Ci sono calciatori che nel vedere il colore rosso delle maglie del
Belgio si esaltano, tirando fuori dal cilindro colpi assolutamente
straordinari. Diego Armando Maradona, ad esempio, aveva punito i Diavoli
Rossi nell'edizione dei mondiali tenutasi in Messico nel 1986
realizzando una doppietta decisiva per la conquista della finalissima da
parte della sua Argentina. Ma per Maradona, con tutto il dovuto
rispetto verso gli altri giocatori, realizzare un goal straordinario non
era certo un evento raro.
Quanto era accaduto otto anni più tardi in America, invece, può rendere
meglio l'idea del concetto appena espresso. Saeed Al Owairan, il numero
dieci della rappresentativa dell'Arabia Saudita, il 29 giugno 1994 si
era impadronito del pallone quando ancora si trovava nella metà campo
dei sauditi, aveva percorso una settantina di metri evitando come
fossero dei birilli tutti gli avversari che gli si erano parati di
fronte sino a depositare la sfera nella porta difesa dal belga
Preud’homme. Non un portiere qualunque, considerando il suo palmarès e
il fatto che al termine di quella manifestazione gli era stato assegnato
il premio Jašin destinato ai migliori numeri uno del torneo.
Quella rete fu fondamentale per la storica qualificazione agli ottavi
di finale di una nazionale che stava vivendo la sua prima esperienza
mondiale. Il cammino si sarebbe poi fermato alla tappa successiva,
nonostante l'entusiasmo trasmesso da Jorge Solari, c.t. argentino dei
sauditi, quando ancora si trovava nella pancia del “Robert F. Kennedy
Memorial Stadium” e descriveva l'emozione appena vissuta: “La nostra
è stata una vittoria del calcio latino, poiché ci ispiriamo alle
tradizioni del grande Brasile. Negli ottavi contro la Svezia non avremo
problemi: ci prepariamo solo per vincere”.
Terminato il mondiale erano iniziati i festeggiamenti riservati ad Al
Owairan, che in patria venne omaggiato al pari di una star
internazionale: auto lussuose, una villa e una montagna di soldi che il
munifico Re Fahd, monarca del paese, ed altri sceicchi che ne avevano
seguito l'esempio destinarono a quello che era stato definito “il
Maradona del deserto”. L'umiltà mostrata dal giocatore quando ancora si
trovava sul suolo americano (“Paragonate il mio goal a una prodezza
di Maradona? Troppo onore. Devo ringraziare i miei compagni, abili
nell'aprirmi il corridoio giusto”) aveva lasciato spazio agli
eccessi di una vita che, ormai, era cambiata rispetto a quella vissuta
prima di quell'episodio incredibile.
Re Fahd e il Principe Faisal Bin Fahd, quest'ultimo presidente federale
nonché figlio del sultano, erano contrari ad un suo trasferimento in un
club al di fuori del paese, così Al Owairan rimase imprigionato nel suo
eremo dorato. Prima in senso metaforico, poi nel vero e proprio senso
della parola, dato che - in barba alla legge islamica e agli
avvertimenti ricevuti in precedenza - nel marzo del 1995 venne beccato
all'interno di un locale mentre si rendeva protagonista di alcuni
comportamenti non proprio consoni rispetto a quanto stabilito dai
dettami della Sharia.
La condanna di tre anni di prigionia, peraltro in condizioni
privilegiate rispetto a quelle degli altri detenuti, non fu scontata in
pieno: l'Arabia Saudita aveva conquistato nuovamente la qualificazione
ad un mondiale di calcio, quello francese del 1998, e per Al Owairan si
erano aperte le porte del carcere. Fu il Principe Faisal ad intercedere
con il padre per rivederlo correre sui campi di gioco.
La nazionale saudita , intanto, era passata tra le mani di Carlos
Alberto Perreira, il tecnico che si era laureato campione con il Brasile
nella precedente edizione americana, un vero e proprio giramondo del
pallone. Il miracolo, però, non si era ripetuto, né a livello personale
né tantomeno di squadra: un pareggio e due sconfitte avevano costretto i
sauditi all'immediato rientro a casa.
Negli occhi dei tifosi, nonostante tutto, era rimasta ancora impressa
quella rete straordinaria messa a segno dal “Maradona del deserto”
quattro anni prima. Ai taccuini di un inviato del “The New York Times”, a
distanza di tempo, lo stesso Saeed Al Owairan aveva poi confessato un
piccolo segreto: “Quel goal per me si rivelò essere un’arma a doppio
taglio e, se da un lato fu meraviglioso, dall’altro fu tremendo perché
finii costantemente sotto la luce dei riflettori”.
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