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domenica 30 ottobre 2011

Alla Juventus il derby dei veleni


Zitti, pedalare, lavorare”. Dentro le quattro mura degli spogliatoi di Madama e davanti ai taccuini e alle telecamere dei media è dalla scorsa estate che Antonio Conte ama ripetere sino alla noia queste parole, per poi variare il tema ricordando gli ultimi due settimi posti consecutivi conseguiti in campionato dal club nel momento stesso in cui qualcuno prova a parlare di “scudetto” o cerca di alzare troppo presto l’asticella della ambizioni della sua truppa.

Per una società dove “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, basta un semplice esercizio di memoria per dare uno schiaffo alle illusioni di un ambiente che non può permettersi di cullare sogni di gloria dopo aver disputato poco meno di un quarto delle gare previste dal calendario.

La Juventus torna dal “Meazza” con la certezza di poter rimanere da sola in testa alla classifica per altri sette giorni, e mentre il Milan (mantenuto a distanza di due punti dopo la vittoria ottenuta a Roma contro i giallorossi) e il Napoli (l’avversario di domenica prossima) si apprestano ad affrontare le gare infrasettimanali di Champions League, i bianconeri potranno preparare con calma la trasferta al “San Paolo” non avendo alcun impegno prima di quell’incontro.

Il 2-1 con il quale la Vecchia Signora ha regolato l’Inter a domicilio non è figlio unico: nelle ultime cinque precedenti occasioni in campionato era capitato ben due volte.

Nella più recente, datata 22 marzo 2008, le reti di Camoranesi e Trezeguet sigillarono la vittoria “dell’orgoglio”, nell’anno del ritorno in serie A di una società che cercava di tornare ai fasti del passato il più velocemente possibile ripartendo dalle macerie rimaste dopo lo scoppio di Calciopoli. Quella squadra, all’epoca, era guidata da Claudio Ranieri, l’attuale allenatore dei nerazzurri.

Il 12 febbraio 2006 furono invece Ibrahimovic e Del Piero a dare l’ennesimo scossone ad un campionato che ormai aveva una sola padrona (la Juventus, appunto) in grado di correre in solitudine creando un vuoto enorme dietro di sé.

Proprio sul piede di Del Piero è capitata l’occasione di chiudere definitivamente il match nel recente incontro con l’Inter, quando mancavano pochi minuti alla sua conclusione: avesse centrato il bersaglio, con ogni probabilità si sarebbe ripreso a parlare con insistenza delle polemiche successive alle recenti dichiarazioni di Andrea Agnelli in merito alla conferma del prossimo addio del numero dieci bianconero dalla Juventus.

Il suo abbraccio liberatorio con Antonio Conte dopo il fischio finale di Rizzoli rende perfettamente l’idea di un gruppo che sembra impermeabile alle inevitabili pressioni che ruotano intorno alla Vecchia Signora, e che ora dovrà – su richiesta del proprio tecnico – “sprovincializzarsi”, evitando di cadere nel tranello di considerarsi matura dopo aver superato un esame importante. Per sentirsi tale, prima della conclusione di questa stagione ne dovrà sostenere moltissimi altri ancora.

Vucinic e Marchisio affondano l’Inter come già era capitato loro di fare in passato; al centrocampista bianconero, oltretutto, è stato negata la possibilità di ottenere la concessione del primo rigore del campionato in corso per la propria squadra (con annessa espulsione di Castellazzi). In caso di mancata vittoria della Juventus l’episodio incriminato avrebbe scatenato un putiferio che si sarebbe sommato alle recenti proteste nerazzurre per i cinque penalty a sfavore accumulati nelle precedenti otto giornate disputate, contribuendo così a mantenere altissimo il livello di tensioni esistenti tra i due club.

Il pensiero di Conte corre veloce verso la prossima sfida: “Adesso ci aspetta la trasferta di Napoli, contro una squadra che può vincere lo scudetto”.
Dopo quella gara, forse, si potrà realmente capire se anche la sua Juventus fa parte del lotto di favorite per il successo finale.

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venerdì 15 aprile 2011

Quando Camoranesi le suonò alla Fiorentina



"Siamo proprio forti". Abituato a guidare squadre prestigiose per poi consegnarle alla storia del calcio insieme ai trofei conquistati, Fabio Capello non riuscì a trattenere queste parole di ammirazione verso la sua Juventus. Era il 4 dicembre 2005 e Madama aveva appena sbancato Firenze con un 2-1 guadagnato nei minuti finali grazie alla rete decisiva realizzata da Mauro German Camoranesi. La Vecchia Signora si era presentata allo stadio "Artemio Franchi" con un curriculum stagionale impressionante: dodici vittorie su tredici gare disputate sino a quel momento, ventotto goals all'attivo contro i sette al passivo, dei quali tre subiti nell'unica partita persa dall'inizio del campionato (1-3 contro il Milan a "San Siro").

La formazione di casa, spinta da una tifoseria caricata dall'accesa rivalità esistente con la Juventus, tentò di arginare lo strapotere bianconero erigendo un muro difensivo di fronte a Sebastian Frey. Cesare Prandelli, infatti, schierò i suoi uomini sul campo con un prudente 4-4-1-1 che prevedeva il solo Fiore alle spalle di Luca Toni. Al bomber viola, a segno da sei incontri consecutivi, venne demandato il compito di provare a far male alla Vecchia Signora rimasta fedele al collaudato 4-4-2. Trascorsi pochi istanti dall'inizio delle ostilità proprio Toni, raccogliendo un pallone proveniente da una punizione calciata da Pasqual, con un colpo di testa centrò in pieno la traversa.

Madama reagì immediatamente e alla prima sortita offensiva passò in vantaggio: Ibrahimovic eluse la tattica del fuorigioco messa in atto dalla retroguardia dei padroni di casa ed entrò in area di rigore per poi confezionare a Trezeguet un assist che chiedeva soltanto di essere spinto in porta. Erano passati appena otto minuti di gioco, c'era ancora tutta una gara da affrontare, ma la rete appena subita costrinse Prandelli ad accantonare la tattica attendista preparata in partenza. Il successivo infortunio occorso a Jorgensen al 19' paradossalmente semplificò le scelte del tecnico, il quale decise di dare spazio alla seconda punta Pazzini arretrando Fiore sulla linea mediana del campo. La Fiorentina iniziò a macinare gioco, costringendo la Juventus sulla difensiva: il nuovo duo d'attacco, inoltre, andò a pressare con sempre maggiore insistenza Thuram e Cannavaro, i baluardi difensivi di Madama, creando diversi grattacapi agli uomini di Capello. Anche se il susseguente pericolo per Abbiati arrivò da lontano: Ujfalusi centrò l'incrocio dei pali con un tiro scoccato da una ventina di metri, a portiere battuto.

Le azioni di entrambe le squadre si svilupparono per vie centrali e lungo una soltanto delle due fasce laterali, quella di competenza di Camoranesi (per i bianconeri) e Pasqual (per i viola), entrambi tra i migliori in campo a fine incontro. Proprio da una sortita offensiva del terzino sinistro dei gigliati nacque la rete del pareggio della Fiorentina: al 40' il cross che indirizzò in area di rigore juventina venne raccolto di testa da Pazzini, che bruciò sul tempo Cannavaro e trafisse Abbiati. Per la giovane punta si trattò del secondo goal realizzato alla Vecchia Signora nell'arco di pochi giorni: il giovedì precedente, infatti, le due formazioni si erano incontrate nello stesso stadio per disputare la gara d'andata degli ottavi di finale della coppa Italia, terminata col risultato di 2-2. La partita era ormai decollata, diventando piacevole e continuando a riservare emozioni: Brocchi impegnò seriamente il numero uno bianconero con una forte conclusione centrale, mentre Ibrahimovic costrinse Frey ad un difficile intervento. Si chiuse così il primo tempo.

