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sabato 22 marzo 2014

Pirlo, l'artista delle punizioni


Nel suo libro “Juventus. Quei derby che una signora non dimentica”, pubblicato nel 2007, Roberto Beccantini - noto giornalista sportivo e tifoso bianconero - aveva riportato un curioso aneddoto legato ad una confessione rilasciata tempo prima da Dino Zoff: “Quando prendevo un gol da Platini in Nazionale o in allenamento non mi lamentavo né mi incavolavo mai. Sono gol che un portiere deve accettare. Perché? Non sono imparabili, sono perfetti”.

Passano gli anni, Madama saluta o dà il benvenuto a nuovi fuoriclasse, ma la storia si ripete. Buffon, all'alba del primo campionato disputato dalla Vecchia Signora dentro la sua nuova casa (2011/12), per celebrare la grandezza di un altro maestro nelle punizioni, Andrea Pirlo, diventò addirittura mistico: “Quando Andrea mi ha detto che sarebbe venuto alla Juve, la prima cosa che ho detto è stata "Meno male". Credo che un giocatore del suo livello e del suo valore, per lo più gratis, sia stato l'affare del secolo. E ieri quando l'ho visto giocare ho pensato "Dio c'è", perché è veramente imbarazzante la sua bravura calcistica".

Davanti a quella classe anche Michel Platini lo scorso 18 giugno 2013 si era tolto pubblicamente il cappello: “Stiamo parlando di un grande giocatore, perché dà un valore aggiunto alle sue squadre sia per tecnica che per organizzazione. La sua sfortuna è che nella storia rimangono più nella mente dei tifosi i grandi goleador perché le tv fanno vedere soprattutto i gol. Nella Juve infatti ci si ricorda di più di Del Piero che di altri. È lo stesso problema di portieri, difensori e centrocampista di fatica. È un giocatore eccezionale, con grandi qualità e devo dire che lo ammiro moltissimo. Mi tolgo il cappello di fronte a lui”.

Ultimo tra gli ultimi, ma solo in ordine cronologico, anche Luigi Garlando, prima firma della “Gazzetta dello Sport”, nel celebrare l'opera d'arte con la quale Pirlo ha regalato la qualificazione ai quarti di Europa League alla Juventus, sulla rosea ha scritto: “L'habitat naturale di Andrea Pirlo è il Pallone d'Oro. Non l'ha mai vinto? Colpa di chi vota, mica sua”. Amen.

Finite le celebrazioni, per i bianconeri adesso è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e portare a compimento due missioni all'interno di una stagione, quella che porterà molti di loro a partecipare ai mondiali brasiliani, sempre più densa di impegni.

Aumenta il numero dei minuti accumulati nelle gambe dalla truppa di Conte, iniziano ad affiorare con frequenza sempre maggiore gli infortuni, ogni tanto fioccano alcune squalifiche, ed ecco che Madama inizia a tirare la cinghia, facendo ricorso a qualche ragazzo della sua Primavera (Romagna e Matiello a Firenze, giusto per fare un esempio).

Il prossimo appuntamento in campionato è a Catania, laddove in campionato la Juventus non perde dal lontano 27 settembre 1964. All'epoca dei fatti vinsero i padroni di casa per 3-1, la Vecchia Signora era guidata in panchina da Heriberto Herrera. Quella stagione si concluse con un quarto posto in serie A, un successo in coppa Italia (il quinto per i bianconeri), ed una finale di Coppa delle Fiere, la mamma della vecchia Coppa Uefa (e la nonna dell'attuale Europa League), persa contro gli ungheresi del Ferencvaros nella gara secca disputata allo stadio “Comunale” di Torino.

A questo punto, vista e considerata qualche ipotetica analogia col passato, per Madama è meglio cercare di portare a casa un'altra vittoria in campionato... 

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sabato 13 ottobre 2012

Lev Jašin, il ‘Ragno nero’


Lev Ivanovič Jašin era solito prendere appunti sulle caratteristiche dei suoi avversari (movenze e stili di gioco) per poi raccoglierli dentro un quaderno, suo prezioso alleato, prima di affrontarli sui campi di pallone. Su di lui Enrico Albertosi diceva: “Lo vedevi tra i pali ed era un gatto, con una rapidità ed una sveltezza incredibili. Aveva due braccia che gli arrivavano oltre le ginocchia, quando si posizionava in porta”.

