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domenica 31 ottobre 2010
Ecco il derby d'Italia. E quelle "cassanate"...
Senza Krasic non sarà la stessa cosa, ma si giocherà comunque: ecco il derby d'Italia, Milan-Juventus. Finalmente.
Dopo tante parole e moltissime polemiche, le due squadre stasera scenderanno sul prato verde di San Siro.
Alle 20.45 verrà dato il via alle danze: chi ci sarà giocherà, agli esclusi non rimarrà che guardare l'incontro dalla tribuna. O dalle proprie abitazioni: la sofferenza per non poter partecipare alla festa non mancherà comunque.
Il Diavolo brasiliano potrà permettersi di rinunciare a Ronaldinho senza problemi: Robinho è riuscito a riprendersi a tempo di record dal tremendo colpo al volto che Aronica gli ha sferrato lunedì scorso, verso la fine dell'incontro tra i rossoneri e il Napoli nel posticipo giocato allo stadio "San Paolo".
Meno male che l'arbitro (Rizzoli) non si è accorto di nulla: il difensore partenopeo, stavolta, ha rischiato davvero grosso.
Se fosse stata utilizzata anche in questo caso la prova televisiva, e avesse dimostrato la chiarissima intenzione di far passare l'attaccante del Milan per un simulatore, il prosieguo della sua carriera sarebbe stata seriamente a rischio. Oltretutto con l'aggravante di aver militato per due stagioni alla Juventus, disputando una gara. Ma tanto basta, Italia, per passare - di fatto - dalla parte dei "colpevoli" per antonomasia.
Un pizzico di ironia, condita da un sano realismo che non deve passare per vittimismo (quello lasciamolo a chi ne ha fatto una ragione di vita): siamo la Juventus, "orgoglio gobbo" a volontà e avanti a testa alta. A Milano stasera così come a Torino giovedì prossimo (con Krasic in campo - Tosel permettendo, non si sa mai), dove la Vecchia Signora dovrà cercare di ottenere la sua prima vittoria nel gironcino dell'Europa League.
In un'interessante intervista rilasciata al taccuino di Giovanni Battista Olivero, e comparsa oggi sulle pagine della "Gazzetta dello Sport", Paolo Maldini (oltre a ringraziare Del Piero per le belle parole spese nei suoi confronti e aver fatto altrettanto con lui) ha fornito una semplice definizione di "grande squadra": "una grande squadra ha una faccia sola: in casa e in trasferta".
Le parole pronunciate da Del Neri nel corso della consueta conferenza stampa di ieri vanno verso questa direzione: "non firmo per il pari, perché sono convinto che faremo una grande partita. Ce la giochiamo alla pari con chiunque, sempre". Se le lacune tecniche della rosa bianconera, aggiunte alle assenze, potevano indurre a pensare ad un atteggiamento più prudente da parte dell'allenatore friulano, le sue frasi ed il piglio con il quale si appresta a guidare la Juventus stasera nell'incontro con il Milan mostrano una precisa volontà: quella di dare un'identità chiara e univoca alla sua creatura.
La gara in trasferta giocata contro l'Inter (3 ottobre), terminata con il risultato di 0-0, contribuì ad accrescere autostima e sicurezze nel gruppo di Del Neri. La successiva vittoria casalinga ottenuta contro il Lecce confermò le speranze che la Juventus avesse (veramente) intrapreso la strada giusta, senza più alti e bassi o cali di concentrazioni improvvisi. I due ultimi pareggi di Salisburgo e Bologna hanno smorzato l'entusiasmo dell'ambiente: se la difesa ha dato concreti segnali di miglioramento, il problema più grosso - adesso - è là davanti.
E se la qualità del centrocampo bianconero era riuscita - in alcune gare - a mascherare le difficoltà realizzative, ora Del Neri dovrà aggrapparsi alle buone intenzioni di Martinez nella speranza che riesca a non far rimpiangere più del lecito Krasic. Magari attraverso un atteggiamento in campo della squadra ancora più elastico del solito, attraverso i movimenti (dieci metri avanti o indietro) dello stesso uruguaiano, di Felipe Melo e Quagliarella (in primis), la Juventus potrebbe passare - nell'arco dell'incontro - dallo schema classico al 4-1-4-1 o al 4-3-3.
Anche se fa uno strano effetto parlare in questo modo di un gruppo di giocatori schierati in campo da un allenatore che ha abbracciato il 4-4-2 come un credo (calcistico) a cui non sembrava voler rinunciare.
Questa volta, oltretutto, non si potrà non dare un'occhiata alla classifica: una vittoria del Milan porterebbe i rossoneri a otto punti di distanza dalla Juventus, mentre l'Inter (con Lucio in campo ieri nella gara vinta contro il Genoa, nessuna simulazione e prova televisiva anche per lui dopo l'incontro col Bari) si trova già a sei punti.
Tra le occasioni che la sessione invernale del calciomercato potrebbe offrire alla campagna di rafforzamento che verrà portata avanti da Marotta e Paratici, ora spunta il nome di Antonio Cassano. Il suo acquisto, ad oggi, sembra difficile: dipenderà da diversi aspetti, tra i quali - naturalmente - quello economico riveste un ruolo di primo piano.
Anche il Manchester City è tra le pretendenti al talento barese, ormai in rotta con la Sampdoria: e proprio in Inghilterra si potrebbe comporre la coppia offensiva che l'Italia mediatica ha sognato per un'estate intera, con l'attaccante che raggiungerebbe Mario Balotelli. Maglia azzurra sì, quindi, ma non quella della nazionale.
L'opinione pubblica, madre di tutti i sentimenti popolari, anche stavolta non ce l'ha fatta: ha puntato deciso su un'idea, e ha fallito. Magari la colpa della nuova, ennesima "cassanata" verrà data a Marcello Lippi (ottimo capro espiatorio, juventino), rimane il fatto che gli errori da correggere iniziano ad essere tanti.
A cominciare da Farsopoli.
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sabato 30 ottobre 2010
Quando la Vecchia Signora giocò a tennis col povero Diavolo
Ci sono partite che entrano a piedi uniti nella storia del calcio, per non uscirne più.
E' il caso dell'ormai famoso Milan-Juventus disputato a San Siro il 6 aprile 1997, con i rossoneri detentori del tricolore che affrontarono la Vecchia Signora campione d'Europa e del mondo. Quella gara rappresentò l’ideale passaggio del testimone nel predominio calcistico in Italia e nel Vecchio Continente tra le due squadre, celebrato dai bianconeri vittoriosi con un risultato tennistico che non ammetteva repliche: 6-1.
Fresco di uno scudetto appena conquistato il Diavolo aveva deciso di cambiare volto e filosofia di gioco: una scelta che - a campionato in corso - si rivelò sbagliata. In estate la squadra fu affidata all'uruguaiano Oscar Tabárez: a Milanello durò sino al 1° dicembre, per poi essere sostituito da Arrigo Sacchi. E fu proprio lui a sedere sulla panchina dei rossoneri in quel famoso 6 aprile.
Nel primo campionato dopo gli effetti della sentenza Bosman, che permise alle società sportive di tesserare un numero illimitato di giocatori provenienti dagli altri paesi comunitari, il Milan aggiunse alla rosa due calciatori olandesi formati nella "scuola Ajax" (Davids e Reiziger), nel dichiarato intento di proseguire l'opera l'anno successivo con gli innesti di Kluivert e Bogarde.
La Juventus decise di abbandonare l'idea del tridente offensivo Vialli-Ravanelli-Del Piero, lasciando partire i primi due verso la Premier League e puntando sul (più) giovane attaccante. Oltre alla conferma dell’esperto Padovano, in attacco vennero aggiunti il potente Boksic e i giovani Vieri e Amoruso. Ma in tutti i settori del campo l'undici di base subì una vera e propria trasformazione, contrariamente al motto "squadra che vince non si cambia".
Venne plasmato un gruppo di giocatori in grado di usare – all’occorrenza - sia la sciabola che il fioretto: dalla grinta di Montero alla sapienza tattica di Jugovic, passando per la classe di Zidane sino ad arrivare alla forza devastante delle punte presenti nella rosa a disposizione di Marcello Lippi.
A San Siro scese in campo una Vecchia Signora bella come solo lei sapeva essere nelle serate di gala. Fece divertire il Milan per una manciata di minuti, con Peruzzi abile e reattivo nel respingere i primi assalti dei rossoneri.
Poi decise che era arrivato il momento di togliersi il velo e di mostrare al mondo intero tutto il suo splendore.
Vieri iniziò a fare sportellate con Franco Baresi; Sebastiano Rossi si dimostrò capace di rispondere a un suo tiro potentissimo, ma sulla successiva respinta Jugovic si trovò nella posizione ideale per realizzare la prima rete, quella del vantaggio. Alla furiosa reazione del Milan si contrappose, più volte, il portierone bianconero.
I bollenti spiriti rossoneri andavano placati e, mentre Jugovic cercava di mettere nuovamente la sua firma sull'incontro con una conclusione da fuori area, la ribattuta della difesa avversaria fece terminare la palla sui piedi di Boksic: neanche il tempo di tirare, che uno sgambetto di Maldini lo fece finire a terra. Rigore. E stavolta toccò a Zidane entrare nel tabellino dei marcatori.
Il pubblico rossonero presente a San Siro, sotto shock, iniziò a perdere fiato e coraggio, proprio mentre stava per avere inizio - a tutti gli effetti - la festa bianconera. Terminato il primo tempo sul 2-0, la gara riprese con un'altra rete: sull'asse Zidane-Amoruso la palla giunse a Jugovic, che partendo dal centrocampo puntò dritto l'area di rigore rossonera per beffare - per la terza volta - Sebastiano Rossi.
Le grandi squadre non hanno limiti. Quella Juventus, in più, aveva anche voglia di divertirsi: Vieri ricevette un assist da Tacchinardi (palombella a scavalcare la difesa del Milan) e portò a quattro le marcature, seguito da Nicola Amoruso (nuovo compagno di reparto, entrato in campo al posto di Boksic), che completò la cinquina raccogliendo in area di rigore una respinta del portiere rossonero su tiro, guarda caso, di Jugovic.
Al goal della bandiera realizzato da Marco Simone (conclusione al volo da palla ricevuta direttamente da calcio d'angolo) replicò immediatamente Christian Vieri: 6-1.
Quella sera Jesús Gil, vulcanico presidente dell'Atletico Madrid, si innamorò del talento del giovane attaccante juventino, che riuscì a portare in Spagna a fine stagione dietro il versamento nelle casse bianconere di una cifra pari a 34 miliardi delle vecchie lire.
Diventata campione d'Italia per la ventiquattresima volta Madama decise di cambiare abito nuovamente, ingaggiando al suo posto il fresco vincitore della classifica capocannonieri: Filippo Inzaghi. Per costruire una Juventus nuovamente vincente.
Contrariamente al motto "squadra che vince non si cambia".
Alla Triade riusciva spesso e volentieri.
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E' il caso dell'ormai famoso Milan-Juventus disputato a San Siro il 6 aprile 1997, con i rossoneri detentori del tricolore che affrontarono la Vecchia Signora campione d'Europa e del mondo. Quella gara rappresentò l’ideale passaggio del testimone nel predominio calcistico in Italia e nel Vecchio Continente tra le due squadre, celebrato dai bianconeri vittoriosi con un risultato tennistico che non ammetteva repliche: 6-1.
Fresco di uno scudetto appena conquistato il Diavolo aveva deciso di cambiare volto e filosofia di gioco: una scelta che - a campionato in corso - si rivelò sbagliata. In estate la squadra fu affidata all'uruguaiano Oscar Tabárez: a Milanello durò sino al 1° dicembre, per poi essere sostituito da Arrigo Sacchi. E fu proprio lui a sedere sulla panchina dei rossoneri in quel famoso 6 aprile.
Nel primo campionato dopo gli effetti della sentenza Bosman, che permise alle società sportive di tesserare un numero illimitato di giocatori provenienti dagli altri paesi comunitari, il Milan aggiunse alla rosa due calciatori olandesi formati nella "scuola Ajax" (Davids e Reiziger), nel dichiarato intento di proseguire l'opera l'anno successivo con gli innesti di Kluivert e Bogarde.
La Juventus decise di abbandonare l'idea del tridente offensivo Vialli-Ravanelli-Del Piero, lasciando partire i primi due verso la Premier League e puntando sul (più) giovane attaccante. Oltre alla conferma dell’esperto Padovano, in attacco vennero aggiunti il potente Boksic e i giovani Vieri e Amoruso. Ma in tutti i settori del campo l'undici di base subì una vera e propria trasformazione, contrariamente al motto "squadra che vince non si cambia".
Venne plasmato un gruppo di giocatori in grado di usare – all’occorrenza - sia la sciabola che il fioretto: dalla grinta di Montero alla sapienza tattica di Jugovic, passando per la classe di Zidane sino ad arrivare alla forza devastante delle punte presenti nella rosa a disposizione di Marcello Lippi.
A San Siro scese in campo una Vecchia Signora bella come solo lei sapeva essere nelle serate di gala. Fece divertire il Milan per una manciata di minuti, con Peruzzi abile e reattivo nel respingere i primi assalti dei rossoneri.
Poi decise che era arrivato il momento di togliersi il velo e di mostrare al mondo intero tutto il suo splendore.
Vieri iniziò a fare sportellate con Franco Baresi; Sebastiano Rossi si dimostrò capace di rispondere a un suo tiro potentissimo, ma sulla successiva respinta Jugovic si trovò nella posizione ideale per realizzare la prima rete, quella del vantaggio. Alla furiosa reazione del Milan si contrappose, più volte, il portierone bianconero.
I bollenti spiriti rossoneri andavano placati e, mentre Jugovic cercava di mettere nuovamente la sua firma sull'incontro con una conclusione da fuori area, la ribattuta della difesa avversaria fece terminare la palla sui piedi di Boksic: neanche il tempo di tirare, che uno sgambetto di Maldini lo fece finire a terra. Rigore. E stavolta toccò a Zidane entrare nel tabellino dei marcatori.