Alla ripresa delle ostilità Abbiati fu bravissimo a negare il goal a Pazzini. Prandelli provò allora a mescolare nuovamente le carte inserendo sulla fascia destra Maggio al posto di Fiore, nel tentativo di attaccare Madama colpendola ai fianchi per conquistare una vittoria che adesso sembrava essere alla portata dei viola. Nella zona centrale, nel frattempo, stava giganteggiando Emerson: complice una giornata opaca di Vieira, il brasiliano si eresse ad assoluto protagonista dell'incontro per gli ospiti, lottando per due sulla linea mediana del campo. Alla mezz'ora ancora Pazzini smarcò Toni solo davanti al numero uno bianconero: l'attaccante riuscì a calciare il pallone oltre Abbiati, con la sfera che interruppe la propria corsa sul palo.

In credito con la fortuna la Vecchia Signora tirò fuori il cinismo delle grandi occasioni, sferrando il colpo del kappaò quando ormai mancavano soltanto due minuti al termine dell'incontro. Da un ribaltamento di fronte il pallone giunse a centrocampo ad Ibrahimovic, che lo lanciò a campanile poco oltre il limite dell'area di rigore dei viola: Pancaro (subentrato a Brocchi) si fece anticipare in maniera ingenua da Trezeguet, che lo porse all'accorrente Camoranesi per la rete del successo finale. Nel festeggiare il goal appena realizzato il centrocampista corse verso la bandierina del calcio d'angolo e la prese in mano per poi impugnarla come se si fosse trattato del suo basso elettrico, lo strumento col quale si dilettava per passione nel tempo libero. Quella finì col diventare l'immagine più rappresentativa dell'intera partita, emblema di una squadra formidabile capace di non crollare di fronte alle difficoltà e di uscirne fuori con classe e determinazione. Ne sapevano qualcosa i tifosi viola: nella precedente gara di coppa Italia la Fiorentina era stata in vantaggio di due reti, prima che Madama si svegliasse...

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sabato 5 marzo 2011

Quando un'autorete di Chamot lanciò la Juve verso il tricolore

"La mia non è una polemica con Carletto, che reputo una persona per bene, quanto piuttosto una difesa dell'onestà di giudizio. Perché sono mesi, ormai, che viene messa in parallelo la mia ultima stagione alla Juventus con le due di Ancelotti. L'accostamento andrebbe fatto su sei stagioni...". Da quando in estate Marcello Lippi era rientrato alla corte della Vecchia Signora per prendere il posto occupato sino a quel momento da Carlo Ancelotti, così come era accaduto a parti invertite nel febbraio del 1999, i media avevano ripetutamente paragonato il percorso della nuova creatura del tecnico viareggino con quella guidata in precedenza dall'allenatore di Reggiolo. Per il quale, terminata l’esperienza bianconera con due secondi posti in altrettanti campionati interi da lui disputati su quella panchina, il destino riservò un ritorno al Milan dopo la felice esperienza da calciatore.
"Strano, no? Io ne ho fatti 144 in due anni e non sono bastati". Con questa chiara allusione ai punti accumulati da Madama durante il suo periodo trascorso a Torino (71 punti il primo anno e 73 nel secondo) il mister rossonero si presentò allo stadio "Delle Alpi" il 14 aprile 2002 nel tentativo di fare bottino pieno, per continuare la rincorsa a quel quarto posto in classifica indispensabile per disputare i preliminari per l'ammissione alla successiva edizione della Champions League. La Juventus, dal canto suo, a quattro giornate dalla conclusione del campionato si trovava a tre sole lunghezze di distanza dall'Inter capolista.

Privo di due pezzi da novanta del calibro di Montero e Nedved, Lippi fu costretto a mettere mano alla formazione titolare per trovare una valida soluzione da contrapporre agli ospiti. Alla fine optò per il classico 4-4-2, abbandonando così l’idea di cercare un'alternativa al forte calciatore ceco da inserire nella posizione di trequartista dietro le punte Del Piero e Trezeguet. Zambrotta venne spostato avanti di qualche metro rispetto all’abituale posizione di terzino sinistro e sistemato all’altezza della linea mediana del campo, con il conseguente inserimento di Pessotto come suo sostituto in difesa. Nell'altro versante mise Zenoni davanti a Thuram, laterale destro di un reparto arretrato che aveva come coppia centrale il duo Ferrara-Iuliano. Antonio Conte e Davids vennero inseriti nel cuore del centrocampo bianconero, pronti a battagliare con Ambrosini e Gattuso, i loro dirimpettai in maglia rossonera.
Anche Ancelotti, che a sua volta dovette fare a meno di Rui Costa, decise di adottare lo stesso modulo scelto dal tecnico viareggino, rinunciando a priori alla regia di Albertini e Pirlo per puntare su un assetto di sostanza e corsa, quella che Contra e Serginho avrebbero dovuto garantire al Milan lungo le corsie laterali. La dinamica dell'incontro, però, non potè che risentire degli effetti di due formazioni schierate sul campo in maniera così speculare.
La partita offrì pochi spunti di cronaca per quasi tutta la sua durata, riservando il meglio di sé per i minuti finali. Il solo Davids riuscì ad effettuare una conclusione degna di nota per i padroni di casa al 38' della prima frazione di gioco (rasoterra innocuo di sinistro). Per il resto, come se Madama fosse ipnotizzata dal pensiero di dover vincere a tutti costi per mantenere il passo dell’Inter, fu il Milan a dimostrare sul campo una maggior determinazione nel voler prevalere sull'avversario. Shevchenko e Inzaghi, costantemente messi in fuorigioco dall'eccellente applicazione dei movimenti in tal senso da parte di Ferrara e Iuliano (per ben quattordici volte vennero fermati in offside dai guardalinee), provarono invano ad impensierire Buffon in due occasioni con tiri al limite della pericolosità.
Al termine del primo tempo Ancelotti aveva già dovuto effettuare due sostituzioni a causa degli infortuni occorsi a Contra e Serginho, al posto dei quali subentrarono Albertini e Pirlo. La squadra ospite passò così da un 4-4-2 naturale ad uno “mascherato”, con la contemporanea presenza di quattro centrocampisti centrali poco inclini per le loro caratteristiche a muoversi sulle fasce. Altri due tentativi falliti da parte di Shevchenko e dello stesso Pirlo (che costrinse Buffon ad un difficile intervento recuperando una sua ribattuta a seguito di un cross velenoso di Kaladze) sembravano condurre la gara ad un inevitabile pareggio, quando - al 33' della ripresa - accadde quello che nessuno si aspettava: una punizione calciata in area di rigore rossonera da Del Piero venne involontariamente deviata nella propria porta da Chamot. Il Milan, rimasto qualche attimo prima in dieci uomini per un altro infortunio patito da Albertini a cambi ormai esauriti per l'ingresso di Roque Junior per Helveg (al 27'), si trovò nella condizione di cercare un disperato recupero in inferiorità numerica. Lippi, dal canto suo, aveva già provveduto a togliere un evanescente Zenoni per inserire Zalayeta, con il conseguente arretramento dello stesso Del Piero nella posizione di trequartista.

