Visualizzazione post con etichetta nazionale azzurra. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta nazionale azzurra. Mostra tutti i post

giovedì 18 ottobre 2012

La nazionale vince e frena le polemiche


Prima di fare qualsiasi considerazione sulle gare appena disputate dalla nazionale di Cesare Prandelli contro Armenia e Danimarca, lasciamo che siano i numeri a parlare: sei goals segnati, due subiti, sei punti conquistati e la distanza sulla seconda in classifica nel girone B di qualificazione ai mondiali brasiliani (attualmente la Bulgaria) portata a quattro lunghezze.
A onor del vero va ricordato che la Repubblica Ceca, terza, dovrà disputare ancora una partita. Nell'ipotesi in cui dovesse vincerla, comunque, si porterebbe a quota "meno due" dall'Italia.

Questo doppio impegno ravvicinato degli azzurri verrà ricordato, nel tempo, come uno dei peggiori viatici possibili all'ormai prossimo scontro in campionato tra Juventus e Napoli, in programma sabato 20 ottobre a Torino. Non sono mancati, infatti, sospetti, veleni, illazioni a non finire su qualsiasi situazione potesse riguardare - direttamente o indirettamente - alcuni tra i probabili protagonisti della gara, anche se in questi giorni si trovavano sparsi per il mondo con le rispettive selezioni.
Stuzzicata in conferenza stampa in merito al celebre "biscotto" contro la Svezia negli Europei del 2004, la comitiva danese ha fatto fatica a nascondere - dietro sorrisi di circostanza - qualche fastidio. Gli è poi bastato buttare l’occhio in serie A per rimandare al mittente qualsiasi tipo di insinuazione sul comportamento tenuto in Portogallo otto anni fa.

Armenia e Danimarca non erano certo ostacoli insormontabili per gli uomini di Prandelli, ma il fatto di essere riusciti a non scivolare sulla classica buccia di banana rappresenta comunque una nota di merito.
Se nelle gare precedenti (contro Bulgaria e Malta) era mancato Balotelli, in quest’occasione il commissario tecnico ha deciso di rinunciare ad Antonio Cassano. Gianluigi Buffon, sul tema, ha mostrato di avere le idee chiare: "L’assenza di Cassano in questa Italia non mi sorprende. Il progetto adesso prevede forza fresche, sperando che l’evoluzione sia rapida. Il Mondiale infatti non è così lontano, e anche la Confederations Cup a giugno andrebbe onorata".

Il fantasista dell'Inter non si è perso d'animo, trovando il modo di far parlare di sé: ospite della trasmissione “Che tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio, ha motivato il suo mancato passaggio alla Juventus affermando di averla "rifiutata" in tre diverse occasioni. Perché? "Ho l’idea che lì vogliano solo soldatini che vadano diritti sul binario". Leonardo Bonucci, tramite il proprio profilo ufficiale di twitter, gli ha risposto usando meno dei 140 caratteri disponibili: "Più che soldatini... professionisti!".

Punto e a capo.

De Rossi e Osvaldo, momentaneamente accantonati da Zeman alla Roma, si sono tolti qualche soddisfazione in nazionale: con una rete a testa hanno spinto l'Italia alla vittoria ottenuta in Armenia (3-1, a Yerevan). In vantaggio grazie al rigore realizzato da Pirlo (il migliore in campo), gli azzurri - infatti - erano stati momentaneamente raggiunti da Henrikh Mkhitaryan, l'uomo di spicco dello Shakhtar Donetsk di Lucescu. Prandelli, contento in un primo momento per l'esito della gara ("Ho visto una grande partita di una squadra con grande personalità. Non voglio parlare di svolta, ma avevamo bisogno di una partita così"), ha poi cambiato improvvisamente umore dopo aver letto i giornali ("Avevamo pensato di aver fatto una buona gara e il clima nello spogliatoio alla fine lo confermava, ma leggendo i giornali abbiamo letto qualcosa di diverso. A parte la Spagna, non ci sono squadre che dettano legge in ogni partita o vincono ancora prima di iniziare").