Il pubblico rossonero presente a San Siro, sotto shock, iniziò a perdere fiato e coraggio, proprio mentre stava per avere inizio - a tutti gli effetti - la festa bianconera. Terminato il primo tempo sul 2-0, la gara riprese con un'altra rete: sull'asse Zidane-Amoruso la palla giunse a Jugovic, che partendo dal centrocampo puntò dritto l'area di rigore rossonera per beffare - per la terza volta - Sebastiano Rossi.
Le grandi squadre non hanno limiti. Quella Juventus, in più, aveva anche voglia di divertirsi: Vieri ricevette un assist da Tacchinardi (palombella a scavalcare la difesa del Milan) e portò a quattro le marcature, seguito da Nicola Amoruso (nuovo compagno di reparto, entrato in campo al posto di Boksic), che completò la cinquina raccogliendo in area di rigore una respinta del portiere rossonero su tiro, guarda caso, di Jugovic.
Al goal della bandiera realizzato da Marco Simone (conclusione al volo da palla ricevuta direttamente da calcio d'angolo) replicò immediatamente Christian Vieri: 6-1.
Quella sera Jesús Gil, vulcanico presidente dell'Atletico Madrid, si innamorò del talento del giovane attaccante juventino, che riuscì a portare in Spagna a fine stagione dietro il versamento nelle casse bianconere di una cifra pari a 34 miliardi delle vecchie lire.
Diventata campione d'Italia per la ventiquattresima volta Madama decise di cambiare abito nuovamente, ingaggiando al suo posto il fresco vincitore della classifica capocannonieri: Filippo Inzaghi. Per costruire una Juventus nuovamente vincente.
Contrariamente al motto "squadra che vince non si cambia".
Alla Triade riusciva spesso e volentieri.
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mercoledì 27 ottobre 2010
Quanto è bella la Juventus "antipatica"...
Nell'attesa di tornare a vincere qualche competizione, la Juventus ha ripreso a fare paura.
E' bastato che quella squadra che in estate suscitava pochi entusiasmi e molti dubbi trovasse una sua "quadratura" in campo, perché tutti iniziassero a spaventarsi. Pur con gli evidenti limiti che ancora persistono.
"Tutti" chi? Quelli che non sono juventini, che appartengono all'altra "parte" dell'Italia calcistica. O di qua o di là, non si scappa.
Krasic cade a terra senza essere toccato dall'avversario e gli viene concesso un rigore? E' un Simulatore. Con la "S" maiuscola. Non per una singola partita, ma da qui all'eternità.
Anche se a Manchester, nella gara contro il City valida per l'Europa League, lo ammonirono per lo stesso motivo ed in una situazione simile e poi si scoprì che il penalty c'era? Sì, naturalmente.
E pazienza se ha la faccia da bravo ragazzo, se non prende a cazzotti il mondo intero una volta uscito dal rettangolo di gioco o se non si diverte a sfasciare le macchine dopo essersi ubriacato.
Non è mica tanto furbo, poi, questo Krasic: ma chi glielo ha fatto fare di rinunciare a tutti quei soldi che gli offriva lo sceicco Mansour bin Zayed Sultan Al Nahyan per andare a giocare in Premier League? Chi glielo ha detto di rispettare l’impegno verbale preso con Marotta ad inizio della scorsa estate sapendo benissimo che se la Juventus avesse potuto avrebbe preferito portare Dzeko e non lui a Torino? Ma poi, era proprio il caso di noleggiare - pagandolo di tasca propria - un volo privato soltanto per non mancare al suo primo allenamento davanti ai tifosi bianconeri nel consueto vernissage estivo a Villar Perosa? Anche se poi lo avrebbe dovuto sostenere in un campo a parte, solo soletto mentre i compagni si esibivano di fronte alle televisioni e ai fotografi?
Non è una persona seria, il serbo. Anzi: secondo qualcuno è solamente "serbo". Come Ivan Bogdanov, l'ultrà che guidò un manipolo di connazionali nel tentativo (riuscito) di impedire il regolare svolgimento dell'incontro Italia-Serbia che si sarebbe dovuto giocare lo scorso 12 ottobre a Genova.
Oddio, a pensarci bene: immaginiamo per un momento cosa sarebbe potuto accadere se in quella (bruttissima) serata "l'uomo nero" Ivan avesse esibito al mondo intero una sciarpa, un distintivo o comunque un altro simbolo che potesse ricondurre in un qualsiasi modo a Krasic o alla stessa Juventus... Apriti cielo...
A proposito di cielo: era proprio in quella direzione che Malesani si rivolse domenica a Bologna per ottenere Giustizia poco prima che Viviano respingesse il rigore calciato da Iaquinta. Dove non arriva quella sportiva, quando c'è di mezzo la Juventus è doveroso che intervenga quella divina. Anche in questo caso: la giustizia con la "G" maiuscola. Senza dover più scomodare Guido Rossi, Auricchio, Baldini, Moratti, Zeman, Inter, intercettazioni e via discorrendo.
Perchè pur di fermarla ci si appella un pò a tutto. E a tutti.
La Vecchia Signora quando si presenta al tavolo dei vincitori non si accontenta dell'aperitivo o degli antipasti: si prende tutto. I suoi non sono cicli, sono dittature. Dal quinquennio d'oro degli anni trenta del secolo scorso sino ai primi anni del duemila, da Combi-Rosetta-Caligaris a Buffon-Zambrotta-Chiellini, passando per Zoff-Gentile-Cabrini, Sivori-Charles-Boniperti e Rossi-Platini-Boniek. Dimenticando (o non potendoli citare tutti) altri protagonisti di storie che - unite tra loro - hanno costruito una leggenda.
Se alla Juventus accosti il nome di un Agnelli, poi, il gioco è fatto: "ecco che stanno tornando. Di nuovo. Chi non muore si rivede. Bisogna fermarli subito, aggredirli, fargli capire che stavolta sarà diverso, che il passato non torna più".
Molte cose, è assodato, sono mutate nel corso del tempo. Non c'è più Luciano Moggi, la Triade è stata sgretolata e con lei lo squadrone che aveva costruito, così come sono state cancellate le ultime vittorie conquistate sul campo.
Ma è anche vero che sono finiti i tempi di Cobolli Gigli, l'addio di Blanc non è più un miraggio, Nedved è tornato per dare nuovamente il suo contributo alla causa bianconera e adesso c'è un Presidente che parla e scrive a tutti sostenitori.
Non esistono più tifosi di serie "C", ma solo appassionati a cui il massimo esponente del club ha chiesto di essere chiamato per nome. C'è una Juventus ancora troppo debole per sedersi al tavolo dei vincitori, ma già abbastanza convinta delle proprie idee da suscitare le prime reazioni degli avversari: scompare la simpatia, quella che solitamente viene riservata ai perdenti, e d’incanto torna l’antipatia.
E prima di prendersi le doverose (e auspicate) rivincite, i tifosi bianconeri scoprono quanto è bello ritrovarsi uniti con la società contro tutti. Come una volta.
Con tanti ringraziamenti all’altra "parte" dell’Italia calcistica per aver fatto provare loro nuovamente queste sensazioni.
Ironia della sorte: la Juventus ancora non ha vinto nulla, ma i suoi sostenitori stanno già iniziando a godere.
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martedì 26 ottobre 2010
Moggi ne ha per tutti...
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domenica 24 ottobre 2010
Un altro passo indietro. Ps: ero io, Sebino...
All'inizio della gara tra il Bologna e la Juventus Sebastiano (Sebino) Nela, seconda voce (per l'occasione) del canale Mediaset Premium 1, sorridendo ha detto: "il centrocampo della Juve... Ho letto da qualche parte... Il tesoro di questa squadra...".
Beh, caro Sebino: l'ho scritto io. Nel pezzo di stamane.
Ecco l'unico aspetto simpatico di una domenica non positiva (calcisticamente parlando)
Nota a margine: che sia arrivato il giorno dell'addio di Maurizio Pistocchi?
Complimenti per la lezione di signorilità: “Krasic? Pensavo fosse una persona seria, invece è solo serbo” (leggi qui)
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Sebastiano Nela
A pochi minuti dalla gara col Bologna...
Fuori la Juventus formato Europa League, dentro quella di campionato, la squadra capace di vincere e convincere contro il Lecce domenica scorsa e che adesso ha il dovere di continuare il percorso intrapreso nelle ultime gare disputate in serie A.
Krasic, Felipe Melo, Aquilani e Marchisio: sono loro il tesoro della Vecchia Signora, i quattro giocatori che - posizionati nella linea mediana della squadra di Del Neri - garantiscono quantità, qualità, protezione alla difesa e aiuto al reparto offensivo.
Togli uno o più elementi in quel settore del campo, ed ecco che si spegne la luce e tornano i fantasmi del recente passato. Quelli che ti mostrano una Juventus sì muscolare ma con poca classe, che corre (a volte ancora a vuoto) e non inventa, che non riesce a coprire tutti gli spazi e ad "aggredire" con lo spirito giusto gli avversari.
Sono poche le squadre che possono beneficiare di un centrocampo simile, in grado - anche - di mascherare e nascondere nel rettangolo di gioco quelle lacune che si erano già (intra)viste al termine della scorsa sessione di calciomercato estivo.
Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto giocheranno nuovamente tutti e quattro, a Bologna, nonostante il pensiero della diffida (con il conseguente rischio squalifica, nel caso di un’ammonizione comminata nella gara odierna) che agita i pensieri di Marchisio e dell’ambiente bianconero.
Ma Del Neri, su questo punto, è stato chiaro: "la diffida non incide affatto perché per me, ora, la partita più importante è quella contro il Bologna. Al resto penserò a tempo debito".
Il riferimento, ovvio, è al prossimo impegno esterno della Vecchia Signora, quello che la vedrà impegnata sabato 30 ottobre a San Siro contro il Milan nell’anticipo serale della nona giornata di campionato.
Senza l’infortunio occorso a Grygera durante la partita col Salisburgo (sarà Motta a sostituirlo), la squadra che scenderà in campo oggi allo stadio "Renato Dall'Ara" di Bologna sarebbe potuta essere esattamente la stessa che conquistò i tre punti domenica scorsa contro il Lecce. Quella che poi vide l’ingresso di Del Piero soltanto a partita in corso, in una gara dove poi non mancò di lasciare il suo segno (realizzò la rete numero 178 in serie A con la maglia della Juventus).
La Vecchia Signora dovrà affrontare ancora 13 gare (comprese quelle di Europa League) da oggi sino alla sosta prevista per il periodo natalizio, in questo ultimo tour de force del 2010.
Con un occhio (naturalmente) di riguardo verso il campionato, si è deciso di limitare comunque il turnover, per non perdere di vista la strada più sicura, quella che regala qualche garanzia e sulla quale continuare a lavorare in vista della ripresa del calciomercato invernale.
Dove, con l’acquisto mirato di qualche nuovo elemento, si cercherà di consentire a Del Neri di puntare ad un qualcosa di più di una semplice continuità: "Ora serve continuità. Basta alti e bassi, basta incertezze".
Così si è espresso ieri l’allenatore bianconero nella consueta conferenza stampa della vigilia.
Su sedici reti segnate dalla Juventus in questo campionato, sette sono arrivate proprio dai quattro centrocampisti titolari: Marchisio (2), Krasic (3), Felipe Melo (1) e Aquilani (1).
E’ in quel settore che si vincono (e si perdono) le partite. Ed è da lì che è partita la (ri)costruzione della Vecchia Signora. Nel corso della passata, terribile stagione, le gare dei bianconeri erano spesso precedute da dubbi e incertezze sul modulo più adatto da utilizzare visti i giocatori in rosa, con la presenza di quel Diego che sembrava "imporre" l’utilizzo del centrocampo a "rombo" (4-3-1-2) piuttosto di quello a "trapezio" (4-2-3-1).
Se è vero come è vero che la scorsa stagione più che ricordata deve essere semplicemente dimenticata, già da questi primi mesi si può notare una mano sicura dietro la predisposizione in campo e l’atteggiamento mostrato a gara in corso dalla Juventus.
Tanto è vero che più che parlare del classico 4-4-2 di Del Neri, ora si discorre sulla qualità (mista alla quantità) di quattro giocatori dei quali l’allenatore ha capito la possibile convivenza. E produttività.
Da qui, da dove ora iniziano a crescere le prime certezze, riparte la Juventus verso il suo unico e vero obiettivo stagionale: tornare ad essere se stessa.
PROBABILI FORMAZIONI:
Bologna (4-1-4-1): Viviano; Garics, Portanova, Britos,Cherubin; Radovanovic; Buscé, Ekdal, Mudingayi, Paponi; Di Vaio.
A disposizione: Lupatelli, Moras, Rubin, Casarini, Mutarelli, Ramirez, Gimenez.
Juventus (4-4-2): Storari; Motta, Bonucci, Chiellini, De Ceglie; Krasic, Melo, Aquilani, Marchisio; Quagliarella, Amauri.
A disposizione: Manninger, Legrottaglie, Sissoko, Pepe, Martinez, Del Piero, Iaquinta.
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Luigi Delneri
venerdì 22 ottobre 2010
Quando Zidane ballava nel prato verde del "Renato Dall'Ara"
Gli altri calciatori giocavano a pallone, quel 20 maggio 2001, allo stadio "Renato Dall'Ara" di Bologna.
Zidane no. Lui, sul campo, danzava. Saltava gli avversari come fossero birilli, esibiva “rulete” in continuazione, ruotando il corpo su se stesso di 360 gradi e facendo perno con la pianta del piede sulla sfera, alternava movimenti continui lungo tutta l’ampiezza del prato verde ad improvvise decelerazioni, ma sempre - e comunque - con lo strumento del mestiere incollato ai piedi.
Lo accarezzava, liberandosene soltanto per consegnarlo a qualche compagno, strofinato a dovere e indirizzato là dove sarebbe servito. Così come fece in occasione dell'ultima rete realizzata dalla Juventus, quella che le permise di chiudere l'incontro con il risultato di 4-1, quando recapitò uno splendido assist a Kovačević che, scattato nel momento e nella posizione giusta, fu poi abile nel trafiggere un incolpevole Pagliuca.