Trovato fortunosamente il goal, la Juventus si sbloccò, attaccando con decisione la porta difesa da Abbiati. Trezeguet (due volte) e lo stesso numero dieci bianconero tentarono di arrivare al raddoppio prima della fine dell'incontro, con il solo Inzaghi, per gli ospiti, che al 39' gettò al vento un'ottima occasione per raddrizzare le sorti della gara. Per Moggi il successo appena ottenuto si poteva riassumere nelle parole "carattere e fortuna", mentre Lippi dichiarò: "Sarò sincero: prima che le partite cominciassero, avrei messo la firma su una situazione del genere. In fondo, eravamo noi ad avere l'impegno più difficile. Quindi, non aver perso contatto dalle prime è un ottimo risultato. Sarà domenica prossima il giorno in cui potremo recuperare qualche punto: ci sarà un bel Milan-Roma, un bel Chievo-Inter, qualcosa potrebbe di nuovo succedere. Anche se noi a Piacenza incontreremo delle difficoltà". Ad aiutare a superarle ci avrebbe pensato Pavel Nedved, mentre per quanto riguarda il match dei nerazzurri l'allenatore viareggino si dimostrò un buon profeta (finì 2-2).
Il campionato terminò il 5 maggio 2002 con uno degli scudetti più belli e sofferti di Madama, che concluse la stagione con 71 punti.
Quell'anno furono sufficienti per vincere il tricolore...

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venerdì 21 gennaio 2011

Del Piero, Ibrahimovic e Trezeguet: e la chiamarono Calciopoli...

Prima di quel Sampdoria-Juventus del 22 settembre 2004 la formazione blucerchiata allenata da Walter Novellino, nonostante un difficile avvio di stagione, veniva considerata dall’opinione pubblica come una delle avversarie più probanti per verificare l’effettiva competitività della squadra bianconera agli ordini del nuovo tecnico Fabio Capello, approdato da pochi mesi a Torino come espressione di una delle ultime volontà del Dottor Umberto Agnelli per la sua Vecchia Signora. Prima della gara il tecnico juventino descrisse in questo modo i padroni di casa: "Ha due attaccanti molto pericolosi adatti per testare la nostra difesa. Dovremo affrontarla concentrati, evitando dannosi arrembaggi. E' la partita giusta per riproporre quanto di buono abbiamo messo in mostra fin qui".

Si trattava della terza giornata del campionato 2004-05, quello che si sarebbe conclusa con la vittoria dello scudetto numero ventotto per Madama. La Triade aveva lavorato in estate per consegnare all’allenatore friulano una formazione di cui si era deciso di cambiare la spina dorsale, fermo restando la conferma di Buffon: arrivarono così Cannavaro in difesa, Emerson a centrocampo e Ibrahimovic in attacco. Protagonista di una partenza a razzo, già al termine della seconda giornata la Juventus si ritrovò sola in testa alla classifica, lasciandosi alle spalle Milan, Inter, Lazio, Roma, vale a dire le principali antagoniste nella lotta per la conquista del tricolore. La Sampdoria, dal canto suo, si preparava ad ospitare i bianconeri ancora a secco di punti e con la squadra priva di alcuni giocatori importanti: Volpi, Doni, Tonetto, Diana e Carrozzieri.
Capello preferì adottare un turnover limitato al solo reparto offensivo, dove Trezeguet venne affiancato da un Del Piero apparso sino a quel momento in leggero svantaggio nelle preferenze del tecnico bianconero, rimasto immediatamente affascinato dal talento della nuova punta svedese: “Zlatan ha delle qualità straordinarie, ed è ancora giovanissimo”.
A centrocampo Blasi (scelto al posto di Tacchinardi) eresse con Emerson una diga efficace davanti alla difesa, che l’allenatore evitò di modificare rispetto agli incontri precedenti: “La retroguardia era il punto debole della squadra, fare dei cambi sarebbe dannoso”.

La storia della gara ruotò intorno a decisioni importanti su più penalties: uno concesso con il contorno di molte polemiche; un altro non assegnato benché fosse più evidente del primo; un terzo accordato su segnalazione del guardalinee, salvo poi cambiare idea.
Andiamo per ordine. Al 17’ minuto del primo tempo, durante una mischia in piena area di rigore blucerchiata Falcone cinturò Emerson e cadde a terra con lui, in mezzo ad una selva di giocatori. L’arbitro Dondarini decise subito per la massima punizione, scatenando le ire dei padroni di casa, giocatori e pubblico. Dopo quasi due minuti di discussioni Del Piero batté Antonioli, portando i bianconeri in vantaggio per uno a zero. Le telecamere confermarono la bontà della scelta del direttore di gara, mentre dalle tribune iniziarono a piovere insulti di ogni tipo da parte dei sostenitori locali. Protagonisti di una partenza aggressiva, sino a quel momento gli uomini di Capello non erano ancora riusciti a creare grossi pericoli verso la porta sampdoriana. La reazione della formazione di Novellino si concretizzò in due conclusioni di Flachi, il migliore in campo per i liguri. Nella ripresa Dondarini negò un evidente rigore alla Juventus per fallo su Camoranesi al 10’ minuto e ne assegnò invece un altro al termine della gara su segnalazione del guardalinee per un presunto fallo di Cannavaro su Pagano, salvo poi ripensarci dopo un colloquio con lo stesso assistente che, resosi conto dell’errore, gli spiegò come il difensore di origini napoletane avesse in realtà preso in pieno il pallone. Il penalty venne così trasformato in calcio d’angolo, lasciandosi alle spalle un'ulteriore coda di polemiche velenose dentro uno stadio ormai in ebollizione dalla rabbia. In mezzo a questi due episodi, nel frattempo, la Juventus aveva portato a tre le reti a suo favore, grazie ai goals segnati da Ibrahimovic (subentrato a Del Piero), bravo a girare in porta di piatto destro un suggerimento di Nedved dalla fascia, e da Trezeguet, che – rimasto in ombra per quasi tutta la partita – era riuscito ad infilare Antonioli dopo aver raccolto un pallone proveniente da una mischia formatasi dentro l’area di rigore blucerchiata a seguito di un calcio d’angolo.

Le scelte iniziali diedero ragione a Capello: “Bene, compatti, umili, determinati in tutti i momenti. Bravi, vincere qui è una bellissima impresa. Mi è piaciuta la concretezza in difesa, ho apprezzato il possesso palla. I tre attaccanti tutti in gol: il turnover porta fortuna, continueremo a farlo mantenendo il giusto equilibrio”.
Otto goals fatti e neanche uno subito dall’inizio del campionato: la sua Juventus iniziava a crescere, ed era ormai pronta per il successivo esame. Che, terminata la giornata infrasettimanale, sarebbe capitato di lì a poco: domenica, al “Delle Alpi”, avrebbe fatto visita alla Vecchia Signora il Palermo del bomber Luca Toni.
Con qualche imperfezione da correggere: “Non mi è piaciuta l'occasione che abbiamo concesso a Flachi al 94'. Un errore di piazzamento difensivo che va eliminato”.
Certo, quelli sì che erano problemi…

