sabato 24 maggio 2014

Thomas N'Kono e il campo stregato


Quel portiere ha stregato gli avversari”. A volte capita di ascoltare o leggere una simile espressione, comunemente usata nel mondo calcistico. Si tratta indubbiamente di un semplice modo di dire che, però, in una specifica occasione è stato comunque molto vicino a rispecchiare la realtà dei fatti.

Accadde il 7 febbraio 2002 a Bamako, allo “Stade du 26 Mars”, prima del fischio d'inizio della semifinale della Coppa d'Africa. Le due contendenti erano il Mali, padrone di casa nonché paese ospitante della manifestazione, e il Camerun. In ballo c'era l'opportunità disputare la finalissima del torneo, già raggiunta dal Senegal.

Thomas N'Kono, leggendario portiere della nazionale camerunense del vecchio secolo e membro dello staff, passeggiando dentro il prato verde dello stadio aveva lasciato volutamente cadere un oggetto sul campo. Un amuleto portatore di malocchio. Apriti cielo: mentre gli spettatori stavano riempiendo l'impianto, un gruppo di poliziotti si gettò immediatamente sul malcapitato, mettendogli le manette e allontanandolo dal terreno di gioco. Si era trattato di un arresto divenuto immediatamente mediatico, col l'ex campione che urlava la propria rabbia davanti alle telecamere.

Rilasciato dopo pochi minuti, anche successivamente alla protesta del tecnico Winfried Schäfer (che aveva minacciato il ritiro della propria squadra), poté assistere alla vittoria dei suoi connazionali per 3-0. Seguirono le scuse ufficiali di Alpha Oumar Konaré, il presidente della Repubblica del Mali che, tuttavia, non placarono l'ira di N'Kono: “Sono molto arrabbiato, questi episodi danneggiano gravemente l’immagine dell’Africa. Riuscite a immaginare Michel Platini, in campo con la nazionale francese prima di una partita in Spagna, che riceve lo stesso trattamento? No, perché è impossibile”.

Polemiche a parte, il Camerun era riuscito ad aggiudicarsi la manifestazioni sconfiggendo il Senegal. Vinse solamente dopo aver superato con successo la lotteria dei calci di rigore. Una curiosità: la gara era stata disputata in quello stesso stadio dove si era verificato – qualche giorno prima – l'episodio appena raccontato. Sì, è vero, la stregoneria non c'entra nulla. Però, intanto... 

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martedì 20 maggio 2014

Conte e la Juventus, il matrimonio continua


"La storia è fatta da chi scrive il proprio nome, gli altri possono leggerlo". Sfogliando le pagine della biografia di Antonio Conte (“Testa, cuore e gambe”) all'improvviso compare questa frase, divenuta ormai un marchio di fabbrica del tecnico leccese. Una curiosità: è stampata, nero su bianco, sulla pagina centouno del libro, quasi lo stesso numero dei punti accumulati in serie A da Madama in questa memorabile stagione.

Dalla serata di lunedì una buona fetta del popolo bianconero può festeggiare la notizia della permanenza dell'allenatore sotto la Mole anche per il prossimo anno. Mettendo da parte i sentimenti e i sentimentalismi, più passano gli anni, più si ripetono le stesse scene durante il mese di maggio e meno si può parlare di scelte dettate dal cuore. Tempo addietro teatrini come quelli messi in scena a Torino appartenevano esclusivamente ai calciatori, tanto abili nel monetizzare i risultati conseguiti sul campo da mettere in discussione gli emolumenti economici stabiliti con il club di appartenenza e fissati su un foglio di carta. Quello che una volta, per intenderci, veniva chiamato contratto di lavoro.

La pietra miliare della Juventus vincitrice di tre scudetti consecutivi è stata la scelta, operata dal club, del tecnico che avrebbe dovuto guidarla. I meriti di Conte nei successi bianconeri sono notevoli, tangibili, innegabili. E' inutile stabilire una percentuale di incidenza, basta ricordare che ci sono e che non sono pochi. Non va dimenticato, però, che uno dei pilastri fondamentali sui quali costruire una squadra vincente è rappresentato dal valore del rapporto tra una società ed il suo allenatore. Se entrambe le parti remano nella stessa direzione, allora anche le altre componenti finiscono inevitabilmente per seguire la stessa rotta.