Il vestito della Vecchia Signora, in quel pomeriggio di primavera, era il consueto 4-3-1-2, dove "l'1" era proprio Zinedine Yazhid "Zizou" Zidane. Nella sua abituale posizione ballava tra il centrocampo e l’attacco, divertiva il pubblico divertendosi lui stesso. A fare coppia con Del Piero, nel ruolo di prima punta, c'era David Trezeguet: infortunato Filippo Inzaghi, al francese non restava che sfruttare occasioni come questa per guadagnare spazi e consensi all’interno dell'ambiente bianconero.
Ovviamente, da cecchino che raramente sbagliava le opportunità che gli venivano offerte, non fallì: pareggiò il momentaneo vantaggio dei felsinei (ad opera di Giuseppe Signori) e portò a tre le marcature della Juventus dopo la rete del sorpasso siglata da Igor Tudor.
Carlo Ancelotti in panchina, Edwin Van der Sar in porta, e una squadra - in campo - largamente rimaneggiata: in difesa vennero schierati Tudor, Montero e i due ex di turno Iuliano e Paramatti, mentre a centrocampo – a protezione del reparto offensivo - si posizionarono Zambrotta, Tacchinardi e Pessotto, al quale venne affidato l’arduo compito di non far rimpiangere Edgar Davids.
In quella stagione lo scudetto passò da una sponda del Tevere all’altra: la detentrice Lazio si vide scucire il tricolore dalle mani della Roma di Franco Sensi e Fabio Capello, regina del mercato estivo.
La Juventus dovette attendere ancora un anno per tornare a primeggiare in Italia: dal diluvio di Perugia (nel campionato precedente) al cambio delle regole sull’utilizzo degli extracomunitari (in quello di cui qui si dice, quando si permise ai giallorossi di schierare Nakata – che risultò poi decisivo – nello scontro diretto a Torino), per la seconda volta consecutiva la Vecchia Signora dovette rinunciare alla vittoria finale non soltanto per propri demeriti.
Bologna-Juventus, uno scontro che si rinnova anche quest’anno e che vedrà le due squadre affrontarsi nuovamente domenica prossima. Nella speranza di non dover assistere più ad episodi simili a quello accaduto poco meno di due anni fa, il 28 ottobre 2008, allorquando Massimo De Vita, tifoso juventino proveniente da Modena, al termine dell’incontro venne colpito da una pietra a seguito di un’aggressione di alcuni sostenitori bolognesi che tentavano di strappare al figlio la sciarpa bianconera.
Nel corso di quella gara la Vecchia Signora portò a casa, un’altra volta ancora, i tre punti. Il protagonista della serata fu indiscutibilmente Pavel Nedved, autore di una doppietta nel 2-1 finale, che consentì agli uomini dell’allora tecnico Claudio Ranieri di bissare il fresco successo nel derby torinese e di avvicinarsi, momentaneamente, all’Inter capolista.
Quel Nedved arrivato alla Juventus, in compagnia di Buffon e Thuram, proprio grazie al ricavato della cessione al Real Madrid di Zidane. Quella di Bologna rappresentò una delle ultime esibizioni in bianconero di uno dei campioni più amati dalla tifoseria: un pallone d’oro (il francese lo aveva conquistato nel 1998) che lasciava il posto ad un altro che lo avrebbe vinto a distanza di pochi anni (per il ceko sarebbe arrivato nel 2003). Unico comune denominatore tra i due, la stessa squadra: la Juventus.
E per Nedved, anche se con altre vesti, adesso si può dire che la sua storia in bianconero non è ancora finita. Articolo pubblicato su
Zidane no. Lui, sul campo, danzava. Saltava gli avversari come fossero birilli, esibiva “rulete” in continuazione, ruotando il corpo su se stesso di 360 gradi e facendo perno con la pianta del piede sulla sfera, alternava movimenti continui lungo tutta l’ampiezza del prato verde ad improvvise decelerazioni, ma sempre - e comunque - con lo strumento del mestiere incollato ai piedi.
Lo accarezzava, liberandosene soltanto per consegnarlo a qualche compagno, strofinato a dovere e indirizzato là dove sarebbe servito. Così come fece in occasione dell'ultima rete realizzata dalla Juventus, quella che le permise di chiudere l'incontro con il risultato di 4-1, quando recapitò uno splendido assist a Kovačević che, scattato nel momento e nella posizione giusta, fu poi abile nel trafiggere un incolpevole Pagliuca.
Il vestito della Vecchia Signora, in quel pomeriggio di primavera, era il consueto 4-3-1-2, dove "l'1" era proprio Zinedine Yazhid "Zizou" Zidane. Nella sua abituale posizione ballava tra il centrocampo e l’attacco, divertiva il pubblico divertendosi lui stesso. A fare coppia con Del Piero, nel ruolo di prima punta, c'era David Trezeguet: infortunato Filippo Inzaghi, al francese non restava che sfruttare occasioni come questa per guadagnare spazi e consensi all’interno dell'ambiente bianconero.
Ovviamente, da cecchino che raramente sbagliava le opportunità che gli venivano offerte, non fallì: pareggiò il momentaneo vantaggio dei felsinei (ad opera di Giuseppe Signori) e portò a tre le marcature della Juventus dopo la rete del sorpasso siglata da Igor Tudor.
Carlo Ancelotti in panchina, Edwin Van der Sar in porta, e una squadra - in campo - largamente rimaneggiata: in difesa vennero schierati Tudor, Montero e i due ex di turno Iuliano e Paramatti, mentre a centrocampo – a protezione del reparto offensivo - si posizionarono Zambrotta, Tacchinardi e Pessotto, al quale venne affidato l’arduo compito di non far rimpiangere Edgar Davids.
In quella stagione lo scudetto passò da una sponda del Tevere all’altra: la detentrice Lazio si vide scucire il tricolore dalle mani della Roma di Franco Sensi e Fabio Capello, regina del mercato estivo.
La Juventus dovette attendere ancora un anno per tornare a primeggiare in Italia: dal diluvio di Perugia (nel campionato precedente) al cambio delle regole sull’utilizzo degli extracomunitari (in quello di cui qui si dice, quando si permise ai giallorossi di schierare Nakata – che risultò poi decisivo – nello scontro diretto a Torino), per la seconda volta consecutiva la Vecchia Signora dovette rinunciare alla vittoria finale non soltanto per propri demeriti.
Bologna-Juventus, uno scontro che si rinnova anche quest’anno e che vedrà le due squadre affrontarsi nuovamente domenica prossima. Nella speranza di non dover assistere più ad episodi simili a quello accaduto poco meno di due anni fa, il 28 ottobre 2008, allorquando Massimo De Vita, tifoso juventino proveniente da Modena, al termine dell’incontro venne colpito da una pietra a seguito di un’aggressione di alcuni sostenitori bolognesi che tentavano di strappare al figlio la sciarpa bianconera.
Nel corso di quella gara la Vecchia Signora portò a casa, un’altra volta ancora, i tre punti. Il protagonista della serata fu indiscutibilmente Pavel Nedved, autore di una doppietta nel 2-1 finale, che consentì agli uomini dell’allora tecnico Claudio Ranieri di bissare il fresco successo nel derby torinese e di avvicinarsi, momentaneamente, all’Inter capolista.
Quel Nedved arrivato alla Juventus, in compagnia di Buffon e Thuram, proprio grazie al ricavato della cessione al Real Madrid di Zidane. Quella di Bologna rappresentò una delle ultime esibizioni in bianconero di uno dei campioni più amati dalla tifoseria: un pallone d’oro (il francese lo aveva conquistato nel 1998) che lasciava il posto ad un altro che lo avrebbe vinto a distanza di pochi anni (per il ceko sarebbe arrivato nel 2003). Unico comune denominatore tra i due, la stessa squadra: la Juventus.
E per Nedved, anche se con altre vesti, adesso si può dire che la sua storia in bianconero non è ancora finita. Articolo pubblicato su
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A Salisburgo un punto (e un passo indietro) per la Juventus di Krasic
Lo stadio di Salisburgo, l’EM-Stadion Wals-Siezenheim, si trova a dieci minuti di distanza dalla casa dei suoi familiari, ed è raggiungibile anche a piedi. E proprio lì, Alex Manninger è riuscito, stasera, a prendersi una rivincita verso la squadra che lo aveva tesserato (e messo da parte) cinque anni fa, negando a Jantscher la possibilità di segnare il goal vittoria per gli austriaci.
Lenta, impacciata, timida, poco aggressiva, senza qualità e quantità nel gioco espresso: la Vecchia Signora che fa visita al Salisburgo non assomiglia neanche lontanamente alla squadra che domenica scorsa ha vinto e convinto contro il Lecce nell’ultima gara di campionato. Se all’undici di Del Neri si tolgono alcuni elementi, i risultati – purtroppo – si vedono.
Fuori Krasic, Aquilani e Felipe Melo (tre dei marcatori nel 4-0 rifilato ai salentini), dentro Pepe, Martinez e Sissoko: se è vero come è vero che le partite si vincono a centrocampo, è proprio in quel settore che i bianconeri mostrano le maggiori lacune. Sull’asse Svento-Mendes, d’altro canto, il Salisburgo costruisce le azioni più pericolose nella prima frazione di gioco.
Sarà proprio Svento (al 36° minuto) a battere Manninger grazie alla complicità di un Grygera poco convinto nell’impedire all’avversario di controllare il pallone, rientrare sul (suo) piede debole (il destro), prendere la mira e segnare.
L’assenza di Quagliarella, non utilizzabile in Europa League, e l’infortunio di Iaquinta limitano le possibilità di scelte di Del Neri per il reparto offensivo: Del Piero fa coppia con Amauri (inconcludente), mentre la difesa viene confermata in blocco (tranne il portiere) rispetto all’ultima esibizione della Juventus.
Martinez viene piazzato a destra e Pepe a sinistra, con Marchisio e Sissoko sulla linea mediana del campo.
Visto che sulle fasce non si riesce a produrre gioco, l’allenatore bianconero prova a invertire i due laterali intorno alla metà della prima frazione, facendo altrettanto con i centrali (Marchisio trasla a sinistra, con il maliano che occupa la sua precedente posizione). Ma la situazione non cambia, e le uniche (poche) palle giocabili in attacco arrivano solo per vie centrali.
Manca Aquilani, e si sente. Così come era necessaria una buona dose di dinamismo, concretezza e classe sulle fasce per smuovere la Juventus dalla sua apatia: a Krasic, subentrato nella ripresa a Pepe, sono bastati due minuti per realizzare la rete del pareggio. Con il successivo ingresso di Felipe Melo al posto di Martinez e lo spostamento di Marchisio sulla sinistra, la creatura di Del Neri assomiglia sempre più a quella ammirata domenica all’Olimpico di Torino. Sulla carta, però.
Nei fatti, cambia poco. Del Piero di tacco servito da Krasic e ancora lo stesso serbo con un tiro alto di poco (scagliato mentre si trovava a tu per tu con il portiere avversario) cercano di impensierire il Salisburgo, che riprende in mano il pallino del gioco finendo la gara in crescendo, così come l’aveva iniziata. E con un grosso sospiro di sollievo per i bianconeri per la rete annullata in fuorigioco a Wallner.
In questa Europa League, al netto del preliminare e dello spareggio, la Juventus non ha ancora vinto. Per passare ai sedicesimi di finale potrebbe bastare anche la seconda posizione nel gironcino, difficile da raggiungere continuando questa striscia di risultati.
Rispetto ai continui, sensibili miglioramenti delle ultime gare, la Vecchia Signora ha fatto registrare un netto passo indietro. Troppo evidente la differenza tra chi gioca in campionato e qualche sostituto che subentra in coppa. L’impatto che ha avuto Krasic sulla gara, una volta messo piede sul campo di gioco, ne è la conferma.
In partenza per l’Austria dall’aeroporto di Caselle, nella giornata di mercoledì, Marotta sosteneva la necessità di cogliere “quelle opportunità che ci offrirà il mercato” a gennaio, alla ripresa delle trattative del calciomercato.
In alcuni ruoli, più che necessario è indispensabile.
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Lenta, impacciata, timida, poco aggressiva, senza qualità e quantità nel gioco espresso: la Vecchia Signora che fa visita al Salisburgo non assomiglia neanche lontanamente alla squadra che domenica scorsa ha vinto e convinto contro il Lecce nell’ultima gara di campionato. Se all’undici di Del Neri si tolgono alcuni elementi, i risultati – purtroppo – si vedono.
Fuori Krasic, Aquilani e Felipe Melo (tre dei marcatori nel 4-0 rifilato ai salentini), dentro Pepe, Martinez e Sissoko: se è vero come è vero che le partite si vincono a centrocampo, è proprio in quel settore che i bianconeri mostrano le maggiori lacune. Sull’asse Svento-Mendes, d’altro canto, il Salisburgo costruisce le azioni più pericolose nella prima frazione di gioco.
Sarà proprio Svento (al 36° minuto) a battere Manninger grazie alla complicità di un Grygera poco convinto nell’impedire all’avversario di controllare il pallone, rientrare sul (suo) piede debole (il destro), prendere la mira e segnare.
L’assenza di Quagliarella, non utilizzabile in Europa League, e l’infortunio di Iaquinta limitano le possibilità di scelte di Del Neri per il reparto offensivo: Del Piero fa coppia con Amauri (inconcludente), mentre la difesa viene confermata in blocco (tranne il portiere) rispetto all’ultima esibizione della Juventus.
Martinez viene piazzato a destra e Pepe a sinistra, con Marchisio e Sissoko sulla linea mediana del campo.
Visto che sulle fasce non si riesce a produrre gioco, l’allenatore bianconero prova a invertire i due laterali intorno alla metà della prima frazione, facendo altrettanto con i centrali (Marchisio trasla a sinistra, con il maliano che occupa la sua precedente posizione). Ma la situazione non cambia, e le uniche (poche) palle giocabili in attacco arrivano solo per vie centrali.
Manca Aquilani, e si sente. Così come era necessaria una buona dose di dinamismo, concretezza e classe sulle fasce per smuovere la Juventus dalla sua apatia: a Krasic, subentrato nella ripresa a Pepe, sono bastati due minuti per realizzare la rete del pareggio. Con il successivo ingresso di Felipe Melo al posto di Martinez e lo spostamento di Marchisio sulla sinistra, la creatura di Del Neri assomiglia sempre più a quella ammirata domenica all’Olimpico di Torino. Sulla carta, però.
