"Sei punti di ritardo dal primo posto non sono troppi, possono essere recuperati in quattro o cinque partite".
Si espresse in questi termini, Marcello Lippi, il 23 dicembre del 2001, dopo aver espugnato con la sua Juventus il "Mario Rigamonti" di Brescia sconfiggendo le “rondinelle” allenate da Carlo Mazzone con un rotondo 4-0.
I bianconeri erano finalmente riusciti ad interrompere un digiuno di vittorie lontano dal "Delle Alpi" che durava da più di tre mesi, dopo l’ultimo successo esterno ottenuto a Bergamo contro l'Atalanta di Vavassori per 2-0 (9 settembre) alla seconda giornata del campionato 2001-02.
Con la cessione di Zidane (al Real Madrid) e Filippo Inzaghi (al Milan), gli arrivi di Buffon, Thuram, Nedved, Salas e il ritorno dell'allenatore toscano sulla panchina juventina (dopo il precedente addio del febbraio del 1999), in estate la Vecchia Signora aveva deciso di cambiare abito: dal 4-3-1-2 indossato nell’anno appena concluso al ritorno al classico 4-4-2, per una squadra più muscolare ma (inevitabilmente) dotata di minor tecnica rispetto alla precedente.
I primi mesi del campionato avevano - però - messo in mostra una pericolosa mancanza di imprevedibilità e coesione in un gruppo nuovo, vittima e carnefice al tempo stesso dei suoi continui alti e bassi, di occasioni sprecate (memorabile il derby pareggiato 3-3 dopo aver dilapidato il vantaggio di tre lunghezze), di vittorie che regalavano momentanee illusioni di un cammino meno tortuoso da percorrere sino all’obiettivo dichiarato dello scudetto.
La società sembrava intenzionata ad intervenire con correttivi di valore già nella sessione invernale del calciomercato, e la smentita di Luciano Moggi in tal senso (“per Natale non ci saranno Doni”, in riferimento all’interesse per il centrocampista allora in forza all’Atalanta) lasciava invece presagire una precisa volontà della dirigenza di rinforzare ulteriormente la rosa, andando a colmare le lacune che il campo aveva mostrato.
Poi scoccò, proprio nella gara di Brescia, quella scintilla che diede vita ad un cambio di marcia repentino, uno di quei segnali che – se colti al volo in tutta la loro essenza – sono in grado di moltiplicare le forze di chi cerca di uscire da una situazione delicata.
La temporanea assenza di Zambrotta, all’epoca ancora utilizzato come laterale destro di centrocampo, permise a Lippi di schierare Tacchinardi al centro della linea mediana, protetto ai lati da Edgar Davids (a sinistra) e Antonio Conte (nella corsia opposta), con l’avanzamento di Pavel Nedved dietro le due punte, libero di svariare e pungere le difese avversarie. Di fatto si era tornati dal 4-4-2 a quel 4-3-1-2 abbandonato pochi mesi prima, con la sostanziale differenza nell’interpretazione nel ruolo del trequartista, derivante – ovviamente – dalle diverse caratteristiche degli interpreti (Zidane prima, Nedved dopo).
Sdoganato dalla fascia sinistra, il biondo ceco iniziò a furoreggiare in lungo e in largo per tutto il rettangolo di gioco, trovando finalmente un ruolo, idoneo alle sue caratteristiche, che gli consentisse di esprimere tutto il suo potenziale. E se il Brescia nella prima mezz’ora dell’incontro mise in difficoltà la Vecchia Signora con tre conclusioni di Tare, il suo attaccante di origini albanesi, da quel momento in poi i centrocampisti bianconeri suonarono la carica, impadronendosi del gioco e conducendo la squadra di Marcello Lippi alla vittoria finale.
