giovedì 2 maggio 2013

Nils Liedholm, un ‘Barone’ per il calcio italiano


Quando se ne andò, il 5 novembre 2007, furono in molti a sostenere che con il passare del tempo la sua assenza si sarebbe avvertita moltissimo. Perché di gentiluomini – anzi, di “Baroni” – come lui ancora oggi il mondo del calcio ne avrebbe bisogno a dosi industriali.

L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo, peccato che ci siano le partite“, amava ripetere Nils Liedholm sin dal momento in cui appese le scarpette al chiodo. Quegli strumenti del mestiere che seppe usare benissimo nel corso della prima parte della sua vita calcistica. Con garbo e ironia riusciva a strappare improvvisi sorrisi al dirimpettaio di turno: “Di solito provo in partita gli schemi che poi mi riescono perfettamente in allenamento“.

Era stato un grande calciatore e questo lo aveva aiutato a riconoscere quei giovani che in futuro avrebbero intrapreso la stessa strada scelta da lui: “Con Ancelotti ci facciamo sempre delle grandi risate. Quando era giocatore invece era sempre molto silenzioso: si vede che stava studiando. C’era Novellino che, quando sedeva vicino a me in panchina, parlava sempre: segno che sarebbe diventato un buon allenatore“.

Dal campo ai bordi del rettangolo di gioco cercava di trasmettere la sua mentalità, il suo modo di intendere il calcio: “Io ripetevo ai miei giocatori: se fai fallo sbagli due volte. La palla resta a loro e mandi un messaggio di debolezza. Io mi allenavo molto, contro un giocatore o due, per portar via palla senza fare fallo“. Dopo una breve esperienza al Milan si era fatto le ossa come tecnico salvando il Verona dalla retrocessione in serie C e riportandolo nella massima divisione, per poi togliere dai guai anche il Monza ed aiutare il Varese a raggiungere il sospirato traguardo della serie A. Successivamente era stato a Firenze, a Roma ed era rientrato al Milan, con il quale aveva conquistato il decimo tricolore della storia rossonera, quello della stella.

Nel libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”, di Sebastiano Catte, è pubblicata un’intervista rilasciata da uno dei grandi protagonisti di quel successo, Gianni Rivera. Che non esitò a riconoscere i meriti dello svedese al momento del suo arrivo al Diavolo quando ancora era un ragazzino: “Avevo solo 16 anni e mi accompagnò a Linate, dove allora si allenava la squadra rossonera. Nella partitella fui schierato nella formazione titolare che affrontava quella giovanile, quindi insieme a Liedholm e Schiaffino, i due leader di quella squadra. Come si sa quel test andò bene e, malgrado lo scetticismo di qualcuno, i dirigenti del Milan decisero di acquistarmi. Qualche anno dopo seppi che Liedholm ebbe un ruolo fondamentale in quella decisione. Dopo quel provino infatti lui, insieme a Schiaffino, andò da Viani per consigliargli di prendermi. Ho saputo che dovette esercitare tutte le sue capacità persuasive per cercare di smontare l’iniziale diffidenza di quei dirigenti milanisti che avevano poca fiducia in me per via di un fisico gracile e quindi – secondo loro – dotato di una scarsa propensione nei confronti di uno sport “maschio” per eccellenza come il calcio. Quando qualche mese dopo arrivai al Milan giocai per un anno intero insieme a Liedholm, in quella che fu la sua ultima stagione da calciatore“.

Nel suo successivo ritorno a Roma vinse poi uno scudetto storico per poi mancare di un soffio, ai calci di rigore, la conquista della Coppa dei Campioni nella finalissima disputata proprio nella capitale contro il Liverpool. Tornato al Milan lo aveva nuovamente abbandonato poco dopo l’atterraggio in elicottero di Berlusconi a Milanello. Aveva fatto comunque in tempo a trapiantare un’altra volta il seme del suo calcio, prima dell’arrivo di Arrigo Sacchi.

Insegnava ai suoi ragazzi quello che aveva imparato in tanti anni di pratica. Una volta raccontò il metodo originale attraverso il quale aveva sviluppato la sensibilità nel tocco al pallone: “Mi allenavo scartando due cani: bisogna essere rapidissimi, perché loro guardano la palla, non abboccano alle finte!“. A chi gli domandò il perché smise di farlo, rispose con il suo proverbiale stile: “Non è per l’età, è che sono morti i cani“.

Molto probabilmente aveva ragione chi sosteneva che nel tempo la sua assenza si sarebbe avvertita.

Articolo pubblicato su Lettera43

6 commenti:

Giuliano ha detto...

il Milan di Sacchi deve moltissimo a Liedholm, tutti i difensori per esempio (Baresi e gli altri)giocavano già a zona da molto tempo, fin dalle giovanili.
Al Milan fanno finta di non ricordarselo, negano se glielo fai notare, ma Liedholm aveva fatto un gran lavoro ovunque.
Anche noi juventini gli dobbiamo essere riconoscenti: Bettega al Varese, in serie B, da Liedholm imparò molto.
Una persona finissima, lui e Rocco hanno davvero fatto scuola, ed è una scuola che arriva fino a noi: da Trapattoni ad Ancelotti, fino a Prandelli e Conte, c'è un filo conduttore ben visibile.

Thomas ha detto...

Più che ottima risposta, Giuliano.
Chapeau.

Un abbraccio!

Danny67 ha detto...

@Thomas
Bellissimo pezzo, complimenti davvero.

@Giuliano
La penso come Thomas, gran bella risposta

Doppio chapeau per entrambi.

bla78 ha detto...

Ho recuperato gli episodi vecchi di "Calciatori giovani speranze" su internet... Ottimo reality! http://ondemand.mtv.it/serie-tv/calciatori-giovani-speranze

Anonimo ha detto...

Guarda ho seguito la vecchia stagione e ora seguo la seconda!!Fichissimo!!

Thomas ha detto...

bla78: grazie di cuore.

Buon sabato!