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sabato 18 dicembre 2010

Quando dalla nebbia del Bentegodi spuntò Trezegol

Luigi Del Neri era infuriato, la sera del 19 gennaio 2003: il suo Chievo e la Juventus stavano disputando il match valido per la diciassettesima giornata di quella stagione immersi nella nebbia. Seduto sulla panchina continuava a ripetere: “Pazzesco, pazzesco”. Tanto dalle tribune dello stadio “Bentegodi” di Verona quanto dalla televisione non si vedeva praticamente nulla. A completare (e complicare) la situazione ci si misero anche i fumogeni accesi sugli spalti e lanciati a bordo campo. Nei primi 45 minuti di gioco il coro "Vergogna, vergogna" fece da colonna sonora all’incontro.
Dal grigiore generale sbucò fuori David Trezeguet: gli bastarono soltanto undici minuti per battere Lupatelli, dopo aver anticipato un gruppetto di giocatori formato da Montero, D'Anna e Moro che si erano avventati su un pallone rimasto vagante in area di rigore, a seguito di una punizione battuta da Del Piero e non trattenuta dal portiere clivense. La prodezza del francese rappresentò l'ennesima dimostrazione delle sue qualità da goleador: nel repertorio di un attaccante che "vedeva" la porta come lui, era compresa anche la capacità di segnare in situazioni di estrema difficoltà simili a quella incontrata a Verona.
Del Piero, direttamente da calcio di rigore assegnato per una trattenuta di Moro su Nedved, al 20’ portò il risultato sul 2-0 per i bianconeri.

Quando la prima frazione di gioco stava volgendo al termine, si alzò il vento che permise di spazzare via la nebbia ed i fumogeni che avevano avvolto sino ad allora lo stadio, ponendo fine a quel martirio. Nella ripresa le due squadre poterono giocare a viso scoperto: da una parte i padroni di casa, che prima di quell’incontro avevano fatto il pieno di autostima con una serie di quattro vittorie e due pareggi nelle ultime sei gare disputate; dall’altra i detentori dello scudetto, sfavoriti secondo i pareri degli esperti per il successo finale, che avrebbero lasciato il titolo di campione d’inverno al Milan del brasiliano Rivaldo, fresco campione del mondo nell’edizione disputata in Corea del Sud e in Giappone.
Marcello Lippi non si arrendeva all’ipotesi di lasciare via libera verso il tricolore ai rossoneri: “Siamo tutti vicini, la compagnia è buona. Lo svantaggio è così esiguo da essere irrilevante a questo punto della stagione. Noi ci crediamo e lotteremo gomito a gomito con le altre”. Con una geniale intuizione aveva “inventato” un nuovo ruolo per Gianluca Zambrotta: da centrocampista laterale destro a terzino sinistro. Il giocatore, dopo un primo periodo di apprendistato, rispose alla grande. Liberando, di fatto, lo spazio sulla linea mediana a Camoranesi, che quella sera andava ad aggiungersi ad un terzetto composto da Antonio Conte, Davids e Nedved.

Un altro il rigore per la Juventus, fischiato per un fallo di Lanna su Camoranesi, venne calciato da Del Piero sulla traversa. Due penalties, esattamente come era accaduto nell’incontro disputato a Verona dalle due formazioni nella stagione precedente (27 gennaio 2002). Il fantasista si rifece dopo pochi minuti, ispirando un contropiede che portò Trezeguet a fissare il risultato sul 3-0 per Madama. Del Neri si giocò tutti i cambi a sua disposizione quando ancora mancavano venti minuti alla conclusione della partita: il tempo necessario per assistere al goal di Cossato, che però si fece male e uscì dal campo, lasciando la sua squadra in dieci uomini. Per un breve lasso di tempo: Bierhoff perse le staffe, insultò l’arbitro Racalbuto e venne espulso ad un quarto d’ora dalla fine della gara.
Moro (ancora lui), l’esterno difensivo dei padroni di casa, entrò in contatto con Di Vaio (subentrato a Del Piero): rigore, il terzo della serata. Questa volta andò dal dischetto Trezeguet, che prima di calcare dovette assistere allo “sciopero” del portiere Lupatelli: applaudì l’arbitro per l’assegnazione del tiro dagli undici metri e si appoggiò al palo, lasciando – di fatto – lo specchio della porta totalmente libero al francese. A fine partita dichiarò: “Mi ero messo sul palo per un momento di relax: nel mio gesto non c' era polemica, stavo solo pensando a dove Trezeguet avrebbe potuto tirare”. Sta di fatto che i compagni e lo stesso arbitro dovettero intervenire per convincerlo a smetterla con quella sceneggiata. Che, ovviamente, non distrasse l’attaccante bianconero: goal, tripletta personale e partita chiusa sul 4-1.
Eroe della serata, Trezeguet dichiarò: “Ho un contratto che mi lega alla Juventus fino al 2005, che intendo rispettare. Non lascio la barca in questo momento, non vado da nessuna parte. I tifosi bianconeri possono stare tranquilli”. La “barca”, col senno di poi, non l’avrebbe lasciata per situazioni ancora più delicate.
La Juventus, dopo quella gara, continuò la corsa sul Milan, che raggiunse e superò, distanziandolo – a fine campionato – di ben undici punti. Per i bianconeri si trattò del ventisettesimo titolo vinto (su un totale di ventinove). Cinque giorni dopo la partita disputata allo stadio “Bentegodi”, Madama ed il suo popolo avrebbero salutato per l’ultima volta l’Avvocato Gianni Agnelli.

A Luigi Del Neri, al termine dell’incontro, chiesero un parere sulle condizioni climatiche nelle quali erano state costrette a giocare le formazioni: “Non tocca a me il compito di giudicare queste cose, c'è una persona preposta e se la partita è stata disputata vuol dire che secondo chi doveva decidere si poteva giocare. E poi non voglio trovare scuse alla nostra sconfitta”. Quella sera il tecnico si dimostrò un galantuomo.
A distanza di sette anni tornerà a Verona a braccetto di una Vecchia Signora.

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martedì 9 novembre 2010

La vittoria a Brescia per 4-0 e il 5 maggio 2002

"Sei punti di ritardo dal primo posto non sono troppi, possono essere recuperati in quattro o cinque partite".
Si espresse in questi termini, Marcello Lippi, il 23 dicembre del 2001, dopo aver espugnato con la sua Juventus il "Mario Rigamonti" di Brescia sconfiggendo le “rondinelle” allenate da Carlo Mazzone con un rotondo 4-0.
I bianconeri erano finalmente riusciti ad interrompere un digiuno di vittorie lontano dal "Delle Alpi" che durava da più di tre mesi, dopo l’ultimo successo esterno ottenuto a Bergamo contro l'Atalanta di Vavassori per 2-0 (9 settembre) alla seconda giornata del campionato 2001-02.

Con la cessione di Zidane (al Real Madrid) e Filippo Inzaghi (al Milan), gli arrivi di Buffon, Thuram, Nedved, Salas e il ritorno dell'allenatore toscano sulla panchina juventina (dopo il precedente addio del febbraio del 1999), in estate la Vecchia Signora aveva deciso di cambiare abito: dal 4-3-1-2 indossato nell’anno appena concluso al ritorno al classico 4-4-2, per una squadra più muscolare ma (inevitabilmente) dotata di minor tecnica rispetto alla precedente.

I primi mesi del campionato avevano - però - messo in mostra una pericolosa mancanza di imprevedibilità e coesione in un gruppo nuovo, vittima e carnefice al tempo stesso dei suoi continui alti e bassi, di occasioni sprecate (memorabile il derby pareggiato 3-3 dopo aver dilapidato il vantaggio di tre lunghezze), di vittorie che regalavano momentanee illusioni di un cammino meno tortuoso da percorrere sino all’obiettivo dichiarato dello scudetto.

