mercoledì 16 luglio 2014

Conte, un addio amaro alla Juventus


Sull'addio di Conte alla Juventus è stato detto e scritto tutto il possibile in un lasso di tempo ristretto, della durata di poche ore, iniziato dal momento stesso del diffondersi della notizia sino alla presentazione del nuovo allenatore di Madama. L'uomo Conte è sanguigno, verace, focoso. Ama così tanto la vittoria da attribuire alla figlia quello stesso nome. Il suo approccio al lavoro è diretto, appassionato, difficilmente riconducibile alla figura di un tecnico dalla mentalità "aziendalista". E' capace di mollare tutti e tutto in un amen, all'improvviso, senza farsi assalire da dubbi o ripensamenti di ogni genere.

La brusca interruzione del rapporto d'amore con la Vecchia Signora, d'altronde, ne è la riprova. Si è trattato di un amore ricambiato, sfociato in un matrimonio felicissimo durato tre anni. Il secondo tra le parti in causa, visto e considerato il passato bianconero del tecnico leccese nella doppia veste di giocatore e capitano.

Ora che la cronaca ha lasciato spazio alla storia si può anche riflettere con calma sulla situazione che si era delineata in casa bianconera negli ultimi tempi: Conte aveva manifestato i propri dubbi in merito alla sua permanenza a Torino in due occasioni differenti nell'arco di soli tre anni, non aveva ancora firmato il rinnovo del precedente contratto e mostrato più volte insofferenza verso la mancanza di competitività economica del club in rapporto al potere d'acquisto di altre grandi società europee. Più il tempo trascorreva, quindi, e maggiori erano i suoi disagi.

Conte e la Juventus si sarebbero lasciati comunque al termine della prossima stagione sportiva. Considerando quanto è accaduto in queste ore non è escluso che la rottura sarebbe potuto avvenire anche prima, ripetendo - a distanza di anni - lo stesso percorso di allontanamento dalla Signora già visto in occasione della fine del primo ciclo di Marcello Lippi a Torino.

Il rapporto tra l'ormai ex tecnico juventino e l'ambiente bianconero è stato denso di emozioni forti, di successi costruiti col lavoro, di una fiducia reciproca nata sin dal primo giorno e mantenuta nel corso di questi anni. Le sue Juventus sono state imbattibili, prima, e semplicemente le migliori dopo. Questo almeno in Italia. In Europa, invece, la squadra ha mostrato ripetutamente lacune sia dal punto di vista caratteriale che tattico. La mancata qualificazione agli ottavi di finale dell'ultima edizione della Champions League ha pesato notevolmente nelle casse del club bianconero, ben più di una successiva eliminazione nelle sfide ad eliminazione diretta. All'allenatore leccese non era stato chiesta la vittoria del massimo torneo continentale, bensì di compiere quel percorso minimo necessario per rimpinguare i conti economici.

Come ebbe modo di scrivere nella sua autobiografia, era stato lo stesso Conte ad andare a casa di Andrea Agnelli, tre anni fa, per proporsi e proporre al presidente della Juventus il suo calcio. “La Juve gioca come una provinciale”, gli aveva detto. A quel punto fu Agnelli a passare al contrattacco, domandandogli: “Tu cosa faresti se fossi il nuovo allenatore della Juventus?”. La risposta di Conte durò tre ore, sino a quando il padrone di casa non dovette assentarsi per qualche minuto, richiamato dalla moglie.

Si lasciarono, poi, con l'impegno di risentirsi al più presto. A distanza di qualche giorno Conte venne presentato alla stampa a Vinovo. Agnelli lo prese da parte prima di sbrigare la pratica: “Antonio, ti ricordi la nostra prima chiacchierata a casa mia, quando mia moglie era scesa in salone ed ero andato là con lei per qualche minuto? Mi ha chiesto chi fosse quel signore con cui parlavo da tre ore. E io gli ho risposto che in salone c'era il nuovo allenatore della Juventus”.

Adesso la palla passa tra le mani di Allegri. Il compito che gli spetta è veramente arduo.

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mercoledì 9 luglio 2014

La Germania umilia il Brasile



Tutto era cominciato con Didì, Vavà e Pelè. Poi venne la volta di Garrincha, Amarildo, Rivelino e via discorrendo, sino ad arrivare ai giorni nostri. Al solo sentire pronunciare il nome "Brasile" sono tantissimi gli appassionati di calcio che visualizzano immediatamente, da tempo immemore, l'immagine di un calciatore sudamericano mentre si diverte ad accarezzare con i piedi un pallone, accompagnato da una musica che ispira allegria.

Questo è accaduto sino a quando i terribili ragazzi tedeschi di Joachim Löw sono riusciti ad abbattere il loro mito in soli novanta minuti di gioco. Gli inglesi hanno inventato il football, è vero, ma poi a vincere sul campo hanno pensato gli altri. Con i brasiliani, appunto, in testa alla compagnia. E' curioso notare come nelle uniche due occasioni nelle quali questi ultimi hanno organizzato un mondiale in casa siano riusciti ad ottenere le sconfitte più umilianti della loro storia.

Nel 1950 erano stati gli uruguaiani a rovinare la loro festa in quella partita alla quale affibbiarono il nome di "Maracanazo". A distanza di sessantaquattro anni, e con cinque stelle portate orgogliosamente sul petto (simboli dei trionfi conseguiti nelle varie edizioni del torneo), sono riusciti a fare addirittura di peggio.

Il Brasile ha smesso di divertire e di divertirsi da quando ha iniziato a prendere come esempio il calcio troppo muscolare e poco fantasioso praticato da alcune nazionali europee. La Germania, viceversa, ha ripreso a diventare temibile per le avversarie da quando ha raccolto i risultati della crescita di una nidiata straordinaria di talenti capaci di dare del "tu" al pallone. Seguendo, in questo modo, lo stesso percorso intrapreso qualche anno prima dalla Spagna. L'arrivo a Monaco di Baviera di Guardiola ha migliorato, se possibile, questo processo di trasformazione.

Le assenze di Neymar e Thiago Silva non devono trarre in inganno: la Germania non ha soltanto messo a nudo le debolezze di una nazionale, bensì quelle di un intero sistema calcistico. Il Brasile aveva iniziato la propria leggenda nel lontano 1958, in Svezia, esattamente due edizioni dopo il "Maracanazo". L'attesa non fu breve, ma la gioia di vedere giocare quei campioni formidabili con il sorriso sulle labbra aveva ripagato un popolo che elesse ben presto i loro beniamini al rango di eroi.

Avevano nomi o soprannomi che nel nostro paese ispirarono anche una filastrocca musicale: Didì, Vava, Pelè. E potevano giocare a pallone senza pensieri nella testa. Quelli, tutt'al più, erano loro a crearli agli avversari.

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