Al tramonto dell'incredibile sconfitta casalinga del Bayern Monaco
contro il Real Madrid nella recente semifinale di Champions League, in
molti hanno celebrato la fine dell'ormai celebre tiqui-taca. Quello di
origine catalana, s'intende, perché l'idea di sfruttare una fitta rete
di passaggi per mantenere il controllo pallone tra i propri piedi,
piuttosto che andarlo a recuperare in mezzo a quelli degli avversari, è
vecchia quanto il football.
E' proprio in quella terra che questo stile di gioco negli ultimi anni è
stato utilizzato a livelli intensissimi, quasi esasperanti, con
risultati indubbiamente vincenti. Trasportato in Germania da Josep
Guardiola ha subito invece un tracollo in termini di popolarità proprio
in fondo al torneo continentale più importante, dopo che la conquista
del campionato tedesco per il Bayern Monaco si era rivelata una pura
formalità.
In quell'occasione la “Gazzetta dello Sport” aveva nuovamente portato
alle luci della ribalta Laureano Ruiz, ovvero la persona che anni fa
trapiantò questa filosofia calcistica a Barcellona. La storia racconta
che alla guida di una squadra di ragazzini sovvenzionata da un marchio
di birra nel lontano 1972 aveva umiliato i pari età blaugrana. Apriti
cielo: il presidente Agustì Montal andò su tutte le furie, per poi
tesserare quell'allenatore che – dopo qualche colloquio – era apparso al
suo nuovo ambiente come un visionario.
Contro ogni previsione i successi arrivarono in serie, uno dietro
l'altro, per un club che a livello giovanile stentava non poco. Strano a
dirsi, guardando la realtà attuale, ma è proprio grazie all'importanza
data a quel ramo societario da Ruiz se adesso il Barcellona può vantarsi
della bontà di quel settore di fronte al mondo intero.
Nato nel 1937, il credo di Laureano Ruiz era basto sul possesso di
palla, su un sistema tattico comune a tutte le squadre (il 3-4-3) e su
un regime di allenamento che mescolava l'aspetto fisico al controllo
tecnico del pallone. Una volta disse: “Mi ricordo di un allenatore
che proibì l'utilizzo della palla in allenamento, perché così il giorno
dopo i suoi giocatori avrebbero avuto più voglia ad usarla...
un'aberrazione!”. Così come era inconcepibile, per lui, che l'attitudine al football dovesse dipendere dall'altezza dei calciatori: “Dicevano
che il calcio era solo per giocatori alti e forti. Grande errore. Nel
corso degli anni è stato dimostrato che questo non è sempre vero, ma
allora non c'era modo di farlo capire alla gente”.
Ruiz aveva trapiantato il seme che negli anni è poi germogliato grazie
al lavoro, tra gli altri, dei vari Michels, Cruijff, Guardiola e del
compianto Vilanova. Il 25 novembre 2012, fuori casa contro il Levante,
il Barcellona aveva giocato con tutta la formazione prodotta dalla
scuola del club, la celebre “Masia”. Era accaduto nel momento stesso in
cui Dani Alves si era infortunato, dopo 14 minuti di gioco, per venire
sostituito da Martin Montoya. A fine gara Xavi aveva ricordato che 'Van
Gaal (ex allenatore del Barca, ndr) disse una volta che il suo sogno
era vedere in campo insieme 11 giocatori usciti dall'accademia, e oggi
questo è diventato realtà'.
In realtà quello era stato anche il sogno di Ruiz: “Per me è stata
una soddisfazione massima. Un'enorme soddisfazione. Questo era il mio
desiderio, il mio sogno per il futuro dal primo giorno che ero arrivato
al Barça. Vedere sul prato quel giorno contro il Levante undici
giocatori fatti in casa mi ha ricordato di tutte quelle persone che 40
anni prima mi aveva detto che ero pazzo”. Lo aveva confessato terminando la frase con un sorriso.
Mentre seguiva alcuni provini di giovani calciatori in qualità di
allenatore della scuola catalana Escolapis Sarrià, qualche anno fa, la
sua attenzione era stata catturata da un ragazzino che tirava da solo
dei calci al pallone contro un muro. Si avvicinò a lui, chiedendo che
cosa stesse facendo. Con lo sguardo triste, il ragazzo aveva risposto di
stare attendendo il padre, che lo avrebbe riportato a casa. Ruiz andò
immediatamente dagli altri tecnici chiedendo il motivo della bocciatura
di quel calciatore che a lui – invece – era piaciuto. La risposta lo
fece arrabbiare non poco: per gli altri era bravino, sì, ma non avrebbe
avuto alcun futuro come professionista.
Alla fine vinse il parere di Ruiz. Quel ragazzino si chiamava Albert
Ferrer, protagonista di una carriera straordinaria al servizio del
Barcellona di Cruyff, del Chelsea e della nazionale spagnola. Mentre
citava il suo nome, concludendo il racconto, sul volto di Ruiz era
comparso un altro sorriso.
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