La società sembrava intenzionata ad intervenire con correttivi di valore già nella sessione invernale del calciomercato, e la smentita di Luciano Moggi in tal senso (“per Natale non ci saranno Doni”, in riferimento all’interesse per il centrocampista allora in forza all’Atalanta) lasciava invece presagire una precisa volontà della dirigenza di rinforzare ulteriormente la rosa, andando a colmare le lacune che il campo aveva mostrato.

Poi scoccò, proprio nella gara di Brescia, quella scintilla che diede vita ad un cambio di marcia repentino, uno di quei segnali che – se colti al volo in tutta la loro essenza – sono in grado di moltiplicare le forze di chi cerca di uscire da una situazione delicata.

La temporanea assenza di Zambrotta, all’epoca ancora utilizzato come laterale destro di centrocampo, permise a Lippi di schierare Tacchinardi al centro della linea mediana, protetto ai lati da Edgar Davids (a sinistra) e Antonio Conte (nella corsia opposta), con l’avanzamento di Pavel Nedved dietro le due punte, libero di svariare e pungere le difese avversarie. Di fatto si era tornati dal 4-4-2 a quel 4-3-1-2 abbandonato pochi mesi prima, con la sostanziale differenza nell’interpretazione nel ruolo del trequartista, derivante – ovviamente – dalle diverse caratteristiche degli interpreti (Zidane prima, Nedved dopo).

Sdoganato dalla fascia sinistra, il biondo ceco iniziò a furoreggiare in lungo e in largo per tutto il rettangolo di gioco, trovando finalmente un ruolo, idoneo alle sue caratteristiche, che gli consentisse di esprimere tutto il suo potenziale. E se il Brescia nella prima mezz’ora dell’incontro mise in difficoltà la Vecchia Signora con tre conclusioni di Tare, il suo attaccante di origini albanesi, da quel momento in poi i centrocampisti bianconeri suonarono la carica, impadronendosi del gioco e conducendo la squadra di Marcello Lippi alla vittoria finale.

La prima rete bianconera fu di marca francese: cross di Thuram, schierato come difensore esterno destro, e testata vincente di Trezeguet. In occasione della seconda, realizzata da Del Piero, ci furono numerose proteste legate alla valutazione di una possibile posizione di fuorigioco del capitano bianconero nell’azione incriminata: l’arbitro De Santis la valutò passiva all’inizio, e regolare dopo che Trezeguet - ancora lui - gli servì un pallone invitante che andava soltanto spinto nella direzione della porta avversaria. Le nuove norme della FIFA, in merito, erano chiare, e il direttore di gara si limitò ad applicarle correttamente: la rete era da considerarsi valida. Ciro Ferrara (su angolo di Nedved) e Edgar Davids (direttamente su punizione) realizzarono le ultime due marcature dell’incontro. Privo delle stelle Roberto Baggio e Josep Guardiola, il Brescia dovette arrendersi al risultato e all’evidenza della netta superiorità mostrata dai bianconeri.

Nei successivi undici incontri di campionato la squadra allenata da Marcello Lippi spiccò il volo, totalizzando la bellezza di otto vittorie e tre pareggi. Il crollo a Parma a sette gare dalla fine del torneo (24 marzo 2002) non pregiudicò il successo finale della Vecchia Signora, in un torneo avvincente che si concluse soltanto all’ultima partita, disputata il 5 maggio del 2002. Come andò a finire è storia nota: il campo premiò la squadra che – alla fine della manifestazione – aveva il miglior attacco e la difesa meno perforata, in una domenica indimenticabile per il mondo bianconero.

Né Juve, né Roma, Inter Campione”, recitava lo striscione che campeggiava nella curva nord dello stadio "Olimpico" di Roma, per l’occasione tinto di nerazzurro. Doveva essere la festa dello scudetto dell’Inter, divenne il ventiseiesimo tricolore a finire nelle mani della Vecchia Signora del calcio italiano, con la squadra allenata da Hector Cuper che – perdendo quella gara - arrivò addirittura terza dietro la Roma (vittoriosa a Torino contro i granata).
Il campo aveva deciso così: lui è sincero, non mente mai. Soprattutto nei confronti di chi è innamorato delle vittorie a tavolino.

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venerdì 22 ottobre 2010

Quando Zidane ballava nel prato verde del "Renato Dall'Ara"

Gli altri calciatori giocavano a pallone, quel 20 maggio 2001, allo stadio "Renato Dall'Ara" di Bologna.
Zidane no. Lui, sul campo, danzava. Saltava gli avversari come fossero birilli, esibiva “rulete” in continuazione, ruotando il corpo su se stesso di 360 gradi e facendo perno con la pianta del piede sulla sfera, alternava movimenti continui lungo tutta l’ampiezza del prato verde ad improvvise decelerazioni, ma sempre - e comunque - con lo strumento del mestiere incollato ai piedi.

Lo accarezzava, liberandosene soltanto per consegnarlo a qualche compagno, strofinato a dovere e indirizzato là dove sarebbe servito. Così come fece in occasione dell'ultima rete realizzata dalla Juventus, quella che le permise di chiudere l'incontro con il risultato di 4-1, quando recapitò uno splendido assist a Kovačević che, scattato nel momento e nella posizione giusta, fu poi abile nel trafiggere un incolpevole Pagliuca.

Il vestito della Vecchia Signora, in quel pomeriggio di primavera, era il consueto 4-3-1-2, dove "l'1" era proprio Zinedine Yazhid "Zizou" Zidane. Nella sua abituale posizione ballava tra il centrocampo e l’attacco, divertiva il pubblico divertendosi lui stesso. A fare coppia con Del Piero, nel ruolo di prima punta, c'era David Trezeguet: infortunato Filippo Inzaghi, al francese non restava che sfruttare occasioni come questa per guadagnare spazi e consensi all’interno dell'ambiente bianconero.

Ovviamente, da cecchino che raramente sbagliava le opportunità che gli venivano offerte, non fallì: pareggiò il momentaneo vantaggio dei felsinei (ad opera di Giuseppe Signori) e portò a tre le marcature della Juventus dopo la rete del sorpasso siglata da Igor Tudor.

Carlo Ancelotti in panchina, Edwin Van der Sar in porta, e una squadra - in campo - largamente rimaneggiata: in difesa vennero schierati Tudor, Montero e i due ex di turno Iuliano e Paramatti, mentre a centrocampo – a protezione del reparto offensivo - si posizionarono Zambrotta, Tacchinardi e Pessotto, al quale venne affidato l’arduo compito di non far rimpiangere Edgar Davids.

In quella stagione lo scudetto passò da una sponda del Tevere all’altra: la detentrice Lazio si vide scucire il tricolore dalle mani della Roma di Franco Sensi e Fabio Capello, regina del mercato estivo.
La Juventus dovette attendere ancora un anno per tornare a primeggiare in Italia: dal diluvio di Perugia (nel campionato precedente) al cambio delle regole sull’utilizzo degli extracomunitari (in quello di cui qui si dice, quando si permise ai giallorossi di schierare Nakata – che risultò poi decisivo – nello scontro diretto a Torino), per la seconda volta consecutiva la Vecchia Signora dovette rinunciare alla vittoria finale non soltanto per propri demeriti.

Bologna-Juventus, uno scontro che si rinnova anche quest’anno e che vedrà le due squadre affrontarsi nuovamente domenica prossima. Nella speranza di non dover assistere più ad episodi simili a quello accaduto poco meno di due anni fa, il 28 ottobre 2008, allorquando Massimo De Vita, tifoso juventino proveniente da Modena, al termine dell’incontro venne colpito da una pietra a seguito di un’aggressione di alcuni sostenitori bolognesi che tentavano di strappare al figlio la sciarpa bianconera.

