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venerdì 6 maggio 2011

La vittoria in rimonta della Juve di Lippi sul Chievo di Del Neri



Nel momento in cui venne stilato il calendario del campionato di serie A per la stagione 2001-02, l'attenzione della maggior parte degli sportivi si concentrò sulla terza giornata, laddove era stato previsto che il piccolo Chievo, la matricola neopromossa per la prima volta nella sua storia nella massima divisione, avrebbe dovuto affrontare la grande Juventus allo stadio "Delle Alpi" di Torino. L'interesse suscitato dall'incontro tra realtà calcistiche così differenti aumentò notevolmente dopo la disputa delle due precedenti gare, dato che entrambe le squadre erano state le uniche - tra le diciotto partecipanti - in grado di fare bottino pieno, insediandosi solitarie in testa alla classifica con sei punti. Chi volle spargere intorno all'evento un po' di poesia (mista a fantasia) arrivò a definirlo uno "scontro diretto al vertice".

Pochi istanti prima dell'inizio della partita, giocata sabato 15 settembre 2001, i calciatori si raccolsero intorno al cerchio del centrocampo tenendosi per mano per commemorare le vittime degli attentati terroristici del martedì precedente negli Stati Uniti. Il crollo delle Torri Gemelle, lo schianto di un aereo sul Pentagono, i messaggi video di Osama Bin Laden: anche se il mondo era ancora sotto choc per quanto accaduto in quel famoso 11 settembre, in Italia venne deciso di non fermare il campionato e di proseguire con la disputa degli incontri così come programmato in precedenza.

L’avvio della gara sembrò confermare i pronostici della vigilia: la Juventus si mostrò subito intraprendente, mettendo in seria difficoltà gli ospiti. Gianluca Zambrotta, laterale destro del centrocampo di Madama, trovò gli spazi dove affondare i colpi nella linea difensiva del Chievo: prima riuscì con un assist a mettere Nedved solo davanti a Lupatelli, bravissimo ad impedirgli il goal e fortunato nella successiva respinta, dato che Del Piero - a causa dell’involontario disturbo di Tacchinardi - falliva il bersaglio a porta vuota; dopo fece pervenire allo stesso numero dieci bianconero un pallone invitante (ma un po’ troppo angolato per essere sfruttato a dovere) a pochi metri di distanza dall’estremo difensore clivense.

Messo alle strette dall’intraprendenza degli uomini di Lippi, il Chievo non si fece intimorire, trovando la forza di reagire proponendo quelle veloci trame offensive tipiche del suo gioco. Al 9' arrivò così il goal del vantaggio degli ospiti: su un calcio d'angolo battuto dai gialloblù, Buffon, uscito dalla porta per impadronirsi del pallone, perse in maniera goffa il controllo della sfera lasciandola cadere sui piedi di Marazzina che - appostato vicino a lui - potè così spingerla agevolmente in rete. In merito all'episodio, una volta terminata la gara, il numero uno juventino confessò il proprio dispiacere: “Sono cose che capitano a chi gioca molto: volevo uscire di pugno ma all’ultimo momento ho cambiato idea, e così ho combinato il pasticcio”. Arrivato a Torino durante l’estate per sostituire l'olandese Edwin Van der Sar, autore di alcune gravi disattenzioni nel corso della sua permanenza sotto la Mole, il portiere della nazionale azzurra incappò in una delle poche giornate negative di quella che poi sarebbe divenuta - nel tempo - una lunga militanza in maglia bianconera.

Colpita all'improvviso, Madama subì l'aggressività dei clivensi, che aumentarono gradualmente la pressione esercitata sui padroni di casa e realizzarono il loro secondo goal al 20'. A differenza della rete del vantaggio iniziale, frutto di un errore casuale, questa fu un vero e proprio gioiello: l'azione si sviluppò sulla fascia destra per concludersi - dopo due colpi di tacco, uno successivo all'altro - dentro l’area di rigore juventina, dove Perrotta servì ancora Marazzina abile a smarcarsi dal controllo dei difensori avversari per battere nuovamente Buffon.

