Domani andrà in scena Juve-Lecce, una partita densa di significati per via degli intrecci calcistici fra le due squadre e le rispettive città.
Lecce ha prodotto alcune tra le più significative icone bianconere degli ultimi 40 anni: pensiamo a Franco Causio, il Barone, la fantasia e il Genio della Juve giovane e autarchica degli anni Settanta; a Sergio Brio, il granitico centrale dello squadrone a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta; e infine ad Antonio Conte, "il Capitano", il cuore di una squadra passata dalla carestia dei primi anni Novanta alla Grande Abbuffata che ha abbracciato la fine del Vecchio e l'inizio del Nuovo Millennio.
Tre uomini diversissimi fra loro, tre anime calcistiche senza molte affinità ma che hanno caratterizzato gli ultimi quattro decenni bianconeri.
Il geniale Causio, l'uomo che inventava calcio sopraffino e faceva impazzire il proprio marcatore, l'uomo deputato a fornire assist o a concludere l'azione personalmente con intuizioni che i "normali" nemmeno avrebbero potuto immaginare, nell'ultimo triennio della sua esperienza juventina divenne compagno del giovane e roccioso Brio, l'opposto del Barone, ovvero colui che aveva il compito di stoppare il gioco offensivo, un metro e novantadue centimetri di forza e grinta senza alcuna concessione all'estetica, ma con uno spiccato senso del gol che tante volte ha risolto partite importanti.
Brio, passato dal campo alla panchina come secondo di Trapattoni, avrebbe poi avuto alle sue dipendenze un suo concittadino: Antonio Conte.
Arrivato grezzo e silenzioso, quello che per tutti è rimasto "Il Capitano" divenne presto l'anima del gruppo, nonostante i tanti infortuni che ne segnarono la carriera. Quante volte lo diedero per morto e quante volte il Capitano smentì i suoi detrattori?
Quanto al rapporto fra le squadre, l'U.S. Lecce porta bene alla Juventus, che dai salentini è stata sconfitta 3 volte in 34 confronti diretti, il primo dei quali risale al lontano 1976-77, in una partita di Coppa Italia, quando a Torino la stella di Causio era ancora fra le più splendenti.
Ma è inutile girarci intorno: nella memoria dei tifosi juventini il club pugliese evoca soprattutto una data, 20 aprile 1986; una partita, Roma-Lecce; e un risultato, 2-3.
Per chiarire ai più giovani cosa significò quella domenica, beh... chi ha vissuto il 5 maggio 2002 sappia che quella volta accadde la stessa cosa.
Leggendo i freddi numeri le due vicende sembrano apparentemente diverse: l'Inter di Cùper finì per suicidarsi da padrona del proprio destino, mentre Roma e Juve nel 1986 erano appaiate a due giornate dal termine.
In realtà, la Roma di Eriksson e del polacco ripudiato e in cerca di vendetta aveva compiuto una rimonta "monstre" su quella che sarebbe stata l'ultima grande Juve prima di un decennio di magre figure, esclusa la parentesi zoffiana.
La stagione vide la Juventus partire a razzo fra statistiche da primato e un gioco brillante e arioso, col senno di poi si capì che il lavoro estivo era stato finalizzato a privilegiare l'appuntamento con la Storia con la "s" maiuscola, quello con la Coppa Intercontinentale che Platini e soci avrebbero giocato e vinto in quella memorabile nottata (per noi italiani) a Tokyo l'8 dicembre 1985.
Di fatto, la stagione juventina subì un'improvvisa involuzione poco dopo, con l'arrivo del nuovo anno solare, e al calo di rendimento degli uomini di Trapattoni fece da contraltare il ritorno della Roma, strapotente sul piano fisico e oliata nei meccanismi gestiti da uno dei più giovani, brillanti e innovativi tecnici del periodo: Sven Goran Eriksson.