Nel corso di quella gara la Vecchia Signora portò a casa, un’altra volta ancora, i tre punti. Il protagonista della serata fu indiscutibilmente Pavel Nedved, autore di una doppietta nel 2-1 finale, che consentì agli uomini dell’allora tecnico Claudio Ranieri di bissare il fresco successo nel derby torinese e di avvicinarsi, momentaneamente, all’Inter capolista.

Quel Nedved arrivato alla Juventus, in compagnia di Buffon e Thuram, proprio grazie al ricavato della cessione al Real Madrid di Zidane. Quella di Bologna rappresentò una delle ultime esibizioni in bianconero di uno dei campioni più amati dalla tifoseria: un pallone d’oro (il francese lo aveva conquistato nel 1998) che lasciava il posto ad un altro che lo avrebbe vinto a distanza di pochi anni (per il ceko sarebbe arrivato nel 2003). Unico comune denominatore tra i due, la stessa squadra: la Juventus.
E per Nedved, anche se con altre vesti, adesso si può dire che la sua storia in bianconero non è ancora finita.

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giovedì 9 settembre 2010

La Juve tra vecchi progetti e nuovi rinnovamenti

"Abbiamo riportato nei tempi previsti la squadra alla massima competitività, nazionale e internazionale. In questi ultimi anni solo un'altra squadra ha fatto meglio di noi, ma con una logica economica diversa".
Era il 14 febbraio 2010, il giorno dedicato agli innamorati, quando Jean Claude Blanc pronunciò queste parole.

A (ri)leggerle ora, a distanza di mesi, verrebbe da pensare ad una Juventus finalmente alla conclusione di quel percorso di rinascita iniziato dalle ceneri del terremoto del 2006.
Invece si stava parlando di una squadra eliminata di fatto dalla Champions League, retrocessa nell’Europa League dove avrebbe ancora dovuto giocare l’andata dei sedicesimi di finale contro l’Ajax e che era riuscita ad ottenere 8 punti nelle ultime quattro giornate in serie A, dopo la recente vittoria in casa del Bologna (tanta roba, visto quello che sarebbe accaduto da quel momento in avanti).

Ciro Ferrara era stato esonerato da pochi giorni, nonostante le dichiarazioni dello stesso Blanc del 1° dicembre 2009 dopo la sconfitta esterna a Cagliari ("Ferrara non rischia nulla, sta lavorando bene e ha tutta la nostra fiducia. L'esito delle due prossime partite non cambierà nulla, andiamo avanti con il nostro progetto. Ciro ha grandi capacità ed è un gran lavoratore, ha con lui uno staff di qualità").

Al termine dello scorso campionato altre cinque squadre, assieme all’Inter, fecero meglio della Juventus.

Ci voleva pazienza, per vedere finalmente compiuta l’idea di calcio (in)sostenibile del francese.
La stessa parola usata più volte da Claudio Ranieri ai tempi della sua permanenza in bianconero. Come, ad esempio, nella dichiarazione che rilasciò in occasione del pareggio (0-0) ottenuto a Genova contro la Sampdoria nell’anticipo della 5° giornata del campionato 2008-09: "Ma se raccontassi che siamo venuti a Genova senza pensare ai tre punti non direi la verità. È andata male, pazienza, sorrideremo un'altra volta". Nella partita diventata famosa per altre affermazioni: "Non ho messo Giovinco perché avevo paura della spinta offensiva di Pieri".

Oppure in quelle pronunciate dallo stesso allenatore dopo la sconfitta interna contro la Lazio in coppa Italia, nel corso di quella stagione. Una disfatta che determinò l’uscita dei bianconeri dalla competizione: "Volevamo andare in finale, non ci siamo riusciti,...Pazienza". A cui seguirono altre frasi diventate (anch’esse) celebri: "I nostri tifosi sono il nostro popolo e il popolo è sovrano".

Non si possono imputare al nuovo Presidente Andrea Agnelli e alla sua dirigenza (tutta meno uno…) gli errori del recente passato bianconero. Su quelli, e "con" quelli, hanno dovuto lavorare in questi primi mesi. Si attendeva il termine del calciomercato estivo per stilare un bilancio dell’operato in quella sede: oltre all’unanime delusione per il mancato arrivo di (almeno) un campione sotto la Mole, la tifoseria si è "divisa" tra pessimisti, ottimisti e realisti. Consci, in larghissima maggioranza, che lo scudetto, per quest’anno, è "roba d’altri".

E’ sparita, o quasi, la parola "progetto", sostituita dal termine "rinnovamento". Che, come dice Giuseppe Marotta, "è un processo più lento rispetto a una rivoluzione". L’unico ritornello, che non cambia, è che "ci vuole pazienza".
Quella che viene chiesta ai tifosi, nuovamente. E che, ad oggi, hanno avuto in dosi massicce.

Al ritorno in serie A (dopo l’inferno della B), si decise di puntare su un centrocampo guidato da Tiago e Almiron (per finire con Cristiano Zanetti e Sissoko). Se sul portoghese non vale la pena dilungarsi, sull’argentino è giusto ricordare le sue prime parole pronunciate a Torino ("Forse non sono ancora pienamente maturo per una squadra come la Juve") per capire la differenza tra "indossare" la maglia della Juventus e "portarla": sono due cose diverse.

Nonostante gli errori della campagna acquisti, alla fine la Vecchia Signora si classificò al terzo posto. Accettato di buon grado, in larga parte, perché i tifosi avevano capito le difficoltà nelle quali si trovava ad operare la (precedente) società. La scorsa estate, invece, nel tentativo di migliorare e rendere competitiva la squadra, si finì col distruggere tutto. La gestione degli eventi in corso d’opera, poi, fecero venire alla luce le debolezze interne della dirigenza. Ma quello è un altro discorso.

Si può sbagliare, e il campo dirà - come al solito, come sempre - la verità, ma l’impressione è quella di essere tornati di nuovo "all’anno zero", più o meno come accadde nei momenti successivi al ritorno in serie A. Con qualche campione in meno e con una Vecchia Signora più simile ad una Signorina ai primi passi in attesa di diventare grande, verso la quale i tifosi devono portare pazienza. E infinito amore. Quello che non è mai mancato: l'ennesima riprova la si può avere guardando come si sta iniziando a riempire lo stadio Olimpico per la prossima gara interna con la Sampdoria di domenica.

Lo si è capito: ci vuole pazienza. Ormai si può anche smettere di dirlo. Adesso spazio alle partite, alle sette gare in poco meno di un mese. E che siano i fatti a parlare, d’ora in poi.

Ha detto bene due giorni fa David Trezeguet, uno che a Torino sarà sempre di casa: "Nel calcio il passato è importante. Nella Juve è quasi tutto".
Il problema è che, ancora, non si trova un collegamento tra tutto quello che c’era nel 2006 e la realtà odierna. Fatta eccezione per qualche giocatore.
Ma è ancora poco. Troppo poco.

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Comunicazione (per gli amici): nella giornata di domani, per motivi personali, non sarò reperibile. Tornerò online sabato (sera). A presto

giovedì 5 agosto 2010

A Modena dentro Diego, fuori le polemiche



"Diego o Del Piero?". Un dubbio che Del Neri aveva già sciolto al momento del suo arrivo a Torino: giocherà la meritocrazia.
Ancora oggi si continua a parlare del dualismo tra i due giocatori, in un attacco dove il nuovo allenatore bianconero ha ripetuto più volte che "non farà mai giocare due punte e un trequartista".
E che il posto di attaccante centrale "se lo giocheranno Amauri e Trezeguet".