Josef Maier, il leggendario numero uno del Bayern Monaco e della nazionale tedesca, lo ha descritto – invece - con queste parole: “Quando prendeva il pallone a terra era come una pantera. Stava rannicchiato sulla palla. Guardava a destra e a sinistra, come se dovesse nasconderla. Poi scattava in piedi. E rinviava.....”.

Jašin è stato votato come il miglior portiere del XX secolo dall’IFFHS, l’Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio. Si è trattato di un riconoscimento tra i numerosi (e prestigiosi) ricevuti durante e dopo una carriera da estremo difensore della Dinamo Mosca e dell'URSS, le due squadre della sua vita.

Soprannominato il ‘Ragno nero’ per il colore della divisa che indossava prima di infilare i guanti, è stato l’unico portiere a vincere il prestigioso Pallone d’Oro (1963). I pali e la traversa, per lui, erano compagni di gioco non soltanto sui prati verdi: prima di esordire nel calcio che conta aveva infatti conquistato un campionato sovietico di hockey su ghiaccio. Sempre, ovviamente, per la Dinamo Mosca, la squadra del Ministero per gli Affari Interni del suo paese.

Nato nel 1929, appena dodicenne si era ritrovato a lavorare in fabbrica. Partito dal basso, gli era mancato il mondiale per arrivare a toccare il cielo con un dito. Sull’argomento, intervistato qualche mese prima di Italia ’90, aveva dichiarato: “Mi sembra che la nostra squadra non sia ancora pronta a diventare una grande nazionale. Sono necessarie tradizioni che noi ancora non abbiamo. L'Italia ed il Brasile le hanno, per questo hanno vinto diverse volte la Coppa del Mondo. Le tradizioni contano quasi più dei soldi. Ma forse un giorno o l'altro i calciatori sovietici potranno assaporare il piacere di questo successo”.

Aveva smesso di giocare a quarantuno anni, esattamente come Dino Zoff, che così lo aveva voluto ricordare il giorno in cui era mancato a causa di un tumore allo stomaco: “Per me è stato senza dubbio un modello, anche se direttamente l'ho visto giocare solo nell'ultima parte della sua carriera, quando ormai quarantenne stava per ritirarsi. Comunque lui prima e l'inglese Banks poi sono stati i giocatori cui mi sono ispirato. Ci legava una grande amicizia e quando festeggiai a Sanremo il mio addio al calcio Jašin volle essere presente”.

A proposito di Gordon Banks: anche il portiere inglese, arrivato secondo nella speciale classifica dell’IFFHS davanti a Zoff e Maier, aveva speso bellissime parole a favore del ‘Ragno Nero’: “Era un grandissimo portiere. E un vero signore”.

Nel palmarès di Jašin figurano cinque campionati sovietici e tre coppe dell’URSS, un Oro olimpico (1956) ed un Europeo (1960), accompagnati da una serie lunghissima di aneddoti e leggende. Di lui si era detto che parava moltissimi tiri dal dischetto (oltre cento in tutta la carriera) perché ipnotizzava l’avversario: “Non ho poi parato così tanti rigori. Praticamente parare un tiro dagli undici metri è impossibile. Gli undici metri, per un portiere, creano una situazione molto sgradevole. Per esempio: adesso mi ricordo il penalty di Mazzola che ho parato in Italia (10/11/1963, ndr.). Io contavo sempre sull’errore dell’avversario. Pensavo: ‘se l’avversario sbaglia, sei avvantaggiato’, sapendo che la porta è enorme, e che è facilissimo segnare. Invece al giocatore sembra che la porta sia piccolissima, e il portiere enorme. Dunque chi attacca e sbaglia, aiuta il portiere che para. Era stato un errore di Mazzola… E se non avesse sbagliato? Avrebbe fatto goal. E nessun Jašin sarebbe stato in grado di parare”.