Ferita nell'orgoglio, la Vecchia Signora lasciò da parte i convenevoli e si lanciò all'assalto degli ospiti: trascorsi soltanto due minuti, Tacchinardi scaricò tutta la rabbia accumulata in un potente tiro che si insaccò sotto la traversa della porta difesa da Lupatelli. Dimezzato lo svantaggio, la Juventus continuò ad attaccare alla ricerca del pareggio: a Trezeguet venne annullata una rete regolare a seguito di un'errata segnalazione di fuorigioco ad opera del guardalinee, mentre Nedved e lo stesso francese (servito da un altruista Del Piero) non riuscirono a siglare il goal del raddoppio.
A consentire alla Juventus di arrivare alla fine del primo tempo sul risultato di 2-2 pensò Igor Tudor, grazie ad un colpo di testa vincente su un ottimo assist confezionato da Del Piero direttamente da calcio di punizione. Il croato, difensore di ruolo e inserito sulla linea mediana da Lippi a far coppia con Tacchinardi, era riuscito a farsi apprezzare per la duttilità mostrata in campo, come ebbe a dichiarare il compagno di reparto: “Tudor ha sorpreso pure me: quando l'ho visto a centrocampo ero perplesso, adesso invece rischia di diventare un mio concorrente”. Orfana di Zidane (ceduto al Real Madrid) ed in attesa del rientro di Edgar Davids giunto ormai al termine del periodo di squalifica inflittogli per essere stato trovato positivo al nandrolone, la Vecchia Signora stava cercando nuove strade per sopperire alla mancanza di gioco (non di risultati) espressa nelle prime giornate di campionato. Lo ammise anche Tacchinardi: “Forse ci stavamo appiattendo su un solo tipo di gioco, e inconsciamente facevamo fare tutto a Zidane, più ancora di quanto fosse giusto. La partenza di Zizou probabilmente ha liberato nuove energie, e ha responsabilizzato di più tutti gli altri. Poi, come al solito, le novità portano entusiasmi”.

Incassati i complimenti di Lippi (“È lui il nostro simbolo. Si era già fatto male e invece è andato a rischiare la faccia nell'area avversaria”), Tudor venne spostato in difesa dopo che il tecnico ad inizio ripresa decise di togliere dal campo Cristian Zenoni per fare spazio ad O’Neill, mentre in attacco vennero inseriti Salas al posto di Trezeguet e Nicola Amoruso per Del Piero. Schiacciato il Chievo nella sua metà campo per quasi tutta la durata del secondo tempo, la Juventus riuscì a ribaltare il risultato al 38', quando un tocco di braccio di Moro causò il successivo calcio di rigore trasformato dal neoentrato cileno. L'assegnazione del penalty diede origine ad un focolaio di polemiche, spento con signorilità nel dopo gara da Luigi Del Neri, il tecnico dei clivensi: "Il rigore non c’era? Non voglio commentare l'operato degli arbitri, quest'anno con il fuorigioco noi del Chievo daremo loro molto da fare, ma sono tutti bravi. Abbiamo perso, ma sono contento per come abbiamo giocato. L' importante a Torino non era vincere, ma dimostrare che possiamo stare in serie A con le altre".

Contento per il risultato ottenuto, Marcello Lippi rese onore ai vinti: "La Juve ha sofferto? Be', facciamo prima di tutto i complimenti al Chievo, che si è presentato qui con una grande condizione atletica e tecnica. Noi alla fine del primo tempo eravamo un po' nervosi, ma siamo stati bravi a restare compatti, a procurarci molte occasioni. Alla fine, credo che la Juve abbia vinto con merito. Qualche smagliatura ancora c'è, ma siamo in crescita: e poi nessuno alla Juve crede di essere imbattibile".
Quella contro il Chievo fu la prima rimonta di una stagione che avrebbe visto la Juventus sorpassare l'Inter in vetta alla classifica nel corso dell’ultima giornata del campionato, con la conseguente conquista dello scudetto numero 26.
Avvenne il 5 maggio 2002. Una data che sarebbe rimasta per sempre impressa nella memoria dei tifosi bianconeri…