Gli undici scesi in campo a Dublino, nell’incontro di andata contro lo Shamrock Rovers, si ritroveranno titolari stasera a Modena.
Diego più avanti, in campo, rispetto alla posizione ricoperta nella scorsa stagione: dai "duetti" al dualismo con Del Piero; dal rappresentare - entrambi - due terzi del reparto offensivo della squadra, ad essere in ballottaggio per un unico posto (in attesa del rientro di Iaquinta) da seconda punta.

Si continua e si continuerà a parlare di questo ancora per un po’. Almeno sino a quando non ci si stancherà di farlo, oppure fino al momento in cui non "farà più notizia". Molto probabilmente sino a quando il percorso calcistico italiano di Diego avrà una sua naturale conclusione: consacrazione (definitiva) o cessione.

Allora si tornerà a discutere di argomenti più "sostanziosi", perché i problemi da superare per passare dalla settima posizione ottenuta in campionato nella scorsa stagione alle prime (obiettivo della società) nella prossima, non possono essere riassunti - alla vigilia di ogni incontro dei bianconeri - nell’analizzare la bontà della scelta di Del Neri di affidare una maglia da titolare nel reparto offensivo ad un giocatore piuttosto che ad un altro: c’è un rosa da completare, da migliorare qualitativamente e da "aggiustare" quantitativamente tramite le cessioni di quei calciatori che a più riprese sono stati invitati a togliere il disturbo. E, soprattutto, una mentalità vincente da riconquistare.

Via Giovinco (in bocca al lupo), a breve dovrebbero seguirlo altri.
"Stiamo parlando di un calciatore che giocherà i Mondiali, è ovvio che ci vorrà una squadra di livello, altrimenti onoreremo il contratto con i bianconeri, in assoluta tranquillità e mantenendo gli ottimi rapporti con la società, più in là ne sapremo di più".
Era il 4 maggio scorso, quando Sergio Fortunato, agente di Mauro German Camoranesi, pronunciò queste parole.
Oggi è il 5 di agosto, e i contatti più avviati per un suo addio sono quelli rappresentati (salvo ulteriori sorprese) dal Birmingham. Conditi, quasi certamente, dalla richiesta di una buonuscita da presentare alla Juventus.

Mentre Del Piero occupò la sedia accanto a Del Neri nel corso della conferenza stampa di vigilia dell’incontro di Dublino, questa volta il compito è capitato a Claudio Marchisio, una delle travi sulle quali la nuova Juventus cercherà di costruire la struttura della squadra del futuro. Dall’Irlanda a Modena, ma - soprattutto - dallo stadio "San Vito" di Cosenza (teatro dell’amichevole dei bianconeri contro il Lione) al "Braglia" di stasera, passando per i ritiri di Pinzolo e Varese e da Rovereto (gara contro l’Al Nassr): ovunque vada, la Vecchia Signora fa il pienone. Di amore e di entusiasmo.

Perché il problema non è chi giocherà tra Del Piero e Diego (fermo restando che il mercato, anche in entrata, non è ancora concluso), ma rimane quello di dare in pasto a milioni di tifosi bianconeri un qualcosa di simile alla "vera" Juventus il più presto possibile.
Il resto sono solo parole. Che non contano nulla, portano polemiche inutili e, soprattutto, non ti fanno vincere niente.

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sabato 13 marzo 2010

Verso il quarto posto con le bocche cucite


La zuccata di Legrottaglie, il missile di Zebina, il flipper di Trezeguet (forse con l’involontaria sponda di Salihamidzic): tre goals, tre indizi che fanno una prova. La Juventus è più forte del Fulham: lo si sapeva, ma visto e considerato che tutte le "regole non scritte" del mondo bianconero sono state stravolte in quella che sino a poco tempo fa aveva i contorni di una delle annate più disgraziate della storia juventina, era necessaria una verifica sul campo.
Senza il tiro (sbilenco) di Etuhu, deviato involontariamente da Legrottaglie (sempre lui), la pratica della qualificazione ai quarti di finale di Europa League poteva considerarsi conclusa ancor prima di imbarcarsi per l’Inghilterra per giocare la gara di ritorno.
Ora qualche pensiero rimane. Così come la consapevolezza che il peggio è alle spalle, ma la completa guarigione ancora non è avvenuta.
Deluso Mr. Hodgson, allenatore del Fulham, per non essere riuscito ad accontentare Massimo Moratti che - nelle ore precedenti l’incontro - gli aveva augurato di disputare una grandissima partita. Alla faccia del tifo degli italiani per le squadre italiane in Europa: lo vorrebbe lo spirito sportivo, lo richiede il ranking UEFA, non lo fa (quasi) mai nessuno. Fuori anche Fiorentina e Milan: rimangono Inter e Juventus (seppur in competizioni diverse). Sempre loro. Per ora…

Il siluro di Robben (talento e muscoli cristallini) rende vani i goals di Vargas e Jovetic. Ma le colpe, per il popolo viola, rimangono di Platini (presidente UEFA) e Ovrebo, l’arbitro che nella gara di andata (in Germania) convalidò la rete in netto fuorigioco di Klose. Goal, poi, risultato decisivo per la qualificazione al turno successivo.
Per la cronaca: si tratta anche dello stesso fischietto che non vide una marcatura in fuorigioco di Plasil nel pareggio interno tra Juventus e Bordeaux (15 settembre 2009). Era la prima partita del gironcino, ma non si protestò così tanto: lo stile-simpatia, introdotto quattro anni fa nel quartier generale bianconero, lo impediva. Larghi sorrisi e avanti: verso la prossima sconfitta.

Eliminato il Milan: i quattro ceffoni di mercoledì sera si sono uniti ai tre della gara di andata. Addio Europa, senza recriminazioni alcune: le assenze di Nesta e Pato non bastano a giustificare queste figure.
Sconfitte che si uniscono a quelle del recente passato, e che coinvolgono il calcio italiano in generale, in lento declino in attesa di una ripresa (ad oggi) non ancora prevista. Meno introiti, mancanza di programmazioni a lunga scadenza, troppo interesse verso la spartizione dei soldi rimasti, poco impegno verso la costruzione di stadi di proprietà,… E Calciopoli. Voluta? Ecco il conto.
L’eliminazione del "gigante" Real Madrid non deve trarre in inganno: in rosa ci sono sempre fior di campioni e il futuro è già disegnato. Uscita precoce in coppa, Liga difficile da vincere (c’è sempre un certo Barcellona "in casa" con cui competere): si tratta soltanto di aspettare il "manico" giusto, l’uomo che potrà riportare quell’equilibrio in campo che in passato diede un certo Fabio Capello. Potrebbe trattarsi di Mourinho, se la proprietà spagnola non ascolterà le voci dei tifosi (che ancora terrebbero Pellegrini). Ma ci sono più di 250 milioni di euro di investimenti (in una sola estate) da far fruttare. Al più presto. Più quelli che verranno spesi in futuro.