Aveva preso parte a quattro edizioni dei campionati mondiali, non partecipando da protagonista all’ultima, quella disputata in Messico nel 1970, dove aveva trionfato il Brasile di Pelè. Il fuoriclasse verdeoro era stato invitato al suo addio al calcio, avvenuto allo stadio “Lenin” di Mosca il 27 maggio del 1971 e celebrato grazie ad un’amichevole contro il Resto del Mondo. “Tutti mi chiedono il campione che ho preferito. Anch’io ho avuto un idolo ed è stato Pelè, il brasiliano non ha strabiliato con il suo talento solo i tifosi, anche noi avversari, appassionati, innamorati del calcio. Per i portieri era un inferno. Sapeva inventare dei gol così belli e interessanti che certe volte per lo stesso portiere era quasi un piacere vedere come Pelè riusciva a realizzarli. Vi dico di più: io sono orgoglioso che Pelè mi abbia segnato dei gol, certi gol. Sì, ne sono orgoglioso. Lo giuro”.

Umile, sincero, sportivo nel senso più profondo della parola, Jašin non si considerava il migliore del mondo. “Può darsi che sia frutto della fantasia giornalistica”, amava sostenere.
Questa, però, era riuscita talmente bene da risultare vera.

Articolo pubblicato su Lettera43

giovedì 1 marzo 2012

Buffon, Zoff, Baresi tra serietà e fair play

Dal goal non convalidato al rossonero Muntari alle polemiche nate durante e dopo i novanta minuti di gioco, anche l'ultimo Milan-Juventus disputato lo scorso sabato non passerà inosservato nella storia dei confronti tra i due club.
Le premesse, cariche di tensioni, sono finite per sfociare in atti e parole che poco hanno avuto a che vedere con l'etica sportiva ed il fair play.
In tutto questo calderone è finito pure Gianluigi Buffon a causa di una dichiarazione rilasciata al termine del match ("Non mi sono accorto che la palla fosse entrata, ma con onestà devo dire che di sicuro non l’avrei detto all’arbitro") che ha scatenato immediatamente ulteriori discussioni e partorito sondaggi di ogni natura: “Ha fatto bene o male a pronunciare quella frase?”; “Può un capitano della nazionale comportarsi in questo modo?”.

Nel frattempo, mentre continuavano i “botta e risposta” tra i colpevolisti e gli assolutisti, Dino Zoff ha compiuto settant’anni. Era il 28 febbraio, un giorno prima dell’amichevole organizzata a Genova tra la nazionale italiana e quella statunitense: iniziando quella gara dal primo minuto Buffon ha avuto modo di superare il suo illustre predecessore nel numero di presenze in maglia azzurra (centotredici, salendo così al terzo posto della graduatoria assoluta dietro i primatisti Cannavaro e Paolo Maldini).

Mito vivente, leggenda,… Chi più ne ha più ne metta… Zoff ha vissuto il mondo del calcio per una vita intera, assaporandolo da ogni angolazione possibile: direttamente dal campo, seduto su una panchina e dietro a una scrivania. Recentemente gli è stato domandato con quale aggettivo si definirebbe: la sua risposta è stata “serio, anche se ormai non si usa più”. Da portiere e tecnico della Juventus incrociò il Milan in più occasioni: nel corso della stagione 1989/90 gli era capitato di conquistare la coppa Italia al termine delle sfide di andata e ritorno proprio contro i rossoneri. Alla guida di una squadra tecnicamente inferiore, infatti, aveva affrontato la fortissima formazione all’epoca allenata da Arrigo Sacchi.

Nel percorso che lo aveva condotto alla fase conclusiva della manifestazione il Diavolo era inciampato in una delle giornate più negative della propria storia, che aveva finito per coinvolgere in prima persona Franco Baresi, bandiera del club e colonna portante della nazionale di Azeglio Vicini. Accadde a Bergamo il 24 gennaio 1990, nell'ultima gara del gironcino a tre squadre previsto per i quarti di finale. Dopo aver vinto contro il Messina, al Milan bastava un pareggio contro l'Atalanta per passare il turno: quando mancavano due minuti alla fine dell'incontro, sotto di un goal i rossoneri beneficiarono di una rimessa laterale grazie ad un pallone tirato volontariamente fuori dal campo di gioco dal nerazzurro Glenn Strömberg per consentire i soccorsi all'infortunato Borgonovo.
In occasione della successiva rimessa laterale Rijkaard non lo restituì direttamente agli avversari, porgendolo altresì a Massaro, il quale crossò al centro dell'area di rigore: lo stesso Borgonovo, ignaro dell'episodio precedente, nel tentativo di raggiungerlo venne atterrato da Barcella. La concessione del penalty scatenò le furibonde proteste dei padroni di casa, che non impedirono comunque a Baresi la realizzazione della rete del definitivo 1-1.