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venerdì 29 aprile 2011

La doppietta di Del Piero nella quaterna rifilata a Zeman


"Ci ho provato, per certi goal occorre anche fortuna". Sarà stato merito anche della dea bendata, ma ormai era già apparso chiaro a tutti come Alessandro Del Piero fosse qualcosa di più di una semplice promessa. Vent'anni compiuti da poco, la classe cristallina e la sua capacità di imprimere il proprio marchio sulle partite erano quelle tipiche dei campioni di razza.
Capitò di averne una riprova anche a Roma, allo stadio "Olimpico", l’11 dicembre 1994: nel posticipo serale della tredicesima giornata del campionato di serie A la Vecchia Signora fece visita alla Lazio guidata da Zdenek Zeman.
La squadra allenata da Marcello Lippi era reduce dalla trionfale rimonta operata sulla Fiorentina nel precedente incontro casalingo al "Delle Alpi": sotto di due reti era stata in grado di ribaltare il risultato ed ottenere la vittoria grazie alla doppietta realizzata da Gianluca Vialli ed alla gemma finale - manco a dirlo - di Del Piero. Piena d'entusiasmo, arrivò però nella capitale priva di diversi titolari, tra i quali lo stesso numero nove bianconero e Di Livio. Se già in passato aveva dimostrato di poter reggere il peso dell'assenza di Roberto Baggio sorretta dalle prodezze della sua nuova stella, la forzata rinuncia a Vialli (squalificato) veniva ritenuta particolarmente delicata per lo straordinario apporto di grinta che il centravanti era stato in grado di fornire sino a quel momento.

Lippi decise comunque di non rinunciare in partenza all'idea del tridente offensivo, creandone per l'occasione uno atipico: al talento di Conegliano e a Ravanelli venne infatti affiancato Marocchi, centrocampista di copertura più che d'attacco. In realtà il tecnico di Viareggio con questa decisione volle lanciare un messaggio ai propri uomini e agli avversari: a Roma la Juventus andava per vincere. Fedele al 4-3-3, Zeman preparò la sua Lazio per un gara d'assalto, quella che - in effetti - si concretizzò nei primi minuti dell'incontro. Favalli, Winter e Signori trovarono lungo la corsia sinistra gli spazi necessari per scardinare la difesa bianconera, anche perché Tacchinardi, nell’insolita veste di esterno destro di una linea mediana completata da Paulo Sousa e Conte, soffriva non poco la pressione dei padroni di casa nella zona di sua competenza.

Casiraghi impegnò severamente Peruzzi di testa su un traversone di Fuser, poi – proprio dal lato mancino – al 20’ arrivò la rete del vantaggio laziale: Signori riuscì a liberarsi dalla guardia di Kohler e mise rasoterra a centro area un pallone deviato dal numero uno bianconero verso l’accorrente Rambaudi, che siglò con un piatto destro l’1-0. Quattro minuti dopo Del Piero non riuscì a pareggiare, pur essendosi venuto a trovare solo davanti a Marchegiani grazie ad un ottimo assist di Ravanelli: un attimo di esitazione gli fu fatale, consentendo a Negro un recupero decisivo che impedì al giovane attaccante di piazzare la stoccata vincente.

Ancora Casiraghi, ben servito da Favalli, fallì il raddoppio, prima che Cravero compisse un gesto tanto plateale quanto inutile e ingenuo: già ammonito fermò con la mano sinistra il pallone a centrocampo, meritandosi una sacrosanta espulsione. Zeman dovette correre ai ripari, sacrificando Signori per coprire con l’inserimento di Bergodi il buco venutosi a creare in difesa. Nel momento in cui apprese di dover abbandonare il campo la punta mandò a quel paese il boemo in mondovisione, mentre Lippi attese qualche minuto per effettuare la contromossa: fuori Carrera, un difensore, dentro un attaccante, il giovanissimo Corrado Grabbi, nipote di Giuseppe, centrocampista della Juventus negli anni venti, con Marocchi riportato nella sua naturale posizione e Tacchinardi arretrato davanti a Peruzzi.
Ricostruito un tridente offensivo di nome e di fatto, Madama trovò il goal del pareggio al 37’: Del Piero anticipò Winter nel raccogliere un pallone lanciato da Orlando nell’area di rigore laziale e, dopo un corpo a corpo con l’olandese, riuscì a toccare la sfera con la punta del piede in scivolata davanti a Marchegiani, quando ormai sembrava averla persa.
Nella ripresa, dopo solo 8’, la Vecchia Signora si portò in vantaggio: ancora in scivolata, Marocchi, ricevuto un assist d’oro di Conte dalla fascia destra, beffò la retroguardia laziale infilando il pallone sotto la traversa.