Nei fatti, cambia poco. Del Piero di tacco servito da Krasic e ancora lo stesso serbo con un tiro alto di poco (scagliato mentre si trovava a tu per tu con il portiere avversario) cercano di impensierire il Salisburgo, che riprende in mano il pallino del gioco finendo la gara in crescendo, così come l’aveva iniziata. E con un grosso sospiro di sollievo per i bianconeri per la rete annullata in fuorigioco a Wallner.
In questa Europa League, al netto del preliminare e dello spareggio, la Juventus non ha ancora vinto. Per passare ai sedicesimi di finale potrebbe bastare anche la seconda posizione nel gironcino, difficile da raggiungere continuando questa striscia di risultati.
Rispetto ai continui, sensibili miglioramenti delle ultime gare, la Vecchia Signora ha fatto registrare un netto passo indietro. Troppo evidente la differenza tra chi gioca in campionato e qualche sostituto che subentra in coppa. L’impatto che ha avuto Krasic sulla gara, una volta messo piede sul campo di gioco, ne è la conferma.
In partenza per l’Austria dall’aeroporto di Caselle, nella giornata di mercoledì, Marotta sosteneva la necessità di cogliere “quelle opportunità che ci offrirà il mercato” a gennaio, alla ripresa delle trattative del calciomercato.
In alcuni ruoli, più che necessario è indispensabile.
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martedì 19 ottobre 2010
L'ultimo record
L’abbiamo già detto tante volte, questo è un anno di transizione. E’ l’anno del cambiamento, della rivoluzione, l’anno zero della nuova società. E’ l’anno in cui non ci si deve aspettare vittorie. E lo so, sono preparata a lottare solo per un bel piazzamento in zona champions, però – anche in virtù delle ultime buone prestazioni - una vittoria, un trofeo anche piccolo piccolo mica mi dispiacerebbe (ovviamente il Berlusconi non lo considero neppure).
Ora lungi da me l’idea di prendere in giro il capitano - per carità, non mi permetterei mai! - però lo sappiamo che ci tiene tanto, ma tanto, ad abbattere i record. Oppure chissà, forse mi sbaglio, non è lui a tenerci ma sua moglie, considerando i festeggiamenti e le coreografie che organizza ad ogni gol “storico” che segna il marito. Comunque, vuoi o non vuoi, Alex Del Piero è il recordman per antonomasia, almeno in casa juventina. Sono andata a guardare un po’ di numeri.
Record assoluto dei gol segnati, 277.
Record per i gol segnati in serie A, 178 insieme a Boniperti. (E volete che non faccia almeno un altro gol in campionato nel resto della stagione?)
Record dei gol segnati in Champions League, 42
Record dei gol segnati in totale nelle coppe europee, 52
Numeri impressionanti, vero? Però dovremmo ricordare a Del Piero che c’è – esiste ancora!!! - una classifica dei goleador bianconeri in cui lui non primeggia. E’ quella che riguarda la Coppa Italia. Il nostro è addirittura terzo, con 23 gol ad un solo punto da Sivori, e primo è Anastasi con 30 segnature. In fondo, seppur di secondo piano, mettere nella nostra bacheca un’altra coppa, non sarebbe male. E poi si sa che vincere abitua a vincere, ed è proprio di questo che abbiamo bisogno. Per un solo giocatore segnare 8 gol in una competizione abbastanza breve come la Coppa Italia (se non sbaglio per la Juve, passando tutti i turni, potrebbero essere 7 partite) può significare una buona possibilità per il successo finale. Mettiamo la pulce nell’orecchio del capitano, che se gli ricordiamo che gli mancano 8 gol per battere un altro record, quello – ambizioso com’è - si mette di “buzzo buono” e ci prova seriamente.
Articolo pubblicato su
Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero
Ora lungi da me l’idea di prendere in giro il capitano - per carità, non mi permetterei mai! - però lo sappiamo che ci tiene tanto, ma tanto, ad abbattere i record. Oppure chissà, forse mi sbaglio, non è lui a tenerci ma sua moglie, considerando i festeggiamenti e le coreografie che organizza ad ogni gol “storico” che segna il marito. Comunque, vuoi o non vuoi, Alex Del Piero è il recordman per antonomasia, almeno in casa juventina. Sono andata a guardare un po’ di numeri.
Record assoluto dei gol segnati, 277.
Record per i gol segnati in serie A, 178 insieme a Boniperti. (E volete che non faccia almeno un altro gol in campionato nel resto della stagione?)
Record dei gol segnati in Champions League, 42
Record dei gol segnati in totale nelle coppe europee, 52
Numeri impressionanti, vero? Però dovremmo ricordare a Del Piero che c’è – esiste ancora!!! - una classifica dei goleador bianconeri in cui lui non primeggia. E’ quella che riguarda la Coppa Italia. Il nostro è addirittura terzo, con 23 gol ad un solo punto da Sivori, e primo è Anastasi con 30 segnature. In fondo, seppur di secondo piano, mettere nella nostra bacheca un’altra coppa, non sarebbe male. E poi si sa che vincere abitua a vincere, ed è proprio di questo che abbiamo bisogno. Per un solo giocatore segnare 8 gol in una competizione abbastanza breve come la Coppa Italia (se non sbaglio per la Juve, passando tutti i turni, potrebbero essere 7 partite) può significare una buona possibilità per il successo finale. Mettiamo la pulce nell’orecchio del capitano, che se gli ricordiamo che gli mancano 8 gol per battere un altro record, quello – ambizioso com’è - si mette di “buzzo buono” e ci prova seriamente.
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Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero
La Juventus e la strada dell'equilibrio
La Juventus, contro il Lecce, doveva vincere. E ha vinto.
A dire la verità, quello è il suo unico obiettivo: sempre, comunque, ovunque.
Christian Heidel, il direttore generale del Mainz, la squadra tedesca tornata in Bundesliga due anni fa dalla seconda divisione e autrice di un inizio campionato strepitoso con sette vittorie di fila su sette incontri disputati (eguagliati i record di Bayern Monaco e Kaiserslautern), qualche giorno fa aveva pronunciato queste parole: "non abbiamo la bacheca per i trofei, perchè non sapremmo cosa metterci". Ora il Mainz si ritrova in seconda posizione (solo per differenza reti), dopo essere stato sconfitto dall’Amburgo e raggiunto dal Borussia Dortmund in vetta alla classifica. La sua impresa, nonostante tutto, rimarrà negli annali di quella manifestazione.
Se per molte società il fatto di ritrovarsi - al di là delle più rosee aspettative - a competere ad altissimi livelli può rappresentare una novità, per altre è l'unica ragione che giustifica la loro esistenza.
Storia, tradizione, DNA, investimenti economici, aspettative, bacini d'utenza: tutti questi aspetti, e altri ancora, impongono ad alcuni club di puntare al massimo in tutte le manifestazioni alle quali partecipano. Sempre.
La Juventus, in questo (suo) momento storico, si trova in una situazione particolare: se da una parte è forte la consapevolezza che per lei esiste solo la vittoria, e che chi arriva secondo vuole semplicemente dire che si è posizionato primo tra i "perdenti", dall'altra non si può fare a meno di considerare tutto quanto le è capitato in questi ultimi quattro anni.
L'aver affidato la società nelle mani sbagliate (e "bucate") nell'immediato dopo-2006 ha finito col peggiorare una situazione che - di fatto - era già drammatica senza la necessità di doverla ulteriormente aggravare.
La scorsa stagione sarebbe dovuta essere quella del riscatto: in pochi mesi si è trasformata nel tracollo definitivo di un progetto senza capo né coda.
Non tutti i mali vengono per nuocere se si vuole vedere ("alla Del Neri") il bicchiere mezzo pieno: con l'arrivo di Andrea Agnelli e la successiva riorganizzazione del club, adesso si respira un'aria nuova.
Non molto diversa da quella che storicamente ha circondato la società, e che l'attuale Presidente bianconero conosceva bene, avendo vissuto in prima persona - da (molto) vicino - le vicissitudini della Vecchia Signora. All’epoca in cui stava instaurando con lei un legame che sembrava potesse andare ben oltre quello affettivo.
E' una fase di transizione, questa, per la Juventus: la differenza col recente passato è che si ha la netta sensazione che lo sia per davvero, e non soltanto a parole.
C'è un'idea alla base della (possibile) rinascita, che dovrà essere necessariamente sviluppata giorno dopo giorno, per guadagnare punti e vittorie sia sul campo che fuori. Lo "sentono" i giocatori, lo avverte il pubblico: dalle amichevoli estive del precampionato alla sconfitta interna contro il Palermo, il sostegno dei sostenitori non è mai mancato.
Il saluto a fine gara dei calciatori ad entrambe le curve dell'Olimpico, i cori di incitamento a Del Neri, il Melo ritrovato, il felice ambientamento di Quagliarella e Aquilani, l'esplosione di Krasic, la serenità dell'ambiente, la compattezza della squadra dopo gli alti e bassi (e gli sbandamenti) delle prime partite... Ci sono molti ingredienti per preparare una stagione con i fiocchi. A patto che tutti, ma proprio "tutti", continuino a dimostrare la maturità espressa sino ad ora.
Se ad inizio stagione la nuova dirigenza predicava "pazienza" ai tifosi, una richiesta simile ad una firma da apporre - sulla fiducia - in un assegno in bianco, adesso che si vedono (e si possono toccare con mano) alcuni risultati l'errore più grande potrebbe essere quello di convincersi di aver colmato in pochi mesi una voragine che separa la Juventus dalla sua storia.
L'entusiasmo è un'arma formidabile, ma va maneggiata con cura: a volte ti aiuta a compiere le imprese più impensabili, in altre ti fa perdere il contatto con la realtà. Da un "trionfo" ad un "tonfo": non è una soltanto una questione di consonanti e vocali, ma di un equilibrio prezioso da raggiungere e mantenere vivo. C'è una strada lunga da percorrere, avere imboccato quella giusta è già una grossa soddisfazione. L'importante è continuare sulla retta via.
E conservare questo ritrovato "spirito-Juve", che sembra parente vicino di quello lasciato quattro anni fa.
O forse è lo stesso.
A dire la verità, quello è il suo unico obiettivo: sempre, comunque, ovunque.
Christian Heidel, il direttore generale del Mainz, la squadra tedesca tornata in Bundesliga due anni fa dalla seconda divisione e autrice di un inizio campionato strepitoso con sette vittorie di fila su sette incontri disputati (eguagliati i record di Bayern Monaco e Kaiserslautern), qualche giorno fa aveva pronunciato queste parole: "non abbiamo la bacheca per i trofei, perchè non sapremmo cosa metterci". Ora il Mainz si ritrova in seconda posizione (solo per differenza reti), dopo essere stato sconfitto dall’Amburgo e raggiunto dal Borussia Dortmund in vetta alla classifica. La sua impresa, nonostante tutto, rimarrà negli annali di quella manifestazione.
Se per molte società il fatto di ritrovarsi - al di là delle più rosee aspettative - a competere ad altissimi livelli può rappresentare una novità, per altre è l'unica ragione che giustifica la loro esistenza.
Storia, tradizione, DNA, investimenti economici, aspettative, bacini d'utenza: tutti questi aspetti, e altri ancora, impongono ad alcuni club di puntare al massimo in tutte le manifestazioni alle quali partecipano. Sempre.
La Juventus, in questo (suo) momento storico, si trova in una situazione particolare: se da una parte è forte la consapevolezza che per lei esiste solo la vittoria, e che chi arriva secondo vuole semplicemente dire che si è posizionato primo tra i "perdenti", dall'altra non si può fare a meno di considerare tutto quanto le è capitato in questi ultimi quattro anni.
L'aver affidato la società nelle mani sbagliate (e "bucate") nell'immediato dopo-2006 ha finito col peggiorare una situazione che - di fatto - era già drammatica senza la necessità di doverla ulteriormente aggravare.
La scorsa stagione sarebbe dovuta essere quella del riscatto: in pochi mesi si è trasformata nel tracollo definitivo di un progetto senza capo né coda.
Non tutti i mali vengono per nuocere se si vuole vedere ("alla Del Neri") il bicchiere mezzo pieno: con l'arrivo di Andrea Agnelli e la successiva riorganizzazione del club, adesso si respira un'aria nuova.
Non molto diversa da quella che storicamente ha circondato la società, e che l'attuale Presidente bianconero conosceva bene, avendo vissuto in prima persona - da (molto) vicino - le vicissitudini della Vecchia Signora. All’epoca in cui stava instaurando con lei un legame che sembrava potesse andare ben oltre quello affettivo.
E' una fase di transizione, questa, per la Juventus: la differenza col recente passato è che si ha la netta sensazione che lo sia per davvero, e non soltanto a parole.
C'è un'idea alla base della (possibile) rinascita, che dovrà essere necessariamente sviluppata giorno dopo giorno, per guadagnare punti e vittorie sia sul campo che fuori. Lo "sentono" i giocatori, lo avverte il pubblico: dalle amichevoli estive del precampionato alla sconfitta interna contro il Palermo, il sostegno dei sostenitori non è mai mancato.
Il saluto a fine gara dei calciatori ad entrambe le curve dell'Olimpico, i cori di incitamento a Del Neri, il Melo ritrovato, il felice ambientamento di Quagliarella e Aquilani, l'esplosione di Krasic, la serenità dell'ambiente, la compattezza della squadra dopo gli alti e bassi (e gli sbandamenti) delle prime partite... Ci sono molti ingredienti per preparare una stagione con i fiocchi. A patto che tutti, ma proprio "tutti", continuino a dimostrare la maturità espressa sino ad ora.
Se ad inizio stagione la nuova dirigenza predicava "pazienza" ai tifosi, una richiesta simile ad una firma da apporre - sulla fiducia - in un assegno in bianco, adesso che si vedono (e si possono toccare con mano) alcuni risultati l'errore più grande potrebbe essere quello di convincersi di aver colmato in pochi mesi una voragine che separa la Juventus dalla sua storia.