"Vergogna, mai vista una cosa simile. Ci vorranno tanti anni prima che il Milan riesca a recuperare un minimo di dignità, a rifarsi un'immagine. Una squadra che ha dato spettacolo in tutto il mondo non si comporta così", disse un affranto Strömberg. "Signori si nasce, ricchi si diventa", fu - invece - il commento sarcastico di Cesare Prandelli, all'epoca uno dei giocatori in forza agli orobici. Con un comunicato ufficiale la società rossonera espresse il proprio rammarico per quanto accaduto, professando la buona fede nel comportamento tenuto dai propri tesserati.

A distanza di anni Borgonovo, grazie all'aiuto della moglie, rivisitò quella giornata attraverso uno scritto esclusivo consegnato a "Sportmediaset": "Ricordo che a fine gara si scatenò l'inferno. I giocatori dell'Atalanta negli spogliatoi mi cercavano e ricordo che sul pullman la polizia ci chiese di non sederci vicino ai finestrini, tirare le tendine e sdraiarci a terra per evitare guai. In quanto a Mondonico, che voleva portarmi al Torino e che quella sera avrei dovuto incontrare a cena, mi scaricò. Chiedo scusa a Bergamo. Come disse Paolo Maldini nello spogliatoio: 'che figura di merda abbiamo fatto!'".

Franco Baresi, a caldo, si sfogò senza usare mezzi termini: "Se vogliamo cambiare il regolamento, nessun problema, però sino a prova contraria io sono un professionista. Sono pagato per segnare, quando è possibile. A parte il fatto che in tribuna c'era un esponente dell'ufficio inchieste, avrei cercato di trasformare il rigore anche se il mio allenatore mi avesse invitato a sbagliarlo". Rovistando nella memoria, tirò fuori un aneddoto riguardante un’altra partita disputata contro l'Atalanta (22 dicembre 1985, 1-1): "Segnò Simonini al 90', mentre Maldini era a terra infortunato. Allora nessuno si scandalizzò".

Chiuse con una dichiarazione che diventò subito "materiale" utile per aprire altri sondaggi: "La realtà è che in quel momento avrei voluto essere lontano mille miglia. Ma cosa potevo fare, far tirare a un altro? Bel capitano sarei stato. E poi adesso tutti sono scatenati, ma se fosse stata la finale di Coppa Campioni quanti avrebbero protestato?".
Ognuno, nel merito, si sarà fatto la propria opinione.

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mercoledì 20 aprile 2011

La Juventus e la mentalità vincente perduta



"La differenza tra Milan e Juve? Ibrahimovic". Si erano lasciati così, viola e bianconeri, al termine della partita disputata allo stadio "Olimpico" di Torino nel corso del girone d’andata. Le parole di Sinisa Mihajlovic, tecnico della Fiorentina, furono un vero e proprio attestato di stima nei confronti della formazione allenata da Del Neri. Era il 27 novembre del 2010. Sono trascorsi quasi cinque mesi da allora, ma sembra sia passata un’eternità.
La Vecchia Signora, dopo un avvio di stagione in sordina a causa degli effetti dell’ennesima rivoluzione estiva attuata in estate, aveva ottenuto il decimo risultato utile consecutivo in questo campionato e iniziava a mostrarsi sempre più ambiziosa. Al termine di quella giornata si ritrovò terza, a soli sei punti di distanza dai rossoneri in vetta alla classifica.