Lippi a questo punto mescolò nuovamente le carte, togliendo lo stesso Conte per irrobustire la difesa con l’innesto di Porrini, prima che Del Piero, sempre lui, illuminasse lo stadio “Olimpico” con una perla di rara bellezza: giunto al limite dell’area di rigore biancoceleste, vicino al punto in cui Signori in precedenza aveva confezionato l’assist per la rete di Rambaudi, si bevve in un colpo solo Negro e Venturin, per poi battere Marchegiani colpendo la sfera con l’interno destro e piazzandola laddove il numero uno biancoceleste non poté intervenire.
Non contento pochi minuti dopo lanciò Grabbi in contropiede, consentendogli di percorrere una quarantina di metri in perfetta solitudine e di trafiggere l’estremo difensore della Lazio per la quarta volta.
Un calo di concentrazione dei bianconeri permise ai padroni di casa di segnare – con Casiraghi e Fuser - due reti quando ormai l’incontro non aveva più nulla da dire.

A fine stagione la Vecchia Signora riuscì, dopo otto lunghi anni di attesa, a vincere il ventitreesimo scudetto della sua storia. Ventitré, come il numero degli anni di Andrea Fortunato, il terzino sinistro bianconero che in quei giorni lottava contro la leucemia. Roberto Bettega andò a fargli visita al Policlinico di Perugia, per festeggiare insieme a lui il successo bianconero ottenuto a Roma: “L’ho rivisto dopo alcuni mesi, durante i quali ci siamo sentiti spesso, e adesso l’ho trovato bene. Mi sono complimentato con il padre, hanno dato ad Andrea un’educazione che lo ha aiutato in questa battaglia, insieme con la sua innata tenacia”.
Fortunato avrebbe smesso di lottare qualche mese dopo, il 25 aprile. A lui la Juventus dedicò il tricolore.
Durante quella visita i due discussero anche delle prodezze del ragazzino ventenne con la maglia numero dieci sulle spalle.
Che, intervistato al termine della gara allo stadio "Olimpico", dichiarò: “Goal alla Baggio? Lui rimane il più grande, ma questo è un gol alla Del Piero”.
Senza saperlo era riuscito a prevedere un pezzo del suo futuro.

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venerdì 21 gennaio 2011

Del Piero, Ibrahimovic e Trezeguet: e la chiamarono Calciopoli...

Prima di quel Sampdoria-Juventus del 22 settembre 2004 la formazione blucerchiata allenata da Walter Novellino, nonostante un difficile avvio di stagione, veniva considerata dall’opinione pubblica come una delle avversarie più probanti per verificare l’effettiva competitività della squadra bianconera agli ordini del nuovo tecnico Fabio Capello, approdato da pochi mesi a Torino come espressione di una delle ultime volontà del Dottor Umberto Agnelli per la sua Vecchia Signora. Prima della gara il tecnico juventino descrisse in questo modo i padroni di casa: "Ha due attaccanti molto pericolosi adatti per testare la nostra difesa. Dovremo affrontarla concentrati, evitando dannosi arrembaggi. E' la partita giusta per riproporre quanto di buono abbiamo messo in mostra fin qui".

Si trattava della terza giornata del campionato 2004-05, quello che si sarebbe conclusa con la vittoria dello scudetto numero ventotto per Madama. La Triade aveva lavorato in estate per consegnare all’allenatore friulano una formazione di cui si era deciso di cambiare la spina dorsale, fermo restando la conferma di Buffon: arrivarono così Cannavaro in difesa, Emerson a centrocampo e Ibrahimovic in attacco. Protagonista di una partenza a razzo, già al termine della seconda giornata la Juventus si ritrovò sola in testa alla classifica, lasciandosi alle spalle Milan, Inter, Lazio, Roma, vale a dire le principali antagoniste nella lotta per la conquista del tricolore. La Sampdoria, dal canto suo, si preparava ad ospitare i bianconeri ancora a secco di punti e con la squadra priva di alcuni giocatori importanti: Volpi, Doni, Tonetto, Diana e Carrozzieri.
Capello preferì adottare un turnover limitato al solo reparto offensivo, dove Trezeguet venne affiancato da un Del Piero apparso sino a quel momento in leggero svantaggio nelle preferenze del tecnico bianconero, rimasto immediatamente affascinato dal talento della nuova punta svedese: “Zlatan ha delle qualità straordinarie, ed è ancora giovanissimo”.
A centrocampo Blasi (scelto al posto di Tacchinardi) eresse con Emerson una diga efficace davanti alla difesa, che l’allenatore evitò di modificare rispetto agli incontri precedenti: “La retroguardia era il punto debole della squadra, fare dei cambi sarebbe dannoso”.