Lo svedese, che aveva condotto il Göteborg al primo storico successo in Coppa UEFA nell'82 e aveva immediatamente replicato la finale (perdendola) dello stesso torneo alla guida del Benfica, fu l'artefice della rimonta dei giallorossi, che recuperarono 8 punti in 13 partite, uno a partita nelle 5 gare precedenti l'aggancio: uno score che sembrava indicare chiaramente da che parte si fosse spostata l'inerzia del torneo, soprattutto alla luce del 3-0 subìto dai bianconeri nello scontro diretto appena un mese prima di quel famoso 20 aprile.
Ma il calcio è bello anche perché spesso sfugge alla logica, e la penultima giornata del campionato 1985-86 è uno di quegli esempi che non andrebbero mai dimenticati quando si cade nella tentazione di fare pronostici con troppa leggerezza...
In un Olimpico tutto romanista un Lecce già retrocesso sembrava rappresentare l'ideale vittima sacrificale per celebrare lo scudetto della Lupa, anche in virtù delle difficoltà che una Juventus in crollo verticale avrebbe sicuramente incontrato contro un Milan reduce da tre sconfitte consecutive ma ancora in lotta per un posto UEFA.
La regìa della giornata sembrò degna di un thriller: Roma avanti dopo una manciata di minuti con Graziani, e l'Olimpico esplose inneggiando al terzo titolo romanista.
La squadra di Eriksson mancò più volte il raddoppio, mentre a Torino fra Milan e Juve il risultato non si schiodava dallo 0-0 iniziale.
Improvvisamente, una leggerezza difensiva degli "ormai campioni d'Italia" permise ad Alberto Di Chiara, romano cresciuto nelle giovanili della Roma, di pareggiare, e pochi minuti dopo, quasi allo scadere del primo tempo, un rigore di Beto Barbas ribaltò il risultato.
Le radioline e il tabellone del Comunale torinese cominciarono a far nascere una speranza, il primo tempo si chiudeva con la Juve nuovamente in vantaggio di un punto sui rivali giallorossi, ma a Roma nessuno sembrava preoccuparsi del risultato maturato all'intervallo.
Ma all'inizio della ripresa ancora Beto Barbas si involava verso Tancredi e lo trafiggeva portando la squadra di Fascetti sul 3-1.
Ora sì che il sogno romanista iniziava ad infrangersi: e quando al minuto 17 della ripresa Briaschi servì Laudrup per il più comodo degli appoggi in rete, la Divina Provvidenza (per citare l'Avvocato) scelse la Juventus.
A nulla valse il gol di Pruzzo, che fissò il punteggio dell'Olimpico sul definitivo 2-3, e al termine delle partite fu chiaro a tutti che il campionato aveva vissuto la sua giornata decisiva, anche se mancava una partita che, per uno strano scherzo del destino, investiva ancora il Lecce del ruolo di arbitro dello scudetto, perché al "Via del Mare" arrivava la Juve, mentre una Roma moralmente distrutta avrebbe perso anche a Como.
E come finì quel Lecce-Juventus? Naturalmente 2-3, con i gol, tutti negli ultimi 20 minuti, di Mauro, Cabrini e Serena, intervallati dal momentaneo pari di Miceli.
Il Lecce onorò anche in quell'occasione il campionato e la firma di Alberto Di Chiara, colui che aveva dato il via alla girandola di eventi la domenica precedente, chiuse idealmente una stagione emotivamente indimenticabile.
Questo articolo è stato scritto da Claudio Amigoni, con il quale ho avuto il piacere di condividere l'idea. Ma il testo è tutta "roba" sua. Di classe... Lecce ha prodotto alcune tra le più significative icone bianconere degli ultimi 40 anni: pensiamo a Franco Causio, il Barone, la fantasia e il Genio della Juve giovane e autarchica degli anni Settanta; a Sergio Brio, il granitico centrale dello squadrone a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta; e infine ad Antonio Conte, "il Capitano", il cuore di una squadra passata dalla carestia dei primi anni Novanta alla Grande Abbuffata che ha abbracciato la fine del Vecchio e l'inizio del Nuovo Millennio.