Passata in svantaggio a causa di un’autorete di Motta, riuscì a raggiungere i gigliati grazie al goal di Pepe su punizione nella seconda frazione di gioco. L’aspetto positivo di quella serata, esito finale a parte (l’incontro terminò col risultato di 1-1), fu rappresentato dalle dichiarazioni rilasciate nel dopo gara da parte di alcuni tra i protagonisti bianconeri. Si passò dal rammarico dello stesso Pepe per il mancato successo ("Stavolta ci serviva una vittoria con la Fiorentina per avvicinarci al Milan. Quando ho visto che il pallone entrava mi sono detto "sbrighiamoci a esultare e andiamo a vincere". E' ancora presto per parlare di scudetto, ma dobbiamo pensare in grande") al dispiacere del tecnico di Aquileia per aver sciupato una ghiotta occasione per avvicinarsi alla formazione di Allegri, fermata anch’essa a Genova dalla Sampdoria: "Per come abbiamo giocato sono due punti persi. La classifica in questo momento non ci interessa, ci deve interessare la prestazione. La classifica la guardiamo a maggio". Queste erano parole di chi non si accontentava di un pareggio, di un misero punticino.
Mihajlovic, conscio dei pericoli che Krasic avrebbe potuto creare alla sua squadra, chiese ai suoi uomini di sbarrargli la strada per tutti i novanta minuti di gioco, limitandogli notevolmente il raggio d’azione. Pasqual lo ammise ad incontro concluso: "Sapevamo che la Juve spinge a destra, abbiamo raddoppiato le marcature e limitato i danni".

Fiorentina e Juventus si sono ritrovate domenica scorsa dopo essersi rese protagoniste - nel frattempo - di un’altra annata fallimentare: i viola, ad oggi, hanno accumulato tre punti in meno rispetto a quanto fatto nel campionato precedente; i bianconeri, dal canto loro, uno soltanto in più. Le parole di Pepe, a gara terminata, questa volta avevano un sapore completamente diverso dal passato e rendevano omaggio ad una Vecchia Signora dall’atteggiamento eccessivamente prudente in una giornata nella quale il successo andava cercato a tutti i costi: "Un pò di rammarico c’è, ma con zero punti sarebbe stato peggio". Questa è la famosa teoria del bicchiere "mezzo pieno": quella con la quale si cammina, ma non si correrà mai.
Sotto la Mole passano i giocatori, i dirigenti, le persone, il club - invece - rimane. Così come la sua storia, le tradizioni e quella mentalità vincente alla base di tutti i propri trionfi. Essere riusciti a disperderla nel corso delle ultime stagioni rappresenta uno dei delitti più grandi da imputare alla proprietà del club. A Torino sono transitati negli anni campioni che non hanno avuto difficoltà nel riconoscere quanto appreso durante la loro militanza in bianconero: da Zinedine Zidane ("La mentalità vincente l’ho imparata alla Juve") a Pavel Nedved ("La Juventus mi ha dato tutto. Qui ho acquistato la mia mentalità vincente, quella che ti fa dire che ogni partita è una battaglia"), la lista è lunghissima.

In passato è capitato spesso che la formazione bianconera ad inizio campionato non presentasse in assoluto il miglior parco giocatori tra le squadre presenti ai nastri di partenza: in quei casi più volte sono subentrati aspetti umani e psicologici che le hanno consentito di colmare - o limitare - le lacune esistenti rispetto alle avversarie.

Non si potrebbe spiegare altrimenti come la Juventus allenata da Dino Zoff nella stagione 1989-90 riuscì nell’impresa di conquistare coppa UEFA, coppa Italia e di arrivare terza in classifica (a pari punti con l’Inter dei tedeschi di Trapattoni) dietro al Milan olandese di Sacchi e al Napoli di Maradona vincitore dello scudetto. Tricella, Nicolò Napoli, Galia, Angelo Alessio, Zavarov, Alejnikov, Marocchi, Dario Bonetti e Rui Barros: nessuno di loro era un fuoriclasse. Al tecnico bastarono pochi calciatori di valore in grado di giocare per mesi su altissimi livelli (come Schillaci, ad esempio) per costruire una squadra di successo. L’anno precedente, con una formazione tecnicamente più debole, si piazzò comunque quarta. Con avversarie, per inciso, di un livello tecnico nettamente superiore a molte di quelle con le quali deve confrontarsi la Juventus attuale.
Anche quando il vestito non era dei più belli, e la qualità scarseggiava, la Vecchia Signora non si faceva molti problemi: si sedeva comunque al tavolo dei vincitori e prendeva tutto quanto le era possibile racimolare in quel momento, non vergognandosi di raccogliere anche le briciole.