In caso contrario, e alla Juventus lo sanno bene (visto quanto è accaduto con Marcello Lippi nella stagione 1998/99), anche le macchine all'apparenza perfette iniziano a guastarsi. Poi, come è naturale che sia, esistono anche le piacevoli eccezioni. Come quella, ad esempio, di Dino Zoff, accantonato da una nuova dirigenza con largo anticipo ma in grado di vincere comunque una Coppa Italia ed una Coppa Uefa nel 1990. All'epoca dei fatti i giocatori juventini si erano stretti intorno all'ex portiere della nazionale, formando un gruppo granitico in grado di ottenere risultati incredibili. Soprattutto in considerazione del reale tasso tecnico di quella rosa.

La vera notizia, quella che dovrebbe rassicurare i tifosi bianconeri e preoccupare - di conseguenza - quelli avversari, è quella che ancora deve venire. Soltanto quando si capirà chiaramente quanto Conte e la Vecchia Signora abbiano voglia di continuare a vincere insieme, il futuro in casa Juventus potrà apparire nuovamente roseo.

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mercoledì 14 maggio 2014

I dubbi di Conte sul suo futuro alla Juventus

Spulciando tra le notizie e le indiscrezioni all'interno della cronaca quotidiana non si riesce ancora a capire il nome dell'allenatore che siederà sulla panchina della Juventus nella prossima stagione. Nel frattempo quest'ultimo campionato vinto dalla Vecchia Signora è già pronto per entrare nella storia del calcio nostrano. La quota dei cento punti (e oltre, Cagliari permettendo) in classifica è ormai a portata di mano, dato che Madama ha superato quasi tutti gli ostacoli con una velocità tale da riuscire a battere ed abbattere record su record.

Per i sostenitori bianconeri le soddisfazioni non sono certo mancate, sceglierne una sola tra le tante è realmente difficile. Forse risulterebbe più semplice citare l'ultima in versione cronologico, vale a dire la rete segnata da Osvaldo contro la Roma nei minuti di recupero della gara recentemente disputata allo stadio "Olimpico".

A mischiare le carte ed agitare i sentimenti in casa juventina, però, ha pensato la querelle nata col tecnico leccese. Il contratto stipulato tra Conte e la Juventus dovrebbe legare le parti ancora per un anno, ma è ampiamente risaputo che nell'ambiente pallonaro l'unica cosa che conta è la volontà reciproca, o meno, di proseguire un rapporto di lavoro.

Mettendo temporaneamente da parte le influenze del cuore, ciò che in concreto prevale in casi simili è la ragione. I dubbi e le esternazioni manifestati da Conte stonano con il momento estremamente felice vissuto dal pianeta bianconero, una gioia conquistata dopo una lunghissima serie di successi conseguiti sui campi di tutta Italia nel corso di questi ultimi tre anni.

I meriti dell'allenatore leccese sono indubbi, ma anche quelli della società non vanno trascurati. Era proprio necessario, per Conte, parlare del proprio futuro davanti al mondo intero senza limitarsi a farlo nel più stretto riserbo con i soli vertici societari? I "rumori del nemico", che spesso sente provenire dall'esterno, questa volta provengono dal ventre del suo club? Oppure l'allenatore ha semplicemente il sentore di non poter ripetere una simile stagione, avendo fatto il massimo in Italia e immaginando di non riuscire a percorrere molta strada in Europa il prossimo anno?

Qualunque sia il motivo che ha creato questa situazione di stallo e nella speranza che - per tutti - la soluzione positiva arrivi al più presto, l'augurio da inoltrare alla Vecchia Signora è quello di continuare il percorso di crescita esponenziale iniziato da tre anni a questa parte. Senza dimenticare che è anche dalla gestione di situazioni come questa che il mondo esterno giudica la grandezza di un club. 

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domenica 11 maggio 2014

Laureano Ruiz, il maestro del tiqui-taca

Al tramonto dell'incredibile sconfitta casalinga del Bayern Monaco contro il Real Madrid nella recente semifinale di Champions League, in molti hanno celebrato la fine dell'ormai celebre tiqui-taca. Quello di origine catalana, s'intende, perché l'idea di sfruttare una fitta rete di passaggi per mantenere il controllo pallone tra i propri piedi, piuttosto che andarlo a recuperare in mezzo a quelli degli avversari, è vecchia quanto il football.

E' proprio in quella terra che questo stile di gioco negli ultimi anni è stato utilizzato a livelli intensissimi, quasi esasperanti, con risultati indubbiamente vincenti. Trasportato in Germania da Josep Guardiola ha subito invece un tracollo in termini di popolarità proprio in fondo al torneo continentale più importante, dopo che la conquista del campionato tedesco per il Bayern Monaco si era rivelata una pura formalità.