L'entusiasmo è un'arma formidabile, ma va maneggiata con cura: a volte ti aiuta a compiere le imprese più impensabili, in altre ti fa perdere il contatto con la realtà. Da un "trionfo" ad un "tonfo": non è una soltanto una questione di consonanti e vocali, ma di un equilibrio prezioso da raggiungere e mantenere vivo. C'è una strada lunga da percorrere, avere imboccato quella giusta è già una grossa soddisfazione. L'importante è continuare sulla retta via.
E conservare questo ritrovato "spirito-Juve", che sembra parente vicino di quello lasciato quattro anni fa.
O forse è lo stesso.
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Ringrazio, al solito, Giuliano, per avermi inviato questo articolo sulla squadra del "FC Sankt Pauli", in seguito a una bella discussione nata nello spazio dei commenti di questo pezzo. Cliccandoci sopra, lo si può leggere in maniera nitida
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domenica 17 ottobre 2010
Metti una sera a cena
Dopo qualche mese di "latitanza", la colonia "nordica" dello Ju29ro Team è tornata a riunirsi per la consueta cena milanese.
E' stata l'occasione per festeggiare alcuni fra i nuovi, graditi, ingressi nel gruppo, ma anche l'opportunità di conoscere un personaggio che ha legato il suo nome ad uno dei periodi più luminosi della storia della Juventus: Stefano Tacconi.
Ho ammirato Stefano da calciatore, l'ho ringraziato per avermi rallegrato l'adolescenza con i tanti successi che quella Juve mi ha regalato, molti dei quali gli hanno visto recitare un ruolo da protagonista.
Stefano era il classico portiere dell'epoca: genuino, bizzarro e dalla lingua lunga; a volte fin troppo lunga...
Non conoscevo il Tacconi uomo, e confesso che dall'altra sera il mio prevenuto scetticismo, sentimento che di solito nutro nei confronti di un personaggio pubblico, si è trasformato in simpatia e stima.
Dico questo perché ho conosciuto vip o ex calciatori dal carattere maleducato e arrogante, altri che dietro una presunta timidezza celavano in realtà una fastidiosa forma di snobismo.
Tacconi invece è una persona divertente e ironica, profondamente legata agli anni passati in campo, anni di cui parla molto volentieri e non solo per una questione meramente anagrafica.
Sapeva che avrebbe preso parte ad una cena fra "gobbi" ed è stato il primo a presentarsi all'appuntamento.
Abbiamo condiviso un aperitivo nell'attesa dell'arrivo del "gruppone" e da quel momento si sono sprecati gli aneddoti...
Stefano usciva a fumare una sigaretta, ed inevitabilmente la cosa richiamava la famosa gag fra l'Avvocato Agnelli, Platini e Bonini: argomento, il fumo.
"Michel non comprava sigarette, fumava le mie. Non perché fosse tirchio, non comprava sigarette e basta. Poi, in una delle ultime trasferte europee fatte insieme, si è presentato con una stecca comprata al duty free. Gli ho detto: con tutte quelle che mi hai fumato in cinque anni pensi di cavartela con una stecca?".
A proposito di stecche, quelle alle dita infortunate nel vano tentativo di respingere la rovesciata di Pruzzo che impattò al 90' Juve-Roma del 1984 hanno lasciato ricordi permanenti e non entusiasmanti ai metacarpi di "Capitan Fracassa" (il soprannome che gli diede Caminiti), anche se il ricordo più triste della carriera rimane naturalmente l'Heysel, per lui doppiamente amaro: "Forse fu la miglior partita della mia carriera. Fu partita vera, ma è anche l'unica che per rispetto di quello che è successo non posso raccontare".
Il suo rapporto con Zenga: "Ci siamo sempre rispettati"; quello con il Trap: "Mi tenne fuori per tre mesi nella primavera dell'85 e io gli chiedevo: "Mister, cos' ho fatto?" E lui: "Tu lo sai". Per la verità non lo so ancora oggi...; e quello con l'Avvocato: "La prima volta che mi chiamò alle quattro del mattino pensai ad uno scherzo e lo mandai a quel paese...". Risate.
E poi: "A Natale del 1982 avevo già informazioni circa un mio prossimo passaggio alla Juve, ma uscì un'intervista a Zoff che dichiarava: 'Se vinco la Coppa dei Campioni gioco un altro anno'. Eh no, pensai, qui faccio un casino e, anche se è la Juve, io a fare panchina non ci vado. Mi chiamò Boniperti tutto preoccupato per dirmi di stare calmo e tranquillo..."
Capitolo Maifredi: "Non ci siamo "presi" sin dall'inizio, noi Nazionali venivamo dal Mondiale del '90 e io ero il capitano. A nome di tutti chiesi qualche giorno di ferie in più e Maifredi rispose che dovevamo presentarci in ritiro perché doveva spiegarci il suo calcio. Girava con lavagne sulle quali disegnava una marea di frecce... A Napoli, in Supercoppa, dopo il quinto gol subìto dissi a Diego (Maradona, ndr.): "Adesso basta...". Lui capì, se fossero andati avanti ne avremmo presi 20..."
A Maradona Tacconi è legato anche da quel gol "impossibile" che l'argentino segnò al San Paolo contro la Juve nel campionato '85-'86, un gol che negli anni i meno avvezzi alla materia calcistica hanno catalogato alla voce "compartecipazione di Tacconi".
In realtà, quella fu un'assoluta prodezza del "Diez", ma che la cosa pungoli ancora un tipo orgoglioso come Stefano è evidente, perché quando il titolare del ristorante si presenta come ex cuoco del "Pibe", il nostro ospite finge di rabbuiarsi e con un inequivocabile gesto della mano invita il ristoratore a lasciare la sala. Altre risate.
Immancabili foto di rito (Stefano, ancora in grandissima forma, si è volentieri prestato ad indossare la nostra felpa personalizzata) e poi i saluti al nostro portiere più vincente di sempre, almeno a livello di trofei internazionali.
A proposito di questa sequenza di successi, l'ex portierone ci ha regalato un altro saggio di ironia ricordando di quando, in seguito ad una sconfitta di una squadra italiana in una finale europea negli anni Novanta, gli venne posta una domanda retorica quanto, nel caso specifico, inadeguata: "Tacconi, perdere una finale è sempre un gran dispiacere, Lei ci può raccontare cosa si prova?".
Secca la risposta: "Veramente non lo so, perché io una finale non l'ho mai persa..."
E già, perché Stefano Tacconi è il portiere che ha vinto tutti i trofei euromondiali con la Juve, e ha un record di 5 finali vinte su 5 disputate (Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa UEFA, Supercoppa Europea, Coppa Intercontinentale) e arriviamo a sei se contiamo la Coppa Italia del '90, all'epoca in cui solo noi tifosi bianconeri potevamo cantare: "Tutte le Coppe le abbiamo noi!"
Questo coro venne inaugurato dopo la levataccia più dolce che i tifosi juventini ricordino: Tokyo, 8 dicembre 1985, Juventus per la prima volta campione del Mondo.
E caro Stefano, grazie alle tue parate sui rigori di Batista e Pavoni, un bel pezzo di quella Coppa porta il tuo nome.
E' stata l'occasione per festeggiare alcuni fra i nuovi, graditi, ingressi nel gruppo, ma anche l'opportunità di conoscere un personaggio che ha legato il suo nome ad uno dei periodi più luminosi della storia della Juventus: Stefano Tacconi.
Ho ammirato Stefano da calciatore, l'ho ringraziato per avermi rallegrato l'adolescenza con i tanti successi che quella Juve mi ha regalato, molti dei quali gli hanno visto recitare un ruolo da protagonista.
Stefano era il classico portiere dell'epoca: genuino, bizzarro e dalla lingua lunga; a volte fin troppo lunga...
Non conoscevo il Tacconi uomo, e confesso che dall'altra sera il mio prevenuto scetticismo, sentimento che di solito nutro nei confronti di un personaggio pubblico, si è trasformato in simpatia e stima.
Dico questo perché ho conosciuto vip o ex calciatori dal carattere maleducato e arrogante, altri che dietro una presunta timidezza celavano in realtà una fastidiosa forma di snobismo.
Tacconi invece è una persona divertente e ironica, profondamente legata agli anni passati in campo, anni di cui parla molto volentieri e non solo per una questione meramente anagrafica.
Sapeva che avrebbe preso parte ad una cena fra "gobbi" ed è stato il primo a presentarsi all'appuntamento.
Abbiamo condiviso un aperitivo nell'attesa dell'arrivo del "gruppone" e da quel momento si sono sprecati gli aneddoti...
Stefano usciva a fumare una sigaretta, ed inevitabilmente la cosa richiamava la famosa gag fra l'Avvocato Agnelli, Platini e Bonini: argomento, il fumo.
"Michel non comprava sigarette, fumava le mie. Non perché fosse tirchio, non comprava sigarette e basta. Poi, in una delle ultime trasferte europee fatte insieme, si è presentato con una stecca comprata al duty free. Gli ho detto: con tutte quelle che mi hai fumato in cinque anni pensi di cavartela con una stecca?".
A proposito di stecche, quelle alle dita infortunate nel vano tentativo di respingere la rovesciata di Pruzzo che impattò al 90' Juve-Roma del 1984 hanno lasciato ricordi permanenti e non entusiasmanti ai metacarpi di "Capitan Fracassa" (il soprannome che gli diede Caminiti), anche se il ricordo più triste della carriera rimane naturalmente l'Heysel, per lui doppiamente amaro: "Forse fu la miglior partita della mia carriera. Fu partita vera, ma è anche l'unica che per rispetto di quello che è successo non posso raccontare".
Il suo rapporto con Zenga: "Ci siamo sempre rispettati"; quello con il Trap: "Mi tenne fuori per tre mesi nella primavera dell'85 e io gli chiedevo: "Mister, cos' ho fatto?" E lui: "Tu lo sai". Per la verità non lo so ancora oggi...; e quello con l'Avvocato: "La prima volta che mi chiamò alle quattro del mattino pensai ad uno scherzo e lo mandai a quel paese...". Risate.
E poi: "A Natale del 1982 avevo già informazioni circa un mio prossimo passaggio alla Juve, ma uscì un'intervista a Zoff che dichiarava: 'Se vinco la Coppa dei Campioni gioco un altro anno'. Eh no, pensai, qui faccio un casino e, anche se è la Juve, io a fare panchina non ci vado. Mi chiamò Boniperti tutto preoccupato per dirmi di stare calmo e tranquillo..."
Capitolo Maifredi: "Non ci siamo "presi" sin dall'inizio, noi Nazionali venivamo dal Mondiale del '90 e io ero il capitano. A nome di tutti chiesi qualche giorno di ferie in più e Maifredi rispose che dovevamo presentarci in ritiro perché doveva spiegarci il suo calcio. Girava con lavagne sulle quali disegnava una marea di frecce... A Napoli, in Supercoppa, dopo il quinto gol subìto dissi a Diego (Maradona, ndr.): "Adesso basta...". Lui capì, se fossero andati avanti ne avremmo presi 20..."
A Maradona Tacconi è legato anche da quel gol "impossibile" che l'argentino segnò al San Paolo contro la Juve nel campionato '85-'86, un gol che negli anni i meno avvezzi alla materia calcistica hanno catalogato alla voce "compartecipazione di Tacconi".
In realtà, quella fu un'assoluta prodezza del "Diez", ma che la cosa pungoli ancora un tipo orgoglioso come Stefano è evidente, perché quando il titolare del ristorante si presenta come ex cuoco del "Pibe", il nostro ospite finge di rabbuiarsi e con un inequivocabile gesto della mano invita il ristoratore a lasciare la sala. Altre risate.
Immancabili foto di rito (Stefano, ancora in grandissima forma, si è volentieri prestato ad indossare la nostra felpa personalizzata) e poi i saluti al nostro portiere più vincente di sempre, almeno a livello di trofei internazionali.
A proposito di questa sequenza di successi, l'ex portierone ci ha regalato un altro saggio di ironia ricordando di quando, in seguito ad una sconfitta di una squadra italiana in una finale europea negli anni Novanta, gli venne posta una domanda retorica quanto, nel caso specifico, inadeguata: "Tacconi, perdere una finale è sempre un gran dispiacere, Lei ci può raccontare cosa si prova?".
Secca la risposta: "Veramente non lo so, perché io una finale non l'ho mai persa..."
E già, perché Stefano Tacconi è il portiere che ha vinto tutti i trofei euromondiali con la Juve, e ha un record di 5 finali vinte su 5 disputate (Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa UEFA, Supercoppa Europea, Coppa Intercontinentale) e arriviamo a sei se contiamo la Coppa Italia del '90, all'epoca in cui solo noi tifosi bianconeri potevamo cantare: "Tutte le Coppe le abbiamo noi!"
Questo coro venne inaugurato dopo la levataccia più dolce che i tifosi juventini ricordino: Tokyo, 8 dicembre 1985, Juventus per la prima volta campione del Mondo.
E caro Stefano, grazie alle tue parate sui rigori di Batista e Pavoni, un bel pezzo di quella Coppa porta il tuo nome.
Articolo di Claudio Amigoni
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sabato 16 ottobre 2010
Verso Juventus-Lecce, attraverso il racconto di quel meraviglioso 1986
Domani andrà in scena Juve-Lecce, una partita densa di significati per via degli intrecci calcistici fra le due squadre e le rispettive città.
Lecce ha prodotto alcune tra le più significative icone bianconere degli ultimi 40 anni: pensiamo a Franco Causio, il Barone, la fantasia e il Genio della Juve giovane e autarchica degli anni Settanta; a Sergio Brio, il granitico centrale dello squadrone a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta; e infine ad Antonio Conte, "il Capitano", il cuore di una squadra passata dalla carestia dei primi anni Novanta alla Grande Abbuffata che ha abbracciato la fine del Vecchio e l'inizio del Nuovo Millennio.
Tre uomini diversissimi fra loro, tre anime calcistiche senza molte affinità ma che hanno caratterizzato gli ultimi quattro decenni bianconeri.