In un’intervista rilasciata a "La Repubblica" nel mese di ottobre del 1985, nel corso dell’ultima stagione trascorsa a Torino prima del suo approdo all’Inter, Giovanni Trapattoni raccontò alcuni aneddoti della sua esperienza nel mondo del pallone, sia come calciatore che da allenatore. Si scoprì così che aveva l’abitudine di portare avanti una tradizione che gli insegnò Nereo Rocco, ai tempi della sua permanenza al Milan: uscito Boniperti dagli spogliatoi, dopo aver provveduto a distribuire le magliette era solito mettere la mano sulla parete urlando "Ragazzi, siamo qui, ma dobbiamo arrivare quassù!", colpendo poi - con una manata - un punto superiore rispetto al precedente di una trentina di centimetri.

Alla Juventus attuale, ancor più che in passato, serve una robusta iniezione di uomini vincenti come lo furono loro, per ricreare nel tempo quella mentalità che le è sempre stata propria e che adesso è andata persa.
Ora non si cerchino più scuse: durerebbero soltanto qualche mese.
Il campo, d’altronde, non mente mai.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

venerdì 1 aprile 2011

Platini, Brio e la rimonta vincente sulla Roma



"Saranno loro a doversi preoccupare e non certo noi, anche perdendo avremmo sempre tre punti di vantaggio. Mercoledì è stato per la Roma solo un episodio negativo che tuttavia va ridimensionato, considerando che abbiamo incontrato una delle formazioni più forti d'Europa. La Juve sappia che il campionato è tutt'altra cosa". Con queste parole Franco Tancredi, portiere dei giallorossi, mise in guardia la Vecchia Signora in vista dell'imminente incontro che avrebbe opposto le due squadre allo stadio "Olimpico" domenica 6 marzo 1983. Reduce dalla sconfitta infrasettimanale contro il Benfica nella gara valida per i quarti di finale della coppa UEFA, la squadra di Nils Liedholm era finita nel mirino della critica. Al contrario di quanto era accaduto a Madama, vincente e convincente nella trasferta inglese in Coppa dei Campioni contro l'Aston Villa.

La Juventus, con nove gare ancora da disputare prima della conclusione del campionato, si trovava a cinque lunghezze di distanza dalla Roma prima della classe, all'epoca in cui per ogni successo venivano assegnati due punti. Un margine, questo, che consentiva al club giallorosso di conservare una relativa tranquillità in previsione del match clou della ventiduesima giornata. La capitale era pronta ad ospitare la sfida tra le due regine incontrastate del calcio italiano dei primi anni ottanta del vecchio secolo, una vera e propria sfilata di fuoriclasse ed un “duello nel duello” che stuzzicava la fantasia delle rispettive tifoserie: quello tra il brasiliano Falcao da una parte ed il francese Platini dall'altra. Il pareggio ottenuto in rimonta nella trasferta a Cesena all'inizio del girone di ritorno (dopo essersi trovata in svantaggio di due reti) dava alla Vecchia Signora la piena consapevolezza delle sue enormi potenzialità. Trapattoni si era convinto di poter schierare contemporaneamente Bettega, Paolo Rossi, Boniek e lo stesso Platini senza che ne risentisse l'equilibrio in campo della squadra. Il compito di proteggere la difesa, che poi era anche quella titolare della Nazionale azzurra fresca campione del mondo con la sola esclusione di Sergio Brio, era demandato a Tardelli e Bonini.

L’incontro si mostrò subito avaro di spunti degni di nota, fatta eccezione per una conclusione di Bruno Conti da fuori area, con Zoff a deviare in calcio d'angolo spingendo il pallone oltre la traversa. Per riassumere in poche parole la totale mancanza di emozioni che caratterizzò i primi quarantacinque minuti della partita può bastare la dichiarazione che Enzo Bearzot, c.t. dell'Italia Mundial, rilasciò durante l'intervallo ad un cronista: "Speriamo che la gara si accenda. Capisco che l'importanza della posta in palio è molto alta. Vedo che c'è molta volontà a centrocampo, buona anche qualche triangolazione. Però nessuna delle due squadre affonda con convinzione". Alla ripresa delle ostilità la Juventus rientrò sul campo con un atteggiamento decisamente più aggressivo, tanto che Platini al 13' finì per mettere involontariamente fuori causa Pruzzo a seguito di un duro contrasto di gioco. Al posto del bomber giallorosso entrò Iorio, cui Gentile diede subito il “benvenuto” con un rude intervento dopo pochi istanti dal suo ingresso. In occasione del conseguente calcio di punizione, mentre Madama preparava il cambio tra Boniek e Marocchino, un attimo di esitazione di Barbaresco, il direttore di gara, costò caro alla Vecchia Signora: dubbioso se procedere immediatamente alla sostituzione, diede il tempo a Conti di agire di sorpresa, calciando il pallone nella direzione di Falcao che di testa battè l'incredulo Zoff.