Contro la Danimarca, a Milano, De Rossi è stato nuovamente protagonista, segnando il goal del raddoppio dopo la prima rete messa a segna da Montolivo. Di Kvist e Balotelli (ottima la sua prestazione) le altre marcature della serata (3-1 il risultato finale). Osvaldo, espulso all'inizio della seconda frazione di gioco, è finito dietro la lavagna. Stavolta Prandelli era visibilmente soddisfatto: "In 10 abbiamo lottato con ordine e determinazione. Ora siamo in po’ più sereni ma dobbiamo migliorare. La rete subita alla fine del primo tempo poteva costarci cara. Ma in dieci siamo stati molto ordinati anche se abbiamo speso molto".

La settimana azzurra si chiude con il lieto fine, con la ciliegina sulla torta rappresentata dai complimenti che Lionel Messi ha riservato ad Andrea Pirlo. Subito dopo la gara vinta dall'Argentina contro l'Uruguay, dove ha segnato l'ennesima doppietta della carriera, ha infatti dichiarato: "La mia punizione è nata guardando quella che Andrea ha fatto contro il Siena, facendo passare la palla sotto la barriera avversaria". La risposta dello juventino non si è fatta attendere: "Davvero ha detto così? Non lo sapevo, mi fa piacere".
Tutto bello, nella speranza che duri.
Perché sabato prossimo ci sarà Juventus-Napoli, ed è forte il sospetto che le polemiche che l’accompagnano possano rovinare un simile momento di festa.
Articolo pubblicato su

giovedì 20 settembre 2012

Enzo Bearzot, un uomo leale in cima al mondo


"Un uomo onesto, di grandi valori. Una persona seria, di ampia cultura. Severo, apparentemente burbero. Sentiva la responsabilità del gruppo, voleva sapere tutto di noi, che si faceva, dove si andava. Esigeva lealtà e rispetto. Chi mancava, non veniva più richiamato". La persona in questione è Enzo Bearzot, chi ne ha tracciato il profilo è stato Marco Tardelli, uno dei suoi "ragazzi", nel corso di un'intervista rilasciata a Nicola Calzaretta e pubblicata sull'ultimo numero del mensile "GS" (evoluzione del settimanale "Guerin Sportivo").

Petto in fuori, pipa in bocca, da commissario tecnico era diventato una sorta di secondo padre per alcuni tra i giocatori che convocava in azzurro. Amava quella maglia, da bambino (era nato nel 1927) aveva gioito nella piazza di Gradisca per la vittoria nel mondiale del 1938 ascoltando dagli altoparlanti la cronaca della finalissima dalla voce di Nicolò Carosio.

Stravedeva per Aldo Campatelli e sognava l'Inter. L'aveva affrontata in amichevole con la Pro Gorizia, che all'epoca si trovava in serie B, senza passare inosservato: venne arruolato dai nerazzurri, per poi debuttare a "San Siro" appena ventenne. L'emozione gli aveva giocato un brutto scherzo: stava per entrare sul terreno di gioco con la maglia indossata al contrario. Proprio Campatelli, con un gesto bonario, gli aveva fatto notare che il numero cinque andava esibito sulla schiena, non sul petto.

Non trovando spazio in prima squadra era stato dirottato a Catania: per lui si era trattato di un trauma, superato grazie a Luisa, la donna che sarebbe diventata sua moglie e che gli avrebbe dato due figli, Cinzia e Glauco. L'aveva conosciuta su un tram in quella Milano dell'immediato dopoguerra che adorava. Dalla Sicilia era salito sino in Piemonte, a Torino. L'ambiente granata gli era subito entrato nel cuore: trascorso un altro breve periodo all'Inter, era tornato sotto la Mole per concludere lì la propria carriera di calciatore.