Tre uomini diversissimi fra loro, tre anime calcistiche senza molte affinità ma che hanno caratterizzato gli ultimi quattro decenni bianconeri.
Il geniale Causio, l'uomo che inventava calcio sopraffino e faceva impazzire il proprio marcatore, l'uomo deputato a fornire assist o a concludere l'azione personalmente con intuizioni che i "normali" nemmeno avrebbero potuto immaginare, nell'ultimo triennio della sua esperienza juventina divenne compagno del giovane e roccioso Brio, l'opposto del Barone, ovvero colui che aveva il compito di stoppare il gioco offensivo, un metro e novantadue centimetri di forza e grinta senza alcuna concessione all'estetica, ma con uno spiccato senso del gol che tante volte ha risolto partite importanti.
Brio, passato dal campo alla panchina come secondo di Trapattoni, avrebbe poi avuto alle sue dipendenze un suo concittadino: Antonio Conte.
Arrivato grezzo e silenzioso, quello che per tutti è rimasto "Il Capitano" divenne presto l'anima del gruppo, nonostante i tanti infortuni che ne segnarono la carriera. Quante volte lo diedero per morto e quante volte il Capitano smentì i suoi detrattori?
Quanto al rapporto fra le squadre, l'U.S. Lecce porta bene alla Juventus, che dai salentini è stata sconfitta 3 volte in 34 confronti diretti, il primo dei quali risale al lontano 1976-77, in una partita di Coppa Italia, quando a Torino la stella di Causio era ancora fra le più splendenti.
Ma è inutile girarci intorno: nella memoria dei tifosi juventini il club pugliese evoca soprattutto una data, 20 aprile 1986; una partita, Roma-Lecce; e un risultato, 2-3.
Per chiarire ai più giovani cosa significò quella domenica, beh... chi ha vissuto il 5 maggio 2002 sappia che quella volta accadde la stessa cosa.
Leggendo i freddi numeri le due vicende sembrano apparentemente diverse: l'Inter di Cùper finì per suicidarsi da padrona del proprio destino, mentre Roma e Juve nel 1986 erano appaiate a due giornate dal termine.
In realtà, la Roma di Eriksson e del polacco ripudiato e in cerca di vendetta aveva compiuto una rimonta "monstre" su quella che sarebbe stata l'ultima grande Juve prima di un decennio di magre figure, esclusa la parentesi zoffiana.
La stagione vide la Juventus partire a razzo fra statistiche da primato e un gioco brillante e arioso, col senno di poi si capì che il lavoro estivo era stato finalizzato a privilegiare l'appuntamento con la Storia con la "s" maiuscola, quello con la Coppa Intercontinentale che Platini e soci avrebbero giocato e vinto in quella memorabile nottata (per noi italiani) a Tokyo l'8 dicembre 1985.
Di fatto, la stagione juventina subì un'improvvisa involuzione poco dopo, con l'arrivo del nuovo anno solare, e al calo di rendimento degli uomini di Trapattoni fece da contraltare il ritorno della Roma, strapotente sul piano fisico e oliata nei meccanismi gestiti da uno dei più giovani, brillanti e innovativi tecnici del periodo: Sven Goran Eriksson.
Lo svedese, che aveva condotto il Göteborg al primo storico successo in Coppa UEFA nell'82 e aveva immediatamente replicato la finale (perdendola) dello stesso torneo alla guida del Benfica, fu l'artefice della rimonta dei giallorossi, che recuperarono 8 punti in 13 partite, uno a partita nelle 5 gare precedenti l'aggancio: uno score che sembrava indicare chiaramente da che parte si fosse spostata l'inerzia del torneo, soprattutto alla luce del 3-0 subìto dai bianconeri nello scontro diretto appena un mese prima di quel famoso 20 aprile.