Il geniale Causio, l'uomo che inventava calcio sopraffino e faceva impazzire il proprio marcatore, l'uomo deputato a fornire assist o a concludere l'azione personalmente con intuizioni che i "normali" nemmeno avrebbero potuto immaginare, nell'ultimo triennio della sua esperienza juventina divenne compagno del giovane e roccioso Brio, l'opposto del Barone, ovvero colui che aveva il compito di stoppare il gioco offensivo, un metro e novantadue centimetri di forza e grinta senza alcuna concessione all'estetica, ma con uno spiccato senso del gol che tante volte ha risolto partite importanti.
Brio, passato dal campo alla panchina come secondo di Trapattoni, avrebbe poi avuto alle sue dipendenze un suo concittadino: Antonio Conte.
Arrivato grezzo e silenzioso, quello che per tutti è rimasto "Il Capitano" divenne presto l'anima del gruppo, nonostante i tanti infortuni che ne segnarono la carriera. Quante volte lo diedero per morto e quante volte il Capitano smentì i suoi detrattori?
Quanto al rapporto fra le squadre, l'U.S. Lecce porta bene alla Juventus, che dai salentini è stata sconfitta 3 volte in 34 confronti diretti, il primo dei quali risale al lontano 1976-77, in una partita di Coppa Italia, quando a Torino la stella di Causio era ancora fra le più splendenti.
Ma è inutile girarci intorno: nella memoria dei tifosi juventini il club pugliese evoca soprattutto una data, 20 aprile 1986; una partita, Roma-Lecce; e un risultato, 2-3.
Per chiarire ai più giovani cosa significò quella domenica, beh... chi ha vissuto il 5 maggio 2002 sappia che quella volta accadde la stessa cosa.
Leggendo i freddi numeri le due vicende sembrano apparentemente diverse: l'Inter di Cùper finì per suicidarsi da padrona del proprio destino, mentre Roma e Juve nel 1986 erano appaiate a due giornate dal termine.
In realtà, la Roma di Eriksson e del polacco ripudiato e in cerca di vendetta aveva compiuto una rimonta "monstre" su quella che sarebbe stata l'ultima grande Juve prima di un decennio di magre figure, esclusa la parentesi zoffiana.
La stagione vide la Juventus partire a razzo fra statistiche da primato e un gioco brillante e arioso, col senno di poi si capì che il lavoro estivo era stato finalizzato a privilegiare l'appuntamento con la Storia con la "s" maiuscola, quello con la Coppa Intercontinentale che Platini e soci avrebbero giocato e vinto in quella memorabile nottata (per noi italiani) a Tokyo l'8 dicembre 1985.
Di fatto, la stagione juventina subì un'improvvisa involuzione poco dopo, con l'arrivo del nuovo anno solare, e al calo di rendimento degli uomini di Trapattoni fece da contraltare il ritorno della Roma, strapotente sul piano fisico e oliata nei meccanismi gestiti da uno dei più giovani, brillanti e innovativi tecnici del periodo: Sven Goran Eriksson.
Lo svedese, che aveva condotto il Göteborg al primo storico successo in Coppa UEFA nell'82 e aveva immediatamente replicato la finale (perdendola) dello stesso torneo alla guida del Benfica, fu l'artefice della rimonta dei giallorossi, che recuperarono 8 punti in 13 partite, uno a partita nelle 5 gare precedenti l'aggancio: uno score che sembrava indicare chiaramente da che parte si fosse spostata l'inerzia del torneo, soprattutto alla luce del 3-0 subìto dai bianconeri nello scontro diretto appena un mese prima di quel famoso 20 aprile.
Ma il calcio è bello anche perché spesso sfugge alla logica, e la penultima giornata del campionato 1985-86 è uno di quegli esempi che non andrebbero mai dimenticati quando si cade nella tentazione di fare pronostici con troppa leggerezza...
In un Olimpico tutto romanista un Lecce già retrocesso sembrava rappresentare l'ideale vittima sacrificale per celebrare lo scudetto della Lupa, anche in virtù delle difficoltà che una Juventus in crollo verticale avrebbe sicuramente incontrato contro un Milan reduce da tre sconfitte consecutive ma ancora in lotta per un posto UEFA.
La regìa della giornata sembrò degna di un thriller: Roma avanti dopo una manciata di minuti con Graziani, e l'Olimpico esplose inneggiando al terzo titolo romanista.
La squadra di Eriksson mancò più volte il raddoppio, mentre a Torino fra Milan e Juve il risultato non si schiodava dallo 0-0 iniziale.
Improvvisamente, una leggerezza difensiva degli "ormai campioni d'Italia" permise ad Alberto Di Chiara, romano cresciuto nelle giovanili della Roma, di pareggiare, e pochi minuti dopo, quasi allo scadere del primo tempo, un rigore di Beto Barbas ribaltò il risultato.
Le radioline e il tabellone del Comunale torinese cominciarono a far nascere una speranza, il primo tempo si chiudeva con la Juve nuovamente in vantaggio di un punto sui rivali giallorossi, ma a Roma nessuno sembrava preoccuparsi del risultato maturato all'intervallo.
Ma all'inizio della ripresa ancora Beto Barbas si involava verso Tancredi e lo trafiggeva portando la squadra di Fascetti sul 3-1.
Ora sì che il sogno romanista iniziava ad infrangersi: e quando al minuto 17 della ripresa Briaschi servì Laudrup per il più comodo degli appoggi in rete, la Divina Provvidenza (per citare l'Avvocato) scelse la Juventus.
A nulla valse il gol di Pruzzo, che fissò il punteggio dell'Olimpico sul definitivo 2-3, e al termine delle partite fu chiaro a tutti che il campionato aveva vissuto la sua giornata decisiva, anche se mancava una partita che, per uno strano scherzo del destino, investiva ancora il Lecce del ruolo di arbitro dello scudetto, perché al "Via del Mare" arrivava la Juve, mentre una Roma moralmente distrutta avrebbe perso anche a Como.
E come finì quel Lecce-Juventus? Naturalmente 2-3, con i gol, tutti negli ultimi 20 minuti, di Mauro, Cabrini e Serena, intervallati dal momentaneo pari di Miceli.
Il Lecce onorò anche in quell'occasione il campionato e la firma di Alberto Di Chiara, colui che aveva dato il via alla girandola di eventi la domenica precedente, chiuse idealmente una stagione emotivamente indimenticabile.
Questo articolo è stato scritto da Claudio Amigoni, con il quale ho avuto il piacere di condividere l'idea. Ma il testo è tutta "roba" sua. Di classe... Lecce ha prodotto alcune tra le più significative icone bianconere degli ultimi 40 anni: pensiamo a Franco Causio, il Barone, la fantasia e il Genio della Juve giovane e autarchica degli anni Settanta; a Sergio Brio, il granitico centrale dello squadrone a cavallo fra gli anni Settanta ed Ottanta; e infine ad Antonio Conte, "il Capitano", il cuore di una squadra passata dalla carestia dei primi anni Novanta alla Grande Abbuffata che ha abbracciato la fine del Vecchio e l'inizio del Nuovo Millennio.
Tre uomini diversissimi fra loro, tre anime calcistiche senza molte affinità ma che hanno caratterizzato gli ultimi quattro decenni bianconeri.
Il geniale Causio, l'uomo che inventava calcio sopraffino e faceva impazzire il proprio marcatore, l'uomo deputato a fornire assist o a concludere l'azione personalmente con intuizioni che i "normali" nemmeno avrebbero potuto immaginare, nell'ultimo triennio della sua esperienza juventina divenne compagno del giovane e roccioso Brio, l'opposto del Barone, ovvero colui che aveva il compito di stoppare il gioco offensivo, un metro e novantadue centimetri di forza e grinta senza alcuna concessione all'estetica, ma con uno spiccato senso del gol che tante volte ha risolto partite importanti.
Brio, passato dal campo alla panchina come secondo di Trapattoni, avrebbe poi avuto alle sue dipendenze un suo concittadino: Antonio Conte.
Arrivato grezzo e silenzioso, quello che per tutti è rimasto "Il Capitano" divenne presto l'anima del gruppo, nonostante i tanti infortuni che ne segnarono la carriera. Quante volte lo diedero per morto e quante volte il Capitano smentì i suoi detrattori?
Quanto al rapporto fra le squadre, l'U.S. Lecce porta bene alla Juventus, che dai salentini è stata sconfitta 3 volte in 34 confronti diretti, il primo dei quali risale al lontano 1976-77, in una partita di Coppa Italia, quando a Torino la stella di Causio era ancora fra le più splendenti.
Ma è inutile girarci intorno: nella memoria dei tifosi juventini il club pugliese evoca soprattutto una data, 20 aprile 1986; una partita, Roma-Lecce; e un risultato, 2-3.
Per chiarire ai più giovani cosa significò quella domenica, beh... chi ha vissuto il 5 maggio 2002 sappia che quella volta accadde la stessa cosa.
Leggendo i freddi numeri le due vicende sembrano apparentemente diverse: l'Inter di Cùper finì per suicidarsi da padrona del proprio destino, mentre Roma e Juve nel 1986 erano appaiate a due giornate dal termine.
In realtà, la Roma di Eriksson e del polacco ripudiato e in cerca di vendetta aveva compiuto una rimonta "monstre" su quella che sarebbe stata l'ultima grande Juve prima di un decennio di magre figure, esclusa la parentesi zoffiana.
La stagione vide la Juventus partire a razzo fra statistiche da primato e un gioco brillante e arioso, col senno di poi si capì che il lavoro estivo era stato finalizzato a privilegiare l'appuntamento con la Storia con la "s" maiuscola, quello con la Coppa Intercontinentale che Platini e soci avrebbero giocato e vinto in quella memorabile nottata (per noi italiani) a Tokyo l'8 dicembre 1985.
Di fatto, la stagione juventina subì un'improvvisa involuzione poco dopo, con l'arrivo del nuovo anno solare, e al calo di rendimento degli uomini di Trapattoni fece da contraltare il ritorno della Roma, strapotente sul piano fisico e oliata nei meccanismi gestiti da uno dei più giovani, brillanti e innovativi tecnici del periodo: Sven Goran Eriksson.
Lo svedese, che aveva condotto il Göteborg al primo storico successo in Coppa UEFA nell'82 e aveva immediatamente replicato la finale (perdendola) dello stesso torneo alla guida del Benfica, fu l'artefice della rimonta dei giallorossi, che recuperarono 8 punti in 13 partite, uno a partita nelle 5 gare precedenti l'aggancio: uno score che sembrava indicare chiaramente da che parte si fosse spostata l'inerzia del torneo, soprattutto alla luce del 3-0 subìto dai bianconeri nello scontro diretto appena un mese prima di quel famoso 20 aprile.
Ma il calcio è bello anche perché spesso sfugge alla logica, e la penultima giornata del campionato 1985-86 è uno di quegli esempi che non andrebbero mai dimenticati quando si cade nella tentazione di fare pronostici con troppa leggerezza...
In un Olimpico tutto romanista un Lecce già retrocesso sembrava rappresentare l'ideale vittima sacrificale per celebrare lo scudetto della Lupa, anche in virtù delle difficoltà che una Juventus in crollo verticale avrebbe sicuramente incontrato contro un Milan reduce da tre sconfitte consecutive ma ancora in lotta per un posto UEFA.
La regìa della giornata sembrò degna di un thriller: Roma avanti dopo una manciata di minuti con Graziani, e l'Olimpico esplose inneggiando al terzo titolo romanista.
La squadra di Eriksson mancò più volte il raddoppio, mentre a Torino fra Milan e Juve il risultato non si schiodava dallo 0-0 iniziale.
Improvvisamente, una leggerezza difensiva degli "ormai campioni d'Italia" permise ad Alberto Di Chiara, romano cresciuto nelle giovanili della Roma, di pareggiare, e pochi minuti dopo, quasi allo scadere del primo tempo, un rigore di Beto Barbas ribaltò il risultato.
Le radioline e il tabellone del Comunale torinese cominciarono a far nascere una speranza, il primo tempo si chiudeva con la Juve nuovamente in vantaggio di un punto sui rivali giallorossi, ma a Roma nessuno sembrava preoccuparsi del risultato maturato all'intervallo.
Ma all'inizio della ripresa ancora Beto Barbas si involava verso Tancredi e lo trafiggeva portando la squadra di Fascetti sul 3-1.
Ora sì che il sogno romanista iniziava ad infrangersi: e quando al minuto 17 della ripresa Briaschi servì Laudrup per il più comodo degli appoggi in rete, la Divina Provvidenza (per citare l'Avvocato) scelse la Juventus.
A nulla valse il gol di Pruzzo, che fissò il punteggio dell'Olimpico sul definitivo 2-3, e al termine delle partite fu chiaro a tutti che il campionato aveva vissuto la sua giornata decisiva, anche se mancava una partita che, per uno strano scherzo del destino, investiva ancora il Lecce del ruolo di arbitro dello scudetto, perché al "Via del Mare" arrivava la Juve, mentre una Roma moralmente distrutta avrebbe perso anche a Como.
E come finì quel Lecce-Juventus? Naturalmente 2-3, con i gol, tutti negli ultimi 20 minuti, di Mauro, Cabrini e Serena, intervallati dal momentaneo pari di Miceli.
Il Lecce onorò anche in quell'occasione il campionato e la firma di Alberto Di Chiara, colui che aveva dato il via alla girandola di eventi la domenica precedente, chiuse idealmente una stagione emotivamente indimenticabile.
Uno stadio pieno per uno spettacolo vero
La sosta del campionato di serie A, dovuta agli impegni della nazionale, è ormai conclusa.
"Il potere logora chi non ce l'ha". E il calcio fa altrettanto con chi non ha la passione per questo meraviglioso sport. La pausa era inevitabile per chi doveva giocare, ma ha finito col diventare un "peso" per chi tifa.
Quello che sta per avere inizio sarà il primo week end pallonaro dopo gli episodi di Genova, dove il serbo Ivan Bogdanov, "l'uomo nero" diventato di colpo più famoso di Stankovic e Krasic, si è preso le luci della ribalta, impedendo - di fatto, con l'aiuto dei suoi prodi al seguito - lo svolgimento della partita.
E così, mentre i bambini uscivano dal "Luigi Ferraris" accompagnati da quei genitori che avevano l’arduo compito di spiegare loro cosa stava accadendo, lui proseguiva imperterrito a mostrare le tre dita (alternate dal "dito medio") nell'intento di continuare la sua guerra personale contro la federazione serba, il portiere Stojkovic e tutto quanto gli potesse permettere di portare avanti le proprie "azioni di disturbo".