La storia della gara ruotò intorno a decisioni importanti su più penalties: uno concesso con il contorno di molte polemiche; un altro non assegnato benché fosse più evidente del primo; un terzo accordato su segnalazione del guardalinee, salvo poi cambiare idea.
Andiamo per ordine. Al 17’ minuto del primo tempo, durante una mischia in piena area di rigore blucerchiata Falcone cinturò Emerson e cadde a terra con lui, in mezzo ad una selva di giocatori. L’arbitro Dondarini decise subito per la massima punizione, scatenando le ire dei padroni di casa, giocatori e pubblico. Dopo quasi due minuti di discussioni Del Piero batté Antonioli, portando i bianconeri in vantaggio per uno a zero. Le telecamere confermarono la bontà della scelta del direttore di gara, mentre dalle tribune iniziarono a piovere insulti di ogni tipo da parte dei sostenitori locali. Protagonisti di una partenza aggressiva, sino a quel momento gli uomini di Capello non erano ancora riusciti a creare grossi pericoli verso la porta sampdoriana. La reazione della formazione di Novellino si concretizzò in due conclusioni di Flachi, il migliore in campo per i liguri. Nella ripresa Dondarini negò un evidente rigore alla Juventus per fallo su Camoranesi al 10’ minuto e ne assegnò invece un altro al termine della gara su segnalazione del guardalinee per un presunto fallo di Cannavaro su Pagano, salvo poi ripensarci dopo un colloquio con lo stesso assistente che, resosi conto dell’errore, gli spiegò come il difensore di origini napoletane avesse in realtà preso in pieno il pallone. Il penalty venne così trasformato in calcio d’angolo, lasciandosi alle spalle un'ulteriore coda di polemiche velenose dentro uno stadio ormai in ebollizione dalla rabbia. In mezzo a questi due episodi, nel frattempo, la Juventus aveva portato a tre le reti a suo favore, grazie ai goals segnati da Ibrahimovic (subentrato a Del Piero), bravo a girare in porta di piatto destro un suggerimento di Nedved dalla fascia, e da Trezeguet, che – rimasto in ombra per quasi tutta la partita – era riuscito ad infilare Antonioli dopo aver raccolto un pallone proveniente da una mischia formatasi dentro l’area di rigore blucerchiata a seguito di un calcio d’angolo.

Le scelte iniziali diedero ragione a Capello: “Bene, compatti, umili, determinati in tutti i momenti. Bravi, vincere qui è una bellissima impresa. Mi è piaciuta la concretezza in difesa, ho apprezzato il possesso palla. I tre attaccanti tutti in gol: il turnover porta fortuna, continueremo a farlo mantenendo il giusto equilibrio”.
Otto goals fatti e neanche uno subito dall’inizio del campionato: la sua Juventus iniziava a crescere, ed era ormai pronta per il successivo esame. Che, terminata la giornata infrasettimanale, sarebbe capitato di lì a poco: domenica, al “Delle Alpi”, avrebbe fatto visita alla Vecchia Signora il Palermo del bomber Luca Toni.
Con qualche imperfezione da correggere: “Non mi è piaciuta l'occasione che abbiamo concesso a Flachi al 94'. Un errore di piazzamento difensivo che va eliminato”.
Certo, quelli sì che erano problemi…

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sabato 27 novembre 2010

Juventus-Fiorentina 3-2 e la rimonta da urlo

Thomas Bertacchini

Nel “mare nostrum” dei ricordi della storia juventina la partita che Madama giocò e vinse al "Delle Alpi" di Torino contro la Fiorentina il 4 dicembre del 1994 si trova esattamente su quella linea di confine che separa il calcio dalla poesia. La cronaca dell'incontro, in casi come questi, è giusto che divida lo spazio a sua disposizione con i sentimenti che quella gara è riuscita a trasmettere ai tifosi bianconeri.

