Però credo che qualcosina da analizzare attentamente ci sia anche se penso e spero che lo stesso Conte vi stia già ponendo rimedio. 

1) Il modulo: A pensarci bene la vittoria finale è arrivata nel momento in cui si è tornati al 4-3-3 con Giaccherini, Barzagli, Chiellini e Asamoah dietro (ma non troppo), Pirlo, Marchisio e Vidal a metà campo e Vucinic, Quagliarella e Giovinco davanti. A mio modo di vedere, ed anche andando a memoria pensando alla maggior parte dello scorso campionato, le migliori prestazioni la Juventus le ha proposte con il 4-3-3, mentre l’attuale 3-5-2 secondo me penalizza troppo gli esterni. Mi spiego: le sovrapposizioni dell’anno passato tra Pepe e Lichtsteiner sono state una tra le migliori soluzioni in assoluto sulle fasce mentre in questa stagione il terzino svizzero, per ovvi motivi, fatica troppo a coprire da solo tutta la fascia destra. Con l’obbligo di fare il terzino, l’esterno di centrocampo e in alcuni momenti l’incursore d’attacco in area avversaria finisce per perdere la necessaria lucidità in tutte queste fasi. Inoltre non so, ma mi sembra che la retroguardia, con questo schieramento sia più vulnerabile. 

2) Ho visto diversi calciatori stanchi ieri; Vidal, e Lichtsteiner su tutti. Oltre ad un Vucinic di nuovo in infradito e che forse andava tolto prima. 

3) Nonostante tutti oggi ne abbiano parlato molto bene, io continuo a non essere soddisfatto di Giovinco che si è dato sicuramente molto da fare ma che ogni volta finisce per trasformare in nulla quello che prepara con grande spettacolarità. 

4) Per ultimo vorrei parlare di Bendtner. Possibile che sia talmente scarso da non meritare mai nemmeno una chance? 

Ultimo pensiero allo striscione visto ieri nella curva dei tifosi juventini in quel di Siena. C’era scritto “il nostro silenzio sarà assordante”. A prescindere da chi abbia ragione o torto tra tifosi e società io inviterei tutti a dimenticare per un attimo le polemiche e le proteste. La prossima partita sarà la sfida dell’anno contro quel Napoli che sembra essere l’antagonista più credibile della Juventus e uno Juventus Stadium trasformato in una bolgia sarebbe sicuramente più utile di uno stadio in cui a farla da padrone stavolta non sarebbe il silenzio ma le urla dei tifosi partenopei che sicuramente arriveranno in massa a Torino. Vogliamo giocare fuori casa?

sabato 6 ottobre 2012

Eduard Streltsov, il fuoriclasse che vinse anche dopo il gulag


Con i goals avrebbe potuto segnare un'intera epoca del calcio, il suo colpo di tacco - celebre tuttora in Russia - era diventato un marchio di fabbrica, sui campi da pallone incantava le folle. Però beveva, fumava e amava la bella vita, nel contesto di un paese come l’Unione Sovietica dove le regole di comportamento le stabiliva una dittatura.

Il talento di Eduard Streltsov era sbocciato precocemente. Giostrava da attaccante, nonostante nelle prime esibizioni lo avessero confinato sulla fascia destra. Ha legato la sua vita professionale alla Torpedo Mosca, la squadra legata alla fabbrica automobilistica Zis (Zavod Imeni Stalina, poi denominata Zil), rifiutando le proposte della Dinamo e del Cdsa (l’attuale Cska), club legati all'apparato militare russo nella seconda metà degli anni cinquanta del vecchio secolo.

Proprio in quel periodo era pronto a sfidare un altro astro nascente del football, Pelé, nel corso dei campionati mondiali che si erano tenuti in Svezia nel 1958. A quella manifestazione, però, non aveva preso parte: accusato di violenza carnale, consumata ai danni di una donna nel corso di una festa svoltasi qualche giorno prima dell'avvio del torneo, era finito in prigione e poi nel gulag, dove aveva trascorso cinque anni. Il processo a suo carico era stato sommario, veloce e pieno di buchi vuoti. Compreso quello creato da un altro "rifiuto", riservato all'offerta di sposare la figlia di una potente donna membro del Politbjuro, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico. Interrogato nel carcere di Butyrki, era stato spinto a confessare di aver compiuto il reato dietro la promessa di poter così raggiungere i compagni di nazionale. Ovviamente quel foglio di carta era poi diventato la conferma della veridicità delle accuse contro di lui.