Non è italiano, non ce l’aveva col nostro calcio, ma (non a caso) ha scelto uno dei nostri stadi per mostrarsi al mondo intero.
Gli episodi dello scorso martedì rappresentano la punta dell’iceberg di un’escalation di avvenimenti che con il football non hanno nulla a che vedere, ma che trovano la loro collocazione ideale proprio in quegli spazi in cui dovrebbero svolgersi delle manifestazioni sportive, e che invece finiscono - spesso e (mal)volentieri - col passare in secondo piano rispetto ad atti di vandalismo allo stato puro.
Senza fare particolare sforzi di memoria per ricordare quando la violenza è entrata a piedi uniti negli stadi italiani, si può riavvolgere il nastro sino al prologo di questa stagione, ripartendo dalle amichevoli sotto l’ombrellone: dagli scontri tra gli ultras di Pisa e Viterbese, a quelli di Spal e Parma, alla decisione di non disputare l’amichevole tra Padova e Fiorentina per evitare incidenti, alle lotte in campo ("calci" più che "calcio") tra Brescia-Larissa, Cagliari-Bastia e Catania-Iraklis.
Si vuole citare ancora qualche esempio? Bene, basta mettere dentro il calderone le proteste per la tessera del tifoso, l’agguato al Ministro dell’Interno Maroni (25 agosto) con petardi e fumogeni che fortunatamente hanno finito col bruciare auto e motociclette, non toccando il tendone che ospitava una festa di partito con migliaia di persone. Tra le quali molti bambini, ovviamente.
E quando il calcio da "parlato" diventa "giocato", e dalle spiagge si passa al campo? Ecco Inter-Roma, finale di Supercoppa Italiana (21 agosto), con Totti che chiede ai suoi tifosi di smetterla di lanciare fumogeni per permettere la ripresa del gioco (dopo una sospensione della durata di cinque minuti). Il tutto mentre - negli altri settori dell’impianto - alle persone veniva impedito di tenere il tappo delle bottiglie di plastica per il timore che potessero tirarle in campo.
Si potrebbe andare avanti, o - peggio ancora - indietro. Il materiale non manca.
E poi ci si chiede perché Ivan Bogdanov e gli altri serbi abbiano scelto di venire (anche) in Italia a fare quello che volevano.
Dall’insieme di insegnamenti che si possono imparare (e importare) dall’estero, spesso e volentieri vengono lasciati a casa loro quelli che realmente potrebbero aiutare a migliorare il calcio nostrano, concentrandosi - invece - sui metodi più efficaci per attirare i soldi degli appassionati. Per quanto riguarda il resto, ogni cosa a suo tempo.
Una volta la domenica calcistica, per il tifoso, era sacra. Nel pomeriggio le voci di Enrico Ameri e dei suoi colleghi entravano in ogni angolo della penisola. La mancanza delle immagini veniva compensata dalle descrizioni (condite da metafore "ad hoc") di Sandro Ciotti e di altri commentatori che avevano la capacità (il potere) di descrivere una partita come se si fosse trattato di un breve romanzo. Nelle trasmissioni televisive dedicate all’argomento, tranne qualche eccezione, si parlava, non si urlava. Le considerazioni conclusive spettavano a giornalisti con la "G" maiuscola.
Adesso si gioca all’ora di cena, dell’aperitivo e pure del pranzo. Il sabato come la domenica, o il lunedì, per chi ha già troppi impegni in calendario. Il tifoso deve rimanere incollato ad un televisore, procurarsi un abbonamento con un’emittente che gli consenta la visione delle gare, dotarsi di una tessera, aggiornarne il software e telefonare - spendendo, ovviamente - quando non è più in grado di capire cosa deve fare per vedere una (benedetta) partita.
Gli stadi? Svuotati, insicuri, costosi (per tutti), vecchi e con campi di gioco che favoriscono gli infortuni più che le giocate di qualche campione. E lasciati sempre più nelle mani dei vari "Ivan" di turno.
Da lì bisogna ripartire per riavvicinare i veri sostenitori al prato verde, ripopolando gli spalti anche - e soprattutto - con la presenza dei più giovani. Quelli che sono e saranno sempre il futuro, nello sport così come nella vita.
La Juventus, attraverso la costruzione dell’impianto che sta nascendo dalle ceneri del vecchio “Delle Alpi”, sarà la prima in Italia (e non è un caso, visto da chi era partito il progetto) a dotarsi di una struttura adatta a questo fine.
Che poi andrà "gestita", naturalmente. Perché ora si parla con dovizia di particolari della sua realizzazione, ma non basterà soltanto quella a scindere i buoni dai cattivi, i sostenitori dai violenti, gli appassionati dai facinorosi.
Se la società bianconera riuscirà a dimostrarsi capace di vincere anche questa partita, allora - forse - inizieranno ad accodarsi pure gli altri club.
Nella speranza di non vedere più "uomini neri" dentro uno stadio, ma genitori che possano dire ai loro figli: "ecco perché mi sono innamorato del calcio. Questo è il motivo per il quale non riesco a stare due settimane senza di lui…".
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lunedì 11 ottobre 2010
Da domenica inizia il nuovo tour de force della Juve
Gli impegni della nazionale di Cesare Prandelli hanno comportato, dall'inizio della stagione ad oggi, due soste per il campionato di serie A: quella tra la prima e la seconda giornata (28/30 agosto - 11/12 settembre) e l'attuale, a cavallo tra la sesta e la settima (2/3 ottobre - 16/17 ottobre).
A settembre la Juventus ripartì con un tour de force che prevedeva sette incontri (cinque in campionato e due in Europa League) in poco meno di un mese. Visti l'esito e la deludente prestazione offerta dalla squadra di Del Neri nella gara d'esordio contro il Bari, le speranze di una veloce ripresa dei bianconeri si legarono a doppio filo con le aspettative dei tifosi sulle novità che gli ultimissimi giorni della sessione estiva del calciomercato avrebbero potuto portare.
Il campionato riprese con la partita contro la Sampdoria (12 settembre), affrontata con uno stato d’animo non molto diverso da quello delle settimane precedenti. Anzi, peggio: in quel momento c'era la consapevolezza di dover affrontare tutti gli incontri sino alla riapertura delle trattative (3 gennaio 2011) con una rosa non all'altezza della situazione, senza l'arrivo - oltretutto - del "campione" tanto atteso.
Nelle gare contro i blucerchiati e il Lech Poznan la Vecchia Signora replicò lo stesso risultato: 3-3, sei goals fatti e altrettanti subiti. L’incontro di Udine (vittoria per 4-0) diede l'illusione che la squadra avesse imboccato subito la direzione giusta, lasciandosi alle spalle le prime partite condite da troppi dubbi e poche certezze.
Ma da un terremoto societario come quello che ha investito la Juventus la scorsa estate, con una rivoluzione che ha toccato (quasi) tutte le sue componenti (dal Presidente alla squadra), non si poteva che prevedere la presenza di alcune scosse di assestamento. Ed ecco, puntuale, lo scivolone interno con il Palermo (1-3).
Dopo la vittoria con il Cagliari (4-2) e al termine delle due gare più delicate sia per le prospettive di classifica che per la consistenza delle avversarie (Manchester City e Inter), l'undici di Del Neri sembra aver trovato adesso un maggior equilibrio.
Scorrendo la classifica del campionato questa impressione può trovare un riscontro anche nei numeri: a fronte di 6 gare giocate, ci sono due vittorie, due sconfitte e due pareggi, ottenuti attraverso un identico comportamento della Juventus sia a Torino che lontano dall’Olimpico.
La sosta sopravvenuta dopo la gara con l'Inter, anche per l'impatto emotivo provocato dall'ottima prestazione degli uomini di Del Neri, ha lasciato l'amaro in bocca: la strada imboccata sembrava essere quella giusta, ora la speranza è di ricominciare già dal prossimo incontro con il Lecce da quel punto. Con l’obiettivo, stavolta, di prenderne tre.
Ma se il primo tour de force era sembrato difficile da affrontare, il prossimo, quello che inizierà da domenica 17 ottobre, sarà sicuramente più impegnativo: quindici partite in due mesi! Quattro di queste sono valevoli per l'Europa League, e porteranno alla conclusione del gironcino; le altre undici si disputeranno per il campionato.
Milan e Genoa in trasferta, Roma, Fiorentina e Lazio in casa, il Manchester City all'Olimpico: ecco alcune tra le gare, almeno sulla carta, più impegnative. Ma quello che preoccupa maggiormente, a prima vista, è la mancanza di capacità della Juventus di mantenere alta la concentrazione anche nei confronti con avversarie apparentemente alla portata. Ed è questo il prossimo salto di qualità che la Vecchia Signora dovrà compiere: non lasciare nulla al caso e agli avversari, evitando di commettere errori banali dettati da semplici distrazioni. Che poi si finisce col pagare caro. Sempre.
E come i pennoni di acciaio che reggeranno la copertura del nuovo stadio che sorgerà dalle macerie del "Delle Alpi" sono stati sollevati da terra, adesso anche Del Neri, con l'aiuto della società, dovrà continuare l'opera di (ri)costruzione della squadra. Nella speranza di non dover più ripartire, la prossima estate, nuovamente da zero. Così come è capitato troppe volte negli ultimi anni.
Andrea Agnelli si è insediato da pochi mesi nel ruolo di Presidente bianconero al posto di Jean Claude Blanc. Proprio qualche giorno fa, nel corso di un'intervista rilasciata alla trasmissione "(E' sempre) Calciomercato" (Skysport1), Cobolli Gigli pronunciò queste parole: "A posteriori si può dire che l'incontro fra Blanc e Lippi fu una piccola imprudenza... Diciamo che fu una superficialità, dovuta anche alla non conoscenza di quella che è l’attenzione che gli italiani danno a tutte queste cose....".
E dire che sembrava esistessero soltanto tifosi di "serie C"…
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sabato 9 ottobre 2010
La Juve da Eugenio Canfari ad Andrea Agnelli
"Chiamatemi Andrea".
Così l’ultimo degli Agnelli, il nuovo Presidente della Juventus, si era presentato ai tifosi bianconeri a Pinzolo, sede del ritiro estivo della squadra. Era il 7 luglio scorso.
Edoardo, Giovanni, Umberto (il padre) e poi lui, Andrea, pronto a raccogliere la pesante eredità in nome di un amore che unisce il cognome della sua famiglia alla storia della Vecchia Signora.
Un legame che dura da 87 anni, da riannodare e rinforzare. Anche se questa volta non si è trattato di "continuare", ma di "ripartire", di costruire da zero una società distrutta nei suoi ultimi quattro anni di vita.
23 presidenti e 2 comitati di gestione: questi sono freddi i numeri che riepilogano il susseguirsi dei cambi nella poltrona più importante dei massimi vertici del club.
Ma guardando "oltre", c’è molto di più: senso di appartenenza, classe, stile.
In occasione della nascita della società Eugenio Canfari, uno dei suoi fondatori e primo Presidente, pronunciò queste (famose) parole: "Chi indossa la nostra divisa, le rimarrà fedele malgrado tutto e la terrà come prezioso ricordo".
Da Eugenio al fratello Enrico, passando per Dick, Olivetti, Dusio, Catella, Boniperti, sino ad arrivare agli ultimi tre: Franzo Grande Stevens, Giovanni Cobolli Gigli, Jean Claude Blanc.
A volte basta elencare pochi nomi per spiegare molte cose.
Ai tifosi che a Pinzolo gli urlavano "tu sei la Juve", Andrea Agnelli rispose "la Juve siete voi".
A loro aveva già scritto una lettera, pubblicata nel sito internet del club il 18 giugno. Il metodo più diretto e moderno per arrivare dritto all’obiettivo. E negli angoli non ancora setacciati dal web, ci pensarono la televisione e - il giorno immediatamente successivo - la carta stampata a diffonderne i contenuti.
Un segnale forte e chiaro. Destinato non soltanto a chi ama i colori bianconeri.
Alla richiesta "fatti restituire i due scudetti che sono nostri", sorrise, continuando a firmare autografi. Questo rappresenta il punto più delicato del nuovo corso bianconero. Qualcosa si è mosso, con lo stesso Presidente che si è esposto - in prima persona - sempre di più col trascorrere del tempo. Adesso si attendono notizie sulla revoca dello scudetto assegnato a tavolino all’Inter, per poi proseguire il cammino. Nel solco tracciato dalle parole presenti in alcuni punti della seconda lettera da lui scritta ai tifosi (1° ottobre).
"Compraci Krasic o Dzeko".
Il serbo, alla fine è arrivato. Per il bosniaco non è ancora detta l’ultima parola.
"Se sto bene sono più forte. Non sono secondo a nessuno, il modulo di Del Neri favorisce gli attaccanti d’area come me". Così parlò Amauri il giorno stesso, caricato dalla visita del massimo esponente della società e dalle notizie di mercato che davano come ancora lontani alcuni tra gli obiettivi che la Juventus si stava prefissando per il reparto offensivo (lo stesso Dzeko, Pazzini, Benzema e Gilardino). C’era ancora più di un mese a disposizione per provare a comprare qualche pezzo da novanta il quel settore: visto l’ostracismo di Dieter Hoeness (il direttore sportivo del Wolfsburg) si decise - alla fine - di puntare su Quagliarella, lasciando andare via Trezeguet e rimandando l’investimento oneroso nelle prossime sessioni di calciomercato.
Dove la squadra potrebbe essere ritoccata in più zone del campo. I segnali positivi visti in questo primo scorcio di stagione devono essere presi come un buon auspicio per il futuro. Ma c’è ancora da lavorare, tanto, per tornare ad essere "quelli di prima". Seguendo la strada tracciata da Andrea Agnelli e dal suo staff.
Proprio come disse (ancora) Eugenio Canfari: "L'anima juventina è un complesso modo di sentire, un impasto di sentimenti, di educazione, di bohemien, di allegria e di affetto, di fede alla nostra volontà di esistere e continuamente migliorare".
Appunto.