Tonfo dell’Inter in campionato. Nell’anticipo (dell’anticipo) del venerdì, Mascara e il suo cucchiaio cucinano un recupero che annulla la rete iniziale di Milito. Isterica contro la Sampdoria prima della gara di andata contro il Chelsea, stralunata al "Massimino" prima di quella del ritorno allo "Stamford Bridge". Mentre Balotelli inizia a preparare il suo addio facendosi assistere da Mino Raiola (il procuratore di Ibrahimovic), il Milan intravede la possibilità di portarsi a -1 dai nerazzurri (in caso di vittoria nel posticipo serale contro il Chievo). Ma la perdita di Nesta è più grave della battuta d’arresto degli uomini di Mourihno: si trattava di una delle due (sole) travi sulle quali si basava la difesa di un Milan votato all’offensiva per necessità. Ora rimarrà al solo (e bravo) Thiago Silva il compito di fronteggiare, aiutato dal compagno di turno, l’urto degli attacchi avversari. In una squadra troppo sbilanciata per vincere un campionato che vede solitamente primeggiare la più regolare.

Alla Juventus uno dei compiti all’apparenza più facili: il Siena in casa, ultimo in classifica. Squadra che il 9 gennaio, contro l’Inter al Meazza, giocò una grande partita. Persa, poi, per 4-3. Nella stessa giornata in cui la Juventus cedette per 3-0 all’Olimpico contro il Milan, quasi alla fine del periodo-Ferrara. Formazione, quindi, da prendere con le molle. Ora che la porta avversaria non sembra più essere grande come una piccola fessura, ma torna ad assomigliare ad un bersaglio da centrare con maggiore regolarità, un calo di concentrazione potrebbe diventare letale per le rinnovate ambizioni della squadra di Zaccheroni.
Ambizioni che, se confermate dai risultati, potrebbero convincere la proprietà ad investire cifre importanti nella prossima finestra del mercato estivo: si parla di un importo che oscilla tra i 50 e gli 80 milioni di euro. Indispensabili, per chi si deve sedere a trattare con le altre società per acquisti importanti.
Inutili, se dati in mano alle persone sbagliate. Ci pensi, John Elkann, se sarà ancora lui a tenere in mano le redini della Juventus.
Sino a quel momento: bocche cucite. Vale per tutti. Inutile parlare del terzo posto in classifica: ad oggi, quella, vede i bianconeri in quinta posizione. Giusto per non dimenticare.

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sabato 27 febbraio 2010

Verso Juventus-Palermo. E sull'onestà di Mourinho…


"Non alleno i singoli, ma il gruppo: conta il noi, non l’io". Così Alberto Zaccheroni ha spiegato, nell’immediato dopo partita, la (nuova) sostituzione di Diego durante l’incontro con l’Ajax di giovedì scorso. Più di venti minuti ancora da giocare: meglio utilizzarli per ricaricare i (deboli) muscoli di Camoranesi, e lasciare che il centrocampista brasiliano percorresse arrabbiato la strada che porta agli spogliatoi.
Diego come il giocatore che dovrebbe far compiere il salto di qualità alla squadra, farle cambiare il passo quando necessario, risultare decisivo e spostare gli equilibri di un campionato: è il destino dei grandi. La tecnica c’è, lo spirito di sacrificio pure. Ma non basta. La confusione tattica e psicologica della squadra, ad oggi, lo ha penalizzato oltremisura. Ma chi deve iniziare a cambiare registro è lui per primo: sostando là dove il tecnico (Zaccheroni ora, ma anche Ferrara prima) gli chiede di stare e facendo scorrere il pallone il più possibile. Evitando di tenerlo incollato al piede e di girare intorno a se stesso più di quanto non sia necessario.

E’ con il gruppo che si va avanti: quello che ha perso tutto il possibile nei mesi scorsi e che si sta lentamente ritrovando. Ad ora, sono state scalate alcune posizioni di classifica in Italia (sino a tornare al quarto posto) e sono stati raggiunti gli ottavi di finale dell’Europa League. Poi, si vedrà.
Sistemata la pratica-Ajax: l’assenza del talento di Suarez, unito ad un risultato d’andata favorevolissimo, hanno aiutato. La ritrovata inviolabilità della porta bianconera, ha fatto il resto.
Staffetta Trezeguet-Amauri: per un attaccante che guarisce, ce n’è un altro che si fa male (Iaquinta, intanto, continua ad allenarsi). Prima dell’incontro era stata la volta del portiere (Buffon). Dopo, quella dei muscoli di seta di Camoranesi, raffinati come le sue giocate.
Appuntamento all’11 di marzo con il Fulham (Europa League). Non si guardi oltre: alla giornata, si deve continuare a vivere alla giornata. Quest’anno è così. Ora, solo campionato.

Una vittoria contro il Palermo, domenica sera, per staccare in classifica i rosanero (dietro ad un punto). Nell’attesa della giornata più importante, tra le ultime: la prossima, quella che vedrà - sabato - gli scontri tra Fiorentina e Juventus al pomeriggio e Roma e Milan alla sera. Campionato che è ancora lontano dal terminare, con una classifica che - grazie ai recuperi infrasettimanali - da virtuale è diventata "reale": Milan a meno 4 dai nerazzurri; Roma, sempre a 5 punti. Ma se i giallorossi dovranno risollevarsi alla svelta dopo l’eliminazione in Europa League (doppio black out con i greci del Panathinaikos, andata e ritorno; vedremo a fine anno in quanti rimpiangeranno ancora Ranieri) prima di lanciare il guanto di sfida ai nerazzurri, i rossoneri proveranno ad infastidire la capolista sino a quando il Pato o l’Huntelaar di turno (complimenti per il gesto di mercoledì) non risolveranno gli incontri a loro favore all’ultimo momento. Così come è accaduto a Firenze, dove i Della Valle scoprono di dare fastidio "a qualcuno" (chi è causa del suo Mutu, pianga se stesso…).
Il tutto mentre a Milano, da sabato scorso a mercoledì, sono andati persi i fazzoletti bianchi agitati in segno di protesta per aver avuto, una volta tanto, un "arbitro che arbitrasse" (Tagliavento). Tal Mejuto Gonzalez non vede il rigore di Motta su Ivanovic (Chelsea) e rigore più espulsione di Samuel su Kalou; l’Inter vince in undici e Mourinho, non sapendo stavolta a chi fare il segno delle manette, tira in ballo la Calciopoli italiana.

Potenza di un’onestà interiore cresciuta in Portogallo, dove - nel 2004 - se la prese con il giocatore dello Sporting Lisbona Rui Jorge, al quale "confidò" che gli sarebbe piaciuto vederlo morto in campo, da allenatore di una squadra (il Porto) il cui presidente Pinto da Costa avrebbe avuto da insegnare al "peggior Moggi" ipotizzabile per un tifoso interista. Onestà che maturò in Inghilterra, al Chelsea, quando (nel 2005) - tacciando di altri episodi (la lista sarebbe lunga) - affrontando il Barcellona in Champions League accusò l’arbitro Frisk di aver parlato durante l’intervallo con l’allora tecnico dei blaugrana Frank Rijkaard. A causa di questo, la giacchetta nera ricevette minacce di morte da parte dei sostenitori inglesi, e fu costretto a ritirarsi dall’attività. Onesto in mezzo ad un popolo di disonesti: non sarà certo l’Italia, vista da Appiano Gentile, che lo cambierà. Così come è arrivato, se ne andrà. Con la speranza, nel frattempo, di riuscire a strappare qualche altro milione in più da Moratti alla voce ingaggio, inventandosi altri interessamenti del Real Madrid nei suoi confronti.
Non è colpa degli italiani, però, se ha scelto di allenare l’Inter…

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