In quell'occasione la “Gazzetta dello Sport” aveva nuovamente portato alle luci della ribalta Laureano Ruiz, ovvero la persona che anni fa trapiantò questa filosofia calcistica a Barcellona. La storia racconta che alla guida di una squadra di ragazzini sovvenzionata da un marchio di birra nel lontano 1972 aveva umiliato i pari età blaugrana. Apriti cielo: il presidente Agustì Montal andò su tutte le furie, per poi tesserare quell'allenatore che – dopo qualche colloquio – era apparso al suo nuovo ambiente come un visionario.

Contro ogni previsione i successi arrivarono in serie, uno dietro l'altro, per un club che a livello giovanile stentava non poco. Strano a dirsi, guardando la realtà attuale, ma è proprio grazie all'importanza data a quel ramo societario da Ruiz se adesso il Barcellona può vantarsi della bontà di quel settore di fronte al mondo intero.

Nato nel 1937, il credo di Laureano Ruiz era basto sul possesso di palla, su un sistema tattico comune a tutte le squadre (il 3-4-3) e su un regime di allenamento che mescolava l'aspetto fisico al controllo tecnico del pallone. Una volta disse: “Mi ricordo di un allenatore che proibì l'utilizzo della palla in allenamento, perché così il giorno dopo i suoi giocatori avrebbero avuto più voglia ad usarla... un'aberrazione!”. Così come era inconcepibile, per lui, che l'attitudine al football dovesse dipendere dall'altezza dei calciatori: “Dicevano che il calcio era solo per giocatori alti e forti. Grande errore. Nel corso degli anni è stato dimostrato che questo non è sempre vero, ma allora non c'era modo di farlo capire alla gente”.

Ruiz aveva trapiantato il seme che negli anni è poi germogliato grazie al lavoro, tra gli altri, dei vari Michels, Cruijff, Guardiola e del compianto Vilanova. Il 25 novembre 2012, fuori casa contro il Levante, il Barcellona aveva giocato con tutta la formazione prodotta dalla scuola del club, la celebre “Masia”. Era accaduto nel momento stesso in cui Dani Alves si era infortunato, dopo 14 minuti di gioco, per venire sostituito da Martin Montoya. A fine gara Xavi aveva ricordato che 'Van Gaal (ex allenatore del Barca, ndr) disse una volta che il suo sogno era vedere in campo insieme 11 giocatori usciti dall'accademia, e oggi questo è diventato realtà'.

In realtà quello era stato anche il sogno di Ruiz: “Per me è stata una soddisfazione massima. Un'enorme soddisfazione. Questo era il mio desiderio, il mio sogno per il futuro dal primo giorno che ero arrivato al Barça. Vedere sul prato quel giorno contro il Levante undici giocatori fatti in casa mi ha ricordato di tutte quelle persone che 40 anni prima mi aveva detto che ero pazzo”. Lo aveva confessato terminando la frase con un sorriso.

Mentre seguiva alcuni provini di giovani calciatori in qualità di allenatore della scuola catalana Escolapis Sarrià, qualche anno fa, la sua attenzione era stata catturata da un ragazzino che tirava da solo dei calci al pallone contro un muro. Si avvicinò a lui, chiedendo che cosa stesse facendo. Con lo sguardo triste, il ragazzo aveva risposto di stare attendendo il padre, che lo avrebbe riportato a casa. Ruiz andò immediatamente dagli altri tecnici chiedendo il motivo della bocciatura di quel calciatore che a lui – invece – era piaciuto. La risposta lo fece arrabbiare non poco: per gli altri era bravino, sì, ma non avrebbe avuto alcun futuro come professionista.

Alla fine vinse il parere di Ruiz. Quel ragazzino si chiamava Albert Ferrer, protagonista di una carriera straordinaria al servizio del Barcellona di Cruyff, del Chelsea e della nazionale spagnola. Mentre citava il suo nome, concludendo il racconto, sul volto di Ruiz era comparso un altro sorriso.

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C'era una volta Camin - Lo stile e il genio di Vladimiro Caminiti

Un consiglio per la lettura


Vladimiro Caminiti se ne andò il 5 settembre 1993, consumato da un male incurabile. Aveva 61 anni. Fu giornalista, scrittore, poeta. 
Siculo di Palermo, migrato a Torino, innamorato pazzo del suo mestiere e del mestiere di don Giovanni, una vita non meno romanzesca della carriera. Uno, nessuno e centomila: Luigi Pirandello lo avrebbe riassunto così.
Camin è stato un caso letterario per come scriveva; la lingua italiana era la sua religione, ne difendeva il culto dalle invasioni barbariche con sermoni pittoreschi ma non grotteschi.