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martedì 5 ottobre 2010
Del Neri e il "crediamo in quello che facciamo"
"Crediamo in quello che facciamo". Queste parole sono state pronunciate da Del Neri, ai microfoni di "Sky Sport", nell'immediato dopo gara tra la Juventus e l'Inter.
Analizzando le prime partite della stagione bianconera, ciò che aveva maggiormente colpito era stato il numero delle reti subite: nove in cinque incontri di serie A, tre nell’unica gara di Europa League (preliminari e spareggio a parte), con il lettone Artjoms Rudnevs a fare da mattatore nella gara d’esordio della manifestazione con una tripletta all’Olimpico di Torino.
La vigilia del doppio confronto esterno con Manchester City e Inter non poteva non essere condizionata dai timori relativi alla tenuta di un reparto difensivo troppo ballerino, e dalla consapevolezza che può capitare di realizzare tre reti ai polacchi del Lech Poznan e alla Sampdoria o quattro all’Udinese e al Cagliari, ma che sarebbe stato certamente più arduo ribaltare le sorti di un incontro se quelle segnature fossero arrivate da un Carlos Alberto Tévez o da un Samuel Eto'o.
Nel mezzo c'era la necessità di diventare "squadra" il più velocemente possibile, di trovare il giusto equilibrio sul campo di gioco tra i reparti, di accumulare punti. Ritrovarsi con un pareggio soltanto in Europa League dopo due gare o con sette punti in campionato dopo sei incontri, avrebbe (quasi) certamente creato ulteriori difficoltà nel processo di crescita della gruppo juventino.
Prima dell'incontro con il City era stato Giorgio Chiellini a dirlo: "Ancora dobbiamo trovare un equilibrio tra le due fasi, ci vuole un pò di tempo. Tutte le squadre del mister hanno avuto bisogno un pò di tempo all'inizio, piano piano ci riusciremo anche noi".
Tra Manchester e Milano sono arrivati due pareggi. Pesanti. Quello ottenuto in Inghilterra aveva trasmesso buone sensazioni, il timore più grande prima dell'incontro di domenica sera era legato ai dubbi circa la capacità dei giocatori bianconeri di riuscire a smaltire in fretta la stanchezza (fisica e mentale) in tempo utile per l'appuntamento al "Meazza".
Questa volta Del Neri non ha dovuto usare metafore per mostrare i lati positivi della sua creatura, e non è dovuto ricorrere a dribbling dialettici per invitare tutti a vedere il bicchiere "mezzo pieno".
Grygera al posto di Motta (entrato all’inizio della ripresa), Iaquinta e non Del Piero (per lasciare spazio a Quagliarella), Aquilani in campo con Pepe fuori: ecco, queste sono le uniche differenze tra la formazione che la Juventus ha schierato in campo a Bari, nella prima giornata di campionato, e quella scesa domenica sera a Milano.
Mettendo a confronto le due prestazioni offerte dagli uomini di Del Neri si possono notare ad occhio nudo i progressi della Vecchia Signora da quando il cartello con la scritta “lavori in corso” è stato appeso a Vinovo.
Cartello che, beninteso, è corretto lasciare lì dove si trova. Non è ancora il momento di porsi degli obiettivi, sembra – invece - più opportuno continuare su una strada che, come ripetuto da più parti, pare essere veramente quella giusta.
Krasic, a Bari, era stato “assente” con tutte le giustificazioni possibili. Ma la paura che di Nedved avesse soltanto i capelli, era forte in tutti. Il dubbio principale, al termine di quell’incontro, era se l’esperienza e le capacità di Del Neri potessero essere sufficienti per rendere competitiva una squadra che – al momento – sembrava lontana dai livelli di quella di Ventura, piuttosto che di un Inter o di un Milan. Mancavano ancora pochi giorni alla chiusura della sessione estiva del calciomercato, e si pensava che – comunque – un attaccante a Torino sarebbe arrivato. Il resto della storia, è nota.
Del Neri chi? Quello che non ha mai vinto niente e che ogni volta che ha toccato con mano una realtà importante ha avuto delle difficoltà? Sì, proprio lui. Ora è giusto che si prenda i meriti di una creatura che sta facendo crescere di partita in partita, con professionalità e umiltà.
Adesso Krasic ha confermato di essere un giocatore di livello, la squadra sta crescendo di intensità e – si può provare a dirlo – anche in qualità. Da questo punto di partenza all’obiettivo concreto di vincere un qualcosa di importante, la strada da compiere è ancora lunga. Il prossimo esame sarà quello di domenica 17 ottobre, quando la Juventus – nell’incontro casalingo di campionato contro il Lecce – dovrà dimostrare di saper superare un altro tipo ostacolo: quello di portare a casa i tre punti ad ogni costo. Senza scuse, senza ricadute negative dopo gli ultimi progressi, senza il timore di dover impedire ad un avversario di vincere ma con l’imperativo di aggredirlo dall’inizio alla fine.
Certo, come cambiano le prospettive quando si passa dal parlare di calcio sotto gli ombrelloni al mare ai momenti in cui si commenta la crescita di una squadra che sta stupendo un pò tutti. E che a gennaio potrebbe essere ulteriormente rinforzata. Proprio le stesse persone che esaltavano la Juventus la scorsa estate e che la consideravano spacciata in questa appena terminata, adesso – nella fase positiva che sta attraversando – cercano di porre l’attenzione generale sul fair play mostrato in campo dai giocatori (bravi) e dagli allenatori in momenti delicati come quelli che circondano ogni partita tra i bianconeri e l’Inter.
Tranquilli, abbiamo capito: dovremmo dimenticarci del processo di Napoli, di Calciopoli, Moggiopoli e via dicendo. Tanto non succederà: la strada per riprenderci quello che è nostro è già incominciata. Anche quella. “Crediamo in quello che facciamo”. Piaccia o non piaccia.
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domenica 3 ottobre 2010
La Juventus e la voglia di vincere
"Con la Juventus ho imparato a vincere. Non so come è successo, è qualcosa che si respira nell'aria dello spogliatoio, sono concetti che vengono tramandati da giocatore in giocatore, è il sentimento che ti trasmettono milioni di tifosi e non c'è club nel mondo che ti faccia lo stesso effetto" (Edgar Davids)
Inter-Juventus: basta leggere i nomi delle contendenti per capire l’importanza della gara. Al di là dei tre punti in palio, del possibile aggancio ai nerazzurri in caso di vittoria, di un pareggio che consentirebbe ai bianconeri di passare indenni la seconda trasferta più difficile dall’inizio della stagione (dopo quella di Manchester, sponda City), di una sconfitta che potrebbe far tornare nell’ambiente i fantasmi di un (nuovo) possibile fallimento, dopo quello dello scorso anno.
Si tratta di una tappa importante, delicata, la sesta di un percorso dove ne sono previste trentotto. Di una corsa nella quale non è detto che la rosa attualmente a disposizione di Del Neri sarà la stessa che l’allenatore si ritroverà in mano a gennaio del prossimo anno, al termine della sessione invernale del calciomercato. I punti deboli della squadra sono stati ormai vivisezionati sotto tutti gli aspetti, quelli positivi che stanno comparendo lungo il tragitto vengono accolti con sollievo da parte di una tifoseria che non ha (e non potrebbe essere altrimenti) ancora cancellato tutti i dubbi sulla reale consistenza della rosa bianconera.
Quando la Juventus di Marcello Lippi (primo) planò al "Meazza" il 4 gennaio del 1998, per tutta la prima frazione di gioco schiacciò - letteralmente - i nerazzurri nella loro metà campo. Un assist di Ronaldo e la successiva rete di Djorkaeff all’inizio della ripresa decretarono la vittoria dell’Inter.
Per la Vecchia Signora si trattò di una disfatta dal sapore meno amaro del solito, più vicino a quello di un successo, dato che l’incontro diede modo di capire chiaramente quale tra le due rivali era la più forte. Ci sono prestazioni che, anche se accompagnate da una sconfitta, possono comunque fornirti sicurezze e una maggiore consapevolezza nei tuoi mezzi. Davids, in quella partita, era presente in campo, e risultò essere uno dei migliori. Si era trasferito da poco a Torino, lasciando la Milano rossonera con l’etichetta di "mela marcia".
L’incontro di stasera andrà analizzato i prossimi giorni a trecentosessanta gradi, a mente fredda, per poter meglio valutare il processo di crescita della formazione di Del Neri, a seconda del tipo di approccio all'impegno che avrà offerto al cospetto degli uomini di Benitez. Fermo restando che queste non sono né la gara né la stagione per scegliere il "fioretto", ma quelle buone per usare la "sciabola" e raccogliere anche le briciole che si presentano lungo la strada. Senza fare tante storie.
Al di là delle più classiche tra le considerazioni che si possono fare a qualche ora di distanza dall’inizio della gara, mano a mano che l’incontro si avvicina aumenta la tensione e la voglia di vincere. Quel "sentimento" che, come sosteneva Davids, "ti trasmettono milioni di tifosi".
Bianconeri.
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sabato 2 ottobre 2010
Tra Milano e Napoli, la Juve cerca "nuove" vittorie
Il pallone era stato sistemato a dovere, non rimaneva che calciare la punizione. Del Piero lo stava fissando, alla ricerca della giusta concentrazione, mentre la barriera era colma di maglie bianconerazzurre che si muovevano in continuazione. Al fischio di Paparesta, ecco partire la breve rincorsa dell’attaccante: tiro, goal. Stupendo. Una corsa veloce verso lo spicchio dei tifosi juventini presenti al "Meazza", mostrando loro la linguaccia in segno di gioia. Ci provò, nello stesso modo, anche Recoba, quando l’incontro ormai stava per volgere alla sua naturale conclusione. Ma il palo e la mancata deviazione sottomisura di Cambiasso non mutarono il risultato finale: 2-1.
Era il 12 febbraio 2006 quando la Vecchia Signora, con questa vittoria, si scrollava di dosso l’Inter in campionato, forte di un vantaggio di 12 punti che aveva il sapore di un "saluti e baci". L’unico metodo per fermare l’ennesima marcia trionfale della Juventus era quello di provocare un qualcosa di imponderabile, inimmaginabile, straordinario. Un evento simile ad un "terremoto".
Quello che poi, alla fine, accadde.
A distanza di quattro anni e tanti rimpianti, la verità sta venendo a galla, con il contorno delle sue sfumature più nascoste. Le udienze del processo di Napoli forniscono sempre più materiale per trasferire a tutti gli sportivi di qualsiasi "fede" una corretta informazione su quanto avvenne in quel periodo. Quella che sulla rete internet, da tempo, molti appassionati (non tutti addetti ai lavori) avevano già messo a disposizione, dopo una ricostruzione che aveva richiesto una pazienza certosina.
Una mano sul mouse, e l’altra sul cuore, è dovere dei professionisti del giornalismo fare luce su questi episodi, e raccontarli alla vasta platea dei loro lettori con onestà. Quella intellettuale, quella "vera". Concedendo, a notizie di una simile portata, gli spazi "congrui"che meritano. Se poi, piaccia o non piaccia, qualcuno decide di astenersi dal farlo, quella è un’altra storia. Lontana dalla realtà dei fatti.
Milos Krasic, nella scorsa sessione di calciomercato estivo, rifiutò il passaggio al Manchester City per accasarsi a Torino, sponda bianconera. Soltanto tre giorni dopo aver affrontato i Citizens si ritroverà di fronte l’Inter, a Milano. Un’altra società con la quale non aveva neppure accennato a discutere di un suo possibile trasferimento, dato che la Juventus si era già fatta avanti con lui. Nonostante, oltretutto, i tentativi di convincimento dell’amico (e compagno di nazionale) Dejan Stankovic.
Quindi: Krasic non ha accettato sia la proposta di andare a giocare in Premier League, rinunciando a maggiori possibilità di guadagno al servizio dello sceicco Mansour bin Zayed Sultan Al Nahyan, che quella di militare nella squadra che la scorsa stagione aveva vinto il campionato di serie A, la Champions League e la coppa Italia.
Perché? "Storia, vittorie e prestigio della Juventus sono qualcosa di incredibile, unico". Parole sue.
"Non posso nascondere di essere dispiaciuto per il mio mancato passaggio alla Juventus. Fino all’ultimo ho creduto che il Wolfsburg e il club bianconero riuscissero a trovare un accordo, soprattutto quando tra i due club si è aperta la trattativa per Diego. Purtroppo non è andata come avrei voluto" (Edin Dzeko, settembre 2010, intervista rilasciata al settimanale tedesco "Kicker").
C’è ancora qualcuno che subisce il fascino della Vecchia Signora, e non si tratta di calciatori di secondo piano. Anche se nel recente passato hanno trovato maggiore risalto le notizie dei rifiuti (reali?) di alcuni giocatori (Borriello, Di Natale, Burdisso) ad indossare la maglia bianconera.
Krasic sta diventando, poco alla volta, il simbolo di una squadra rinnovata, figlia di una società che cerca di riallacciare il presente al proprio passato. Andrea Agnelli scrive ai tifosi bianconeri, ma sa benissimo che le sue lettere non vengono lette soltanto da loro. Sono messaggi: alcuni chiari, altri da decifrare. Chi doveva capire, ha capito.
Da Milano (domani) a Napoli (ieri, nelle aule del tribunale) è (ri)partita la rincorsa della società per tornare ad essere se stessa. Con un Presidente a cui il cognome Agnelli, mano a mano che il passa tempo, sembra calzare sempre più a pennello anche in ambito calcistico. E’ presto per dare giudizi definitivi. Si può dire, al momento, che la strada intrapresa sembra essere quella giusta. Tanto sul rettangolo di gioco quanto fuori. Dove "la Juventus continuerà a farlo (il proprio lavoro, ndr) nelle sedi competenti perché le ragioni di tutti siano ascoltate e valutate con pari dignità". Senza proclami, ma con fermezza.
Per continuare a scrivere la sua storia. Un qualcosa di "unico" . Per rimettere le cose al loro "giusto posto", con la Juventus che "torna" a fare la Juventus. Come nei momenti in cui, con una linguaccia, salutava tutti quelli che si trovavano a 12 punti di distacco già a febbraio, con tredici giornate di campionato ancora da disputare. Nonostante, in passato, chiedessero di "mettere Collina".
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