La Signorina che non vinceva uno scudetto dal lontano 1986 provava ogni anno un abito nuovo nel tentativo di ritornare ad essere la più bella di tutte. In cambio, però, otteneva soltanto qualche sorriso malizioso, piccole soddisfazioni diverse da quei complimenti che le toccavano il cuore e riempivano la sua bacheca di trofei prestigiosi. La situazione, all’alba della stagione 1994-95, era questa. Ed era troppo poco, comunque, considerando gli ingenti investimenti economici che venivano fatti per renderla sempre più attraente.

A causa delle contemporanee assenze di Roberto Baggio, Kohler, Fusi, Di Livio e Antonio Conte, in quell'ormai famoso pomeriggio di inizio dicembre Lippi fu costretto a rivoluzionare la formazione base, nella speranza di riuscire a presentare sul rettangolo di gioco una squadra comunque competitiva da contrapporre alla Fiorentina di Claudio Ranieri. Che, a sua volta, con la sola esclusione del centrocampista Di Mauro, poteva contare sulla disponibilità di tutti gli altri titolari, anche se qualcuno di loro rientrava da precedenti infortuni.
Nonostante l'aggressività mostrata in campo dai padroni di casa sin dall'inizio dell'incontro, furono i viola a realizzare due goals con Baiano e Carbone, capaci di smascherare i punti deboli di una difesa bianconera troppo preoccupata di controllare Batistuta al punto tale da dimenticarsi dei compagni che gli gravitavano intorno. A poco più di un quarto d'ora dalla fine della gara la Juventus procedeva spedita verso una sconfitta che avrebbe interrotto una serie positiva di quattro vittorie consecutive ottenute in campionato.

Dopo aver tolto Torricelli (costretto a giocare fuori ruolo) ed inserito al suo posto Tacchinardi, prelevato dal campo un Marocchi ormai esausto per aver girovagato in tutti settori della linea mediana, aumentando invece il presidio della fascia sinistra con l’ingresso in campo del croato Jarni, la Juventus ritrovò polmoni e corsa per l'assalto finale. Illuminata dalla regia di Paulo Sousa, spinta dal sostegno incessante proprio pubblico e col suo trio offensivo Vialli-Ravanelli-Del Piero pronto a perforare la difesa dei gigliati, la Signorina tornò d'incanto ad essere la Vecchia Signora del calcio italiano. La Fiorentina non fu soltanto raggiunta e superata con tre reti, ma venne letteralmente “sbranata” dagli uomini di Marcello Lippi.

Gianluca Vialli segnò i primi due goals: in occasione della seconda marcatura, quella del momentaneo pareggio, fece più fatica a liberarsi dall'abbraccio dei compagni (che lo avevano accerchiato per festeggiarlo) che a realizzarla. Cercava di divincolarsi da loro, voleva tornare il più velocemente possibile in mezzo al campo per inseguire un successo che sembrava ormai a portata di mano.
C'è chi un atteggiamento simile lo chiama "grinta", chi "cuore", in realtà il suo nome è un altro: "spirito-Juve".
In quel preciso momento tornò a farsi vivo quel sacro furore agonistico che pervade chi indossa la maglia bianconera, a cui viene chiesto sempre e solo un'unica cosa: vincere. Ai rimproveri che Marcello Lippi fece al giovane Alessandro Del Piero nel corso della gara (uno di questi fu: "Tieni troppo la palla, vuoi andare in porta da solo?") l'apprendista fuoriclasse rispose con una magia in grado di trasmettere ai sostenitori juventini emozioni difficili da spiegare: Alessandro Orlando effettuò un lancio diretto verso l’area di rigore avversaria dopo aver oltrepassato la linea di centrocampo, sulla corsia di sinistra; lui colpì il pallone al volo con l'esterno destro senza fargli toccare il terreno di gioco, disegnando una parabola che scavalcò Toldo per infilarsi in rete.