Ma il calcio è bello anche perché spesso sfugge alla logica, e la penultima giornata del campionato 1985-86 è uno di quegli esempi che non andrebbero mai dimenticati quando si cade nella tentazione di fare pronostici con troppa leggerezza...
In un Olimpico tutto romanista un Lecce già retrocesso sembrava rappresentare l'ideale vittima sacrificale per celebrare lo scudetto della Lupa, anche in virtù delle difficoltà che una Juventus in crollo verticale avrebbe sicuramente incontrato contro un Milan reduce da tre sconfitte consecutive ma ancora in lotta per un posto UEFA.
La regìa della giornata sembrò degna di un thriller: Roma avanti dopo una manciata di minuti con Graziani, e l'Olimpico esplose inneggiando al terzo titolo romanista.
La squadra di Eriksson mancò più volte il raddoppio, mentre a Torino fra Milan e Juve il risultato non si schiodava dallo 0-0 iniziale.
Improvvisamente, una leggerezza difensiva degli "ormai campioni d'Italia" permise ad Alberto Di Chiara, romano cresciuto nelle giovanili della Roma, di pareggiare, e pochi minuti dopo, quasi allo scadere del primo tempo, un rigore di Beto Barbas ribaltò il risultato.
Le radioline e il tabellone del Comunale torinese cominciarono a far nascere una speranza, il primo tempo si chiudeva con la Juve nuovamente in vantaggio di un punto sui rivali giallorossi, ma a Roma nessuno sembrava preoccuparsi del risultato maturato all'intervallo.
Ma all'inizio della ripresa ancora Beto Barbas si involava verso Tancredi e lo trafiggeva portando la squadra di Fascetti sul 3-1.
Ora sì che il sogno romanista iniziava ad infrangersi: e quando al minuto 17 della ripresa Briaschi servì Laudrup per il più comodo degli appoggi in rete, la Divina Provvidenza (per citare l'Avvocato) scelse la Juventus.
A nulla valse il gol di Pruzzo, che fissò il punteggio dell'Olimpico sul definitivo 2-3, e al termine delle partite fu chiaro a tutti che il campionato aveva vissuto la sua giornata decisiva, anche se mancava una partita che, per uno strano scherzo del destino, investiva ancora il Lecce del ruolo di arbitro dello scudetto, perché al "Via del Mare" arrivava la Juve, mentre una Roma moralmente distrutta avrebbe perso anche a Como.
E come finì quel Lecce-Juventus? Naturalmente 2-3, con i gol, tutti negli ultimi 20 minuti, di Mauro, Cabrini e Serena, intervallati dal momentaneo pari di Miceli.
Il Lecce onorò anche in quell'occasione il campionato e la firma di Alberto Di Chiara, colui che aveva dato il via alla girandola di eventi la domenica precedente, chiuse idealmente una stagione emotivamente indimenticabile.
4 commenti:
Eccome se lo ricordo bene quel giorno, anzi tutti quei mesi di rincorsa, e per di più con un fratello romanista (di quelli con l'abbonamento allo stadio!).... :)
roberta
p.s.: in fondo è un vizio quello della roma, arrivare li li e poi cadere quando bisogna fare solo l'ultimo passo,come la scorsa stagione perdendo in casa con la samp
Per te, romana ma juventina, dev'essere stata una bella goduria...
:-)
Con la Sampdoria, lo scorso anno, ha buttato via uno scudetto che era ormai nelle sue mani.
La stanchezza di una rincorsa durata dalla terza giornata in poi si è fatta sentire tutta d'un colpo.
Senza dimenticare Ranieri...
Un abbraccio e a presto!
Roberta: e non dimenticare l'anno del 5 maggio quando perse 2 punti in casa con il venezia retrocesso e ci arrivò dietro di un solo punto
Bei ricordi... ;-)
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