Nereo Rocco, il “Paròn”, giunto a Torino dopo aver guidato il Milan alla prima vittoria in coppa dei Campioni, lo aveva spronato a diventare allenatore. Nella biografia "Il romanzo del vecio", curata dal giornalista e amico Gigi Garanzini, aveva confidato gli insegnamenti appresi in quel periodo: "Primo, come si crea un ambiente, un’atmosfera, un gruppo. Secondo, una squadra si regge sui vecchi prima che sui giovani. Il giovane ti dà la gamba, il vecchio la testa. Se sbagli i giovani hai il tempo di cambiarli, se sbagli i vecchi tutto ti crolla addosso".

Era stato Artemio Franchi a volerlo in nazionale, dopo che si era fatto le ossa - come tecnico - con i giovani granata e a Prato. Non c'era stato subito il "grande salto": all'inizio, infatti, aveva collaborato con Ferruccio Valcareggi e Fulvio Bernardini. Da calciatore aveva indossato la maglia dell'Italia soltanto in un’occasione: a Budapest, contro la grande Ungheria di Ferenc Puskás, con la consegna di limitare il raggio d'azione di quel fuoriclasse (27 novembre 1955, 0-2).

Quando la panchina era diventata sua a tutti gli effetti aveva fatto tesoro delle novità messe in luce dal mondiale tedesco del 1974 puntando ad un calcio diverso da far applicare agli azzurri: quello mostrato dai polacchi, simile all'olandese ma con meno rischi da affrontare nel tentativo di cambiare una mentalità ed un metodo di gioco ormai cristallizzati da tempo. La nazionale ammirata in Argentina nel 1978 era stata concepita a Milanello il 4 giugno 1976 alla vigilia di un'amichevole disputata contro la Romania, al termine di una chiacchierata con i suoi "ragazzi". Anche se non vinse il torneo, è rimasta la più bella tra tutte.

Persino più di quella che poi avrebbe fatto sognare un paese intero, in Spagna, quattro anni dopo. Lì, invece, il sogno era nato da un'intuizione del vecio datata novembre 1981: al termine di un allenamento dell'Italia, a Torino, si era fermato ad osservare Paolo Rossi mentre disputava una partitella contro la Primavera della Juventus. Era fuori forma e fuori dai giochi a causa della squalifica rimediata nello scandalo del calcioscommesse. Nonostante tutto, aveva capito in quei momenti che avrebbe potuto puntare su di lui. Sceglieva i calciatori da convocare usando come parametro il loro rendimento in nazionale, non quello in campionato.

Nel corso della carriera aveva subito critiche eccessivamente feroci. Un esempio, scelto a caso: durante il ritiro dell'Italia in preparazione agli Europei del 1980 a Pollone (Biella), due giornalisti erano stati allontanati perché arrivati in ritardo alla conferenza stampa. In tutta risposta scrissero sui quotidiani di un "lebbrosario azzurro" riservato a pochi intimi… Si definiva un cristiano anarchico: perdonava, ma non porgeva l’altra guancia. Non amava la vetrina, così come la falsa modestia. Era il primo a riconoscere i meriti dei giocatori nelle vittorie, senza trascurare i suoi. Sosteneva che agli allenatori attuali veniva data troppa importanza, in campo - in fondo - andavano i giocatori. Si sentiva patriarca perché il suo approccio mentale era lo stesso di quando la sera poggiava la testa sul cuscino e sperava di fare del pallone un hobby retribuito. Il cruccio era stato quello di non essere riuscito a civilizzare il pubblico, lui che aveva amato il calcio al di là del colore delle maglie.

E' morto il 21 dicembre, casualmente nello stesso giorno (a distanza di anni) in cui era mancato Vittorio Pozzo, il tecnico di quell'Italia che lo aveva fatto sognare ad occhi aperti, da ragazzino, a Gradisca. Ne aveva fatta di strada, Enzo Bearzot da Aiello del Friuli, per poter volare sopra il cielo della Spagna con una coppa del mondo sistemata accanto a lui. Mentre giocava a carte.

Articolo pubblicato su Lettera43