La prima rete bianconera fu di marca francese: cross di Thuram, schierato come difensore esterno destro, e testata vincente di Trezeguet. In occasione della seconda, realizzata da Del Piero, ci furono numerose proteste legate alla valutazione di una possibile posizione di fuorigioco del capitano bianconero nell’azione incriminata: l’arbitro De Santis la valutò passiva all’inizio, e regolare dopo che Trezeguet - ancora lui - gli servì un pallone invitante che andava soltanto spinto nella direzione della porta avversaria. Le nuove norme della FIFA, in merito, erano chiare, e il direttore di gara si limitò ad applicarle correttamente: la rete era da considerarsi valida. Ciro Ferrara (su angolo di Nedved) e Edgar Davids (direttamente su punizione) realizzarono le ultime due marcature dell’incontro. Privo delle stelle Roberto Baggio e Josep Guardiola, il Brescia dovette arrendersi al risultato e all’evidenza della netta superiorità mostrata dai bianconeri.
Nei successivi undici incontri di campionato la squadra allenata da Marcello Lippi spiccò il volo, totalizzando la bellezza di otto vittorie e tre pareggi. Il crollo a Parma a sette gare dalla fine del torneo (24 marzo 2002) non pregiudicò il successo finale della Vecchia Signora, in un torneo avvincente che si concluse soltanto all’ultima partita, disputata il 5 maggio del 2002. Come andò a finire è storia nota: il campo premiò la squadra che – alla fine della manifestazione – aveva il miglior attacco e la difesa meno perforata, in una domenica indimenticabile per il mondo bianconero.
“Né Juve, né Roma, Inter Campione”, recitava lo striscione che campeggiava nella curva nord dello stadio "Olimpico" di Roma, per l’occasione tinto di nerazzurro. Doveva essere la festa dello scudetto dell’Inter, divenne il ventiseiesimo tricolore a finire nelle mani della Vecchia Signora del calcio italiano, con la squadra allenata da Hector Cuper che – perdendo quella gara - arrivò addirittura terza dietro la Roma (vittoriosa a Torino contro i granata).
Il campo aveva deciso così: lui è sincero, non mente mai. Soprattutto nei confronti di chi è innamorato delle vittorie a tavolino. Articolo pubblicato su
Si espresse in questi termini, Marcello Lippi, il 23 dicembre del 2001, dopo aver espugnato con la sua Juventus il "Mario Rigamonti" di Brescia sconfiggendo le “rondinelle” allenate da Carlo Mazzone con un rotondo 4-0.
I bianconeri erano finalmente riusciti ad interrompere un digiuno di vittorie lontano dal "Delle Alpi" che durava da più di tre mesi, dopo l’ultimo successo esterno ottenuto a Bergamo contro l'Atalanta di Vavassori per 2-0 (9 settembre) alla seconda giornata del campionato 2001-02.
Con la cessione di Zidane (al Real Madrid) e Filippo Inzaghi (al Milan), gli arrivi di Buffon, Thuram, Nedved, Salas e il ritorno dell'allenatore toscano sulla panchina juventina (dopo il precedente addio del febbraio del 1999), in estate la Vecchia Signora aveva deciso di cambiare abito: dal 4-3-1-2 indossato nell’anno appena concluso al ritorno al classico 4-4-2, per una squadra più muscolare ma (inevitabilmente) dotata di minor tecnica rispetto alla precedente.
I primi mesi del campionato avevano - però - messo in mostra una pericolosa mancanza di imprevedibilità e coesione in un gruppo nuovo, vittima e carnefice al tempo stesso dei suoi continui alti e bassi, di occasioni sprecate (memorabile il derby pareggiato 3-3 dopo aver dilapidato il vantaggio di tre lunghezze), di vittorie che regalavano momentanee illusioni di un cammino meno tortuoso da percorrere sino all’obiettivo dichiarato dello scudetto.
La società sembrava intenzionata ad intervenire con correttivi di valore già nella sessione invernale del calciomercato, e la smentita di Luciano Moggi in tal senso (“per Natale non ci saranno Doni”, in riferimento all’interesse per il centrocampista allora in forza all’Atalanta) lasciava invece presagire una precisa volontà della dirigenza di rinforzare ulteriormente la rosa, andando a colmare le lacune che il campo aveva mostrato.
Poi scoccò, proprio nella gara di Brescia, quella scintilla che diede vita ad un cambio di marcia repentino, uno di quei segnali che – se colti al volo in tutta la loro essenza – sono in grado di moltiplicare le forze di chi cerca di uscire da una situazione delicata.