“Causio che si muove in verticale avanti e indietro, Cuccureddu che sfreccia invano cercato da Bittolo (che fa l’ha trovato?), Furino che caracolla come il Settimo lancieri, e Capello sempre impegnato da quel braccio zavorra, con quella testa alta, per vederci meglio, spunta dove meno te l’aspetti, t’infila il terzo gol, avvalorando il podismo nerboruto e ragionato di Furino; ed insomma questi quattro sono i padroni del vapore”.
Questo è un pezzo dell’articolo scritto da Vladimiro Caminiti e pubblicato su Tuttosport il giorno seguente di una vittoria della Juve sul Genoa, 3-0, con l’ultimo gol di Capello, colui che correva con il “braccio zavorra”. Si giocava il campionato 73-74, vinto dalla Lazio di Wilson e Chinaglia. Da notare l’espressione “braccio zavorra”, un’istantanea mostruosa che ti visualizza Capello che corre con il sedere ritto e il braccio destro che esce completamente fuori dal corpo: era la postura abituale del grande centrocampista friulano.

Roberto Beccantini, bolognese, ha scritto per «Tuttosport», «La Gazzetta dello Sport» e, dal 1992 al 2010, per «La Stampa». Ha seguito dieci Olimpiadi, nove Mondiali e otto Europei di calcio. Oggi collabora per «La Gazzetta dello Sport», «il Fatto quotidiano», il «Guerin Sportivo» ed «Eurosport». È stato giurato del Pallone d’oro di France Football. Ha pubblicato Juve ti amo lo stesso (Mondadori, 2007) e Quei derby che una Signora non dimentica (Priuli & Verlucca, 2007).
Riccardo Gambellisenese, autore di Coriandoli Bianconeri, Ali per vivere e Il lisiantus bianco editi da Pascal Editrice. Inoltre, ha partecipato, con i pezzi dedicati a Franco Causio, Andrea Fortunato, Fabrizio Ravanelli, Paolo Rossi e Marco Tardelli, al libro collettivo, curato dall’anaj, I nostri campioni, (Bradipolibri, 2010).

Dal sito della Bradipolibri

domenica 4 maggio 2014

Juventus campione d'Italia per la terza volta consecutiva



Sembra ieri, eppure è passato esattamente un anno dal momento in cui Antonio Conte festeggiava il secondo scudetto consecutivo alla guida della Juventus esprimendo la propria gioia attraverso queste parole: “Io sto benissimo qui, sono nel posto che ho sempre sperato di stare sin dall'avvio della mia carriera da tecnico. Era il mio sogno tornare qui e vincere, sono nel posto giusto e lo penso. E' chiaro che dopo due stagioni straordinarie, dove abbiamo bruciato le tappe che prevedevano un progetto triennale per tornare a vincere, è chiaro che l'asticella si alza. Siamo consci delle difficoltà economiche italiane, è giusto parlare con la società in modo sereno di quanto fare”. La particolarità di quel messaggio, diretto alla società bianconera ed ai suoi tifosi, è racchiusa nella sua attualità a distanza di trecentosessantacinque giorni.

L'asticella di cui parlava Conte si è alzata, e si alzerà ancora. Una volta riaperta la bacheca, Madama ha riscoperto il gusto di riempirla di trofei. Tre scudetti consecutivi non sono uno scherzo e certificano in maniera netta, inequivocabile, il ritorno a tutti gli effetti della Vecchia Signora nel ruolo di club ammazza campionati. Dagli ottantaquattro punti accumulati nella prima stagione Contiana, nella seconda il gruppo juventino è riuscito ad arrivare a quota ottantasette.

Adesso, con ancora tre gare da disputare, la prospettiva è quella di raggiungere la stratosferica cifra di cento punti. Partendo dagli attuali novantatré, che comunque non sono pochi. Il tricolore juventino, e tutti i record che questa stagione si porterà dietro, è frutto anche della fortissima concorrenza della Roma, autentica rivelazione della serie A.

Per Madama non ci sarà un altro 5 maggio decisivo per le sorti dello scudetto, visto che l'improvvisa (e sonora) sconfitta patita dai giallorossi a Catania l'ha buttata giù dal divano, dove stava tranquillamente aspettando di poter affrontare l'Atalanta, per consentirle di correre a festeggiare con un giorno d'anticipo la matematica conquista del tricolore. Chiusa anche questa stagione bisognerà capire sino a quale punto andrà alzata l'asticella e quali saranno, realisticamente, i prossimi obiettivi che la Vecchia Signora dovrà cercare di raggiungere.