Lo stadio esplose in una gioia incontenibile: il futuro “Pinturicchio” (così lo avrebbe soprannominato, poi, l’Avvocato Gianni Agnelli) aveva appena messo la firma su uno dei tanti capolavori che caratterizzeranno la sua carriera. La Vecchia Signora si trovò nelle condizioni di poter riaprire nuovamente la bacheca dei trofei più prestigiosi: era ripresa la “caccia”, il bello sarebbe ancora dovuto arrivare. In quel pomeriggio iniziò una dittatura calcistica juventina che - almeno in Italia - sarebbe durata sino al 2006, allorquando venne deciso di cambiare le regole di questo sport e assegnare gli scudetti fuori dai campi di gioco. Quello era l'unico modo per fermare Madama.

Rileggendo ora alcune tra le dichiarazioni rilasciate dai protagonisti nel dopo gara, fanno sorridere le parole pronunciate da Del Piero di fronte ai cronisti in merito alla sua rete: "Forse è stato il mio goal più bello, ma non ne ho segnati tanti da dover scegliere".
Caro Alessandro, ne hai fatta di strada in questi anni...


Claudio Amigoni

Di quel 4 dicembre 1994 ricordo che faceva un gran freddo.
Ero in compagnia di tre amici e avevamo tardato nel trovare parcheggio.
Camminammo a passo spedito per arrivare prima del fischio d’inizio ai nostri posti: settore EST, secondo anello.
Entrammo dall'ingresso adiacente la famigerata "gabbia", che al Delle Alpi era il settore destinato alla tifoseria ospite.
Juve-Fiorentina da almeno 15 anni non era più una gara come le altre.
Dalla parte opposta della grata che delimitava la gabbia un tifoso fiorentino bofonchiò qualcosa, e un amico gli rispose con un semplice sorriso ironico.
Pronta la replica del buzzurro, fiero di vestire l’amato colore jellato: "[i]Che c'hai da fà quel sorrisino? Terrone!".

Gli ridemmo in faccia, e augurammo al nostro provocatore un deprimente ritorno a casa.
Da sconfitto.
Del primo tempo ricordo l’immeritato (doppio) svantaggio sul quale la Juve andò al riposo e i fumogeni e i petardi che i tifosi viola lanciarono (alcuni, purtroppo, finiti a bersaglio) in direzione dei settori confinanti.
Fu durante l'intervallo che, per la prima (e non ultima) volta in quella giornata, ebbi la sensazione di essere testimone di un evento che avrebbe segnato il futuro di quella Juventus.
Perché per me quella partita è stata la chiave di 12 anni di successi: tutto, a mio parere, cominciò quel giorno.
Ricordo l'atmosfera di quel quarto d'ora di pausa: il pubblico era soddisfatto del modo in cui la squadra aveva interpretato il match; nessuno commentò il parziale con sconforto; nessuno pensò minimamente che la gara fosse compromessa.
Nella ripresa ricominciò l'arrembaggio, che si concretizzò ad un quarto d’ora dal termine con l’uno-due firmato da Vialli, episodio che coincise con il secondo segnale forte trasmesso da quella partita.
Una squadra normale che raddrizza una gara del genere si accontenta e porta al novantesimo un onorevole pari, ma una grande squadra vuole vincere.
Si chiama mentalità vincente e, mentre alcuni compagni festeggiavano l’artefice della rimonta, un ragazzo di 19 anni si preoccupava di recuperare la palla dalla rete e riportarla velocemente verso il centro del campo.
Quel giovanotto era Alessio Tacchinardi, classe 1975, arrivato a Torino solo l’estate precedente: pochi mesi gli erano bastati per capire cosa fosse la Juventus.
Infine, quando partì il lungo lancio di Alessandro Orlando, osservai colui che allora era solo il sostituto di Roberto Baggio seguire la parabola della palla e colpirla con un movimento tanto innaturale quanto obbligato, spedendola dove Toldo non sarebbe mai potuto arrivare.
In cinque anni di frequentazioni, non ricordavo di aver mai sentito il “freddo” Delle Alpi ruggire in quel modo, mentre i viola riponevano mestamente i loro vessilli inveendo contro i gobbi “ladri e servi degli Agnelli”.
Per noi fu tutto fantastico.
Immagino lo sia stato un po’ meno per il buzzurro incontrato nel pre-partita…

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