La temporanea assenza di Zambrotta, all’epoca ancora utilizzato come laterale destro di centrocampo, permise a Lippi di schierare Tacchinardi al centro della linea mediana, protetto ai lati da Edgar Davids (a sinistra) e Antonio Conte (nella corsia opposta), con l’avanzamento di Pavel Nedved dietro le due punte, libero di svariare e pungere le difese avversarie. Di fatto si era tornati dal 4-4-2 a quel 4-3-1-2 abbandonato pochi mesi prima, con la sostanziale differenza nell’interpretazione nel ruolo del trequartista, derivante – ovviamente – dalle diverse caratteristiche degli interpreti (Zidane prima, Nedved dopo).
Sdoganato dalla fascia sinistra, il biondo ceco iniziò a furoreggiare in lungo e in largo per tutto il rettangolo di gioco, trovando finalmente un ruolo, idoneo alle sue caratteristiche, che gli consentisse di esprimere tutto il suo potenziale. E se il Brescia nella prima mezz’ora dell’incontro mise in difficoltà la Vecchia Signora con tre conclusioni di Tare, il suo attaccante di origini albanesi, da quel momento in poi i centrocampisti bianconeri suonarono la carica, impadronendosi del gioco e conducendo la squadra di Marcello Lippi alla vittoria finale.
La prima rete bianconera fu di marca francese: cross di Thuram, schierato come difensore esterno destro, e testata vincente di Trezeguet. In occasione della seconda, realizzata da Del Piero, ci furono numerose proteste legate alla valutazione di una possibile posizione di fuorigioco del capitano bianconero nell’azione incriminata: l’arbitro De Santis la valutò passiva all’inizio, e regolare dopo che Trezeguet - ancora lui - gli servì un pallone invitante che andava soltanto spinto nella direzione della porta avversaria. Le nuove norme della FIFA, in merito, erano chiare, e il direttore di gara si limitò ad applicarle correttamente: la rete era da considerarsi valida. Ciro Ferrara (su angolo di Nedved) e Edgar Davids (direttamente su punizione) realizzarono le ultime due marcature dell’incontro. Privo delle stelle Roberto Baggio e Josep Guardiola, il Brescia dovette arrendersi al risultato e all’evidenza della netta superiorità mostrata dai bianconeri.
Nei successivi undici incontri di campionato la squadra allenata da Marcello Lippi spiccò il volo, totalizzando la bellezza di otto vittorie e tre pareggi. Il crollo a Parma a sette gare dalla fine del torneo (24 marzo 2002) non pregiudicò il successo finale della Vecchia Signora, in un torneo avvincente che si concluse soltanto all’ultima partita, disputata il 5 maggio del 2002. Come andò a finire è storia nota: il campo premiò la squadra che – alla fine della manifestazione – aveva il miglior attacco e la difesa meno perforata, in una domenica indimenticabile per il mondo bianconero.
“Né Juve, né Roma, Inter Campione”, recitava lo striscione che campeggiava nella curva nord dello stadio "Olimpico" di Roma, per l’occasione tinto di nerazzurro. Doveva essere la festa dello scudetto dell’Inter, divenne il ventiseiesimo tricolore a finire nelle mani della Vecchia Signora del calcio italiano, con la squadra allenata da Hector Cuper che – perdendo quella gara - arrivò addirittura terza dietro la Roma (vittoriosa a Torino contro i granata).
Il campo aveva deciso così: lui è sincero, non mente mai. Soprattutto nei confronti di chi è innamorato delle vittorie a tavolino. Articolo pubblicato su
2 commenti:
Quegli anni li ricordo molto bene. E soprattutto quella sessione di mercato, con quel che ne è conseguito a livello tecnico. Più tardi di quella partita si sveglierà defintiivamente Pavel Nedved che, in quel tempo, appariva ancora timido e nervoso. Come un leone chiuso in gabbia. Sappiamo poi bene come andò a finire. Ti ricordo che questo scudetto è stato richiesto da un tizio di Milano. Basterebbe rileggere l'ultimo tuo paragrafo per capire in che pasticcio ci siamo infilati con questo nostro, ORA, povero calcio!
Quel "tizio" di Milano non ha ancora imparato a vincere, così come non aveva mai imparato a perdere...
;-)
Un abbraccio!
A presto
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