Un episodio, tra i tanti, può raccontare meglio di altri il percorso compiuto dalla Juventus in questi ultimi tre anni. Risale al 25 settembre 2011, all'alba del primo scudetto juventino della nuova era Contiana. Il tecnico bianconero aveva risposto a muso duro a qualche giornalista dopo che la sua squadra aveva conseguito un secondo pareggio consecutivo in campionato: “Se pensate che la Juve, dopo due settimi posti, torni a lottare subito per lo scudetto... ripeto: abbiamo tanta strada da percorrere per tornare a essere competitivi. Non è che in estate abbiamo preso Walcott, Nani o Tevez, gente che in Italia nessuno si può permettere, ma giocatori giovani e di prospettiva”. Al termine di quella stagione la Juventus arrivò prima da imbattuta, dopo altre due avrebbe comprato Tevez e adesso sembra in dirittura d'arrivo pure l'acquisto del portoghese Nani.

Come direbbe Garcia, la chiesa è stata rimessa al centro del villaggio. Ancora una curiosità: quel pareggio esterno la Juventus lo ottenne a Catania, nello stesso campo dal quale oggi le è arrivata la notizia della sconfitta della Roma. E' proprio vero, dopo il terremoto provocato da Calciopoli almeno in Italia tutto sembra essere tornato al proprio posto. Adesso è arrivato il momento di pensare all'Europa... 

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venerdì 2 maggio 2014

Alla Juve serve una nuova mentalità

La Juventus che si appresta a conquistare il terzo scudetto consecutivo si conferma una squadra che al di fuori dei confini del nostro paese non riesce né ad emergere né a mostrare tutto il proprio valore. Le cause non sono certo da ricercare nella neve caduta a Istanbul lo scorso dicembre, oppure in qualche episodio sfavorevole accaduto nel doppio confronto con il Benfica. Il problema, più ampio, riguarda il suo processo di crescita, iniziato nel momento del ritorno in serie A e ancora da completare, reso più complicato - nel corso del tempo - anche per colpa di alcune scelte sbagliate operate dal club. Inteso nel suo insieme, senza considerare il cambio societario che ha poi portato Andrea Agnelli al timone di Madama.
Nessuno è perfetto, per carità, gli errori fanno parte del mestiere e le sconfitte bruciano. Però, a mente fredda, non bisogna dimenticare che la chiesa è stata rimessa al centro del villaggio (tanto per citare un proverbio caro a Rudi Garcia) soltanto da tre anni a questa parte. La Juventus che ha ripreso a dettare legge in Italia ha dimostrato di essere ancora una Giovane Signora in Europa, priva dell'esperienza e del cinismo necessari per ottenere risultati prestigiosi anche fuori dalla serie A.
Pirlo, Buffon, Tevez, Vidal... tra le sue fila Madama annovera elementi dalla caratura internazionale, che però non le sono stati sufficienti per maturare alla svelta la consapevolezza che nelle manifestazioni europeee si gioca un calcio di tipo diverso: più veloce, con meno interruzioni, più fisico e con una particolare cura dei dettagli. Al minimo errore, infatti, si rischia di dover pagare il dazio, senza avere il tempo necessario per rimediare.
Dal momento in cui la Juventus è stata eliminata dalla Champions League, poi, in casa bianconera si è fatto un gran parlare della possibilità che la formazione allenata da Conte potesse giocare un'eventuale finale di Europa League a Torino, nel suo stadio. Proprio in questo frangente è venuto a galla il provincialismo della Vecchia Signora. Cancellata la Coppa delle Coppe, in Europa ogni anno fior di club sgomitano tra loro per potersi aggiudicare soltanto due competizioni. Visto e considerato che quella più importante è attualmente fuori dalla portata della truppa juventina, era davvero così umiliante per lei partecipare all'Europa League, tanto da dover usare come ulteriore stimolo nell'affrontarla il pensiero che la gara decisiva si sarebbe disputata a Torino?
Nel corso della prossima estate la Signora potrebbe cambiare abito, così come il sarto che ne curerà le rifiniture. Ma per tornare a vincere in Europa quello che le servirebbe sarebbe soprattutto una mentalità nuova, che dai vertici societari possa propagarsi verso il basso, in cui l'unico denominatore comune alle diverse competizioni da affrontare dovrebbe essere l'intenzione di provare a vincere tutto quanto le sarà possibile. Non soltanto a parole o con slogan ad effetto.

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