Quanto era accaduto in quei frangenti non lo si poteva considerare un fulmine a ciel sereno: Streltsov da tempo era nel mirino della stampa del regime. Bastava un minimo errore compiuto dentro il prato verde, il suo regno, perché nei suoi confronti si scatenasse l'inferno. Eppure era un giocatore di tutto rispetto: a soli 19 anni, durante la semifinale dei giochi olimpici di Melbourne del 1956, con l'URSS sotto per 1-0 al cospetto della Bulgaria e con due uomini fuori uso (all'epoca non c'erano le sostituzioni) aveva guidato la sua nazionale ad un’incredibile rimonta avvenuta negli ultimi minuti dei tempi supplementari.

Era stato escluso dalla finalissima a causa di un'assurda scelta tecnica: infortunato il compagno d'attacco e amico Valentin Ivanov, era finito in panchina per fare spazio alla coppia offensiva dello Spartak Mosca. A lui, tanto per gradire, non era stata consegnata la medaglia d'oro: gli organizzatori la riservarono soltanto a chi aveva disputato l’ultima gara del torneo. Nikita Simonjan, il suo sostituto, aveva provato inutilmente ad offrirgliela.

E' diventato il più giovane marcatore di sempre nella storia della lega sovietica (16 anni, 8 mesi e 24 giorni ), era arrivato al settimo posto nella graduatoria del pallone d’Oro nel 1957 e aveva esordito in nazionale realizzando una tripletta alla Svezia nel corso di un'amichevole terminata con un tennistico 6-0. I gialloblù si vendicarono, poi, nel mondiale disputato tra le mura amiche: nei quarti di finale eliminarono i russi battendoli per 2-0. Nils Liedholm, il capitano dei padroni di casa, prima dell’incontro aveva sottolineato il loro punto debole: "L’URSS sta accusando nettamente l’assenza di un campione come Streltsov".

Tornato alla libertà nel 1963, ad ottobre dell'anno successivo gli venne revocata la squalifica a vita da Leonid Brežnev. Indossata di nuovo la maglia dell'amata Torpedo Mosca, che anche durante gli anni di prigionia non l'aveva mai fatto sentire solo, era riuscito a dimostrare che la sua classe era rimasta intatta, mentre il fisico – ovviamente - risentiva degli anni di stop forzato. Gli stadi avevano ripreso a ribollire dall'entusiasmo per lui. Questa, a detta di molti, è stata la sua colpa più grande. Nel 1965, come per miracolo, era arrivata la vittoria: la Torpedo Mosca trionfava in campionato, per la seconda volta nella propria storia. L’ostruzionismo nei suoi confronti, però, non era ancora terminato.

Il Kgb aveva deciso di non concedergli il visto per recarsi all’estero per disputare i mondiali inglesi del 1966. Due anni dopo, in compenso, conquistava la coppa nazionale. Nel 1967 e 1968 Streltsov era stato votato miglior calciatore sovietico, tornando a vestire la maglia dell’URSS, con la quale – in totale – aveva poi realizzato 24 reti su 38 presenze. Nel 1967 il suo nome era comparso nuovamente nella classifica del pallone d’Oro (al tredicesimo posto). E' morto all'età di 53 anni, nel 1990, a causa di un tumore ai polmoni provocato, con ogni probabilità, dalle esalazioni nelle miniere del gulag.

Marco Iaria, giornalista della "Gazzetta dello Sport", dopo accurate ricerche ha raccontato con dovizia di particolari la vita del calciatore nel libro "Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione".
Compreso quello legato agli ultimi istanti della sua vita, allorquando aveva abbracciato la donna che gli aveva donato piccolo Igor’ per confessarle di non aver mai fatto niente di tutto quello per il quale era stato accusato.

Articolo pubblicato su Lettera43