Passata in svantaggio in maniera rocambolesca, la Juventus scaricò tutta la rabbia accumulata riversandosi nella metà campo giallorossa: a Paolo Rossi e Platini vennero negati due possibili calci di rigore, mentre Tardelli e Scirea sfiorarono il goal dell’1-1. Sull'altro versante Iorio, servito da Ancelotti, venutosi a trovare a tu per tu con Zoff in posizione defilata, calciò a botta sicura, con la sfera che sfilò davanti a tutta la linea della porta senza entrare. Al 38' Platini impresse il suo marchio di fabbrica sulla partita. A seguito di un contrasto con Falcao e Conti ottenne la concessione di un calcio di punizione a ridosso dell'area di rigore dei padroni di casa: dalla sua zona prediletta disegnò un capolavoro che portò il pallone ad oltrepassare la barriera e ad infilarsi sotto l'angolo opposto a quello difeso da Tancredi. Ottenuto il pareggio, Madama non si accontentò: ancora il francese, elusa la tattica del fuorigioco messa in atto dagli uomini di Liedholm, si girò su se stesso a pochi metri dal numero uno giallorosso per crossare a centro area, dove Brio riusciva a spingere di testa il pallone in rete per l'incredibile vittoria in rimonta della Vecchia Signora. Sullo stadio calò il gelo: bissando il successo ottenuto al “Comunale” nel girone d’andata con lo stesso risultato, la Juventus era riuscita ad avvicinarsi in classifica a soli tre punti di distanza dalla Roma. Questo non servì ad impedire che lo scudetto si trasferisse nella capitale a fine campionato, salvo poi tornare nel capoluogo piemontese la stagione immediatamente successiva.

L'ultima annotazione della giornata riguardò l'autore del goal decisivo: a gara conclusa, mentre si dirigeva verso gli spogliatoi, Brio venne azzannato ad una coscia da un cane al guinzaglio di un agente del servizio d’ordine posizionato oltre i tabelloni pubblicitari. L'episodio gli provocò - fortunatamente - soltanto una ferita superficiale. Nelle interviste del dopo partita, stuzzicato su un possibile errore dell’arbitro in occasione del momentaneo pareggio bianconero, il presidente dei giallorossi Dino Viola chiuse con eleganza la questione: “No, non direi, anche se onestamente nessuno ha visto il fallo che ha portato alla punizione vincente di Platini. Tuttavia non intendo prendermela con nessuno. Si parla troppo di potere della Juventus e si dimentica una cosa importantissima: che la Juventus il potere ce l'ha qui, nella testa”.
Quella di una squadra vincente.

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venerdì 4 febbraio 2011

Zoff, compleanno con vittoria


Dedico questo mio articolo ad Antonio, e al suo blog Parata di Zoff

Per Dino Zoff quel Cagliari-Juventus in programma allo stadio "Sant'Elia" il 28 febbraio 1982 non poteva rappresentare una gara qualsiasi, visto che si trattava del giorno in cui avrebbe festeggiato il suo quarantesimo compleanno. "Non so cosa organizzeranno in campo per me", disse, "magari prima mi faranno una festa con i fiori, poi la festa con i gol. Otto anni fa giocai a Cagliari dopo tanti brindisi, a Torino mi era nato il figlio, l'antivigilia, perdemmo per due a uno, un tiro di Riva su punizione mi piegò le mani".
Alcuni bianconeri, tra i quali lo stesso portiere, avevano preso parte all'amichevole tra Italia e Francia disputata il mercoledì precedente la trasferta in Sardegna, una gara persa dagli azzurri per 2-0 (le reti furono realizzate da Platini e Bravo). Il conto alla rovescia per il Mondiale di calcio che si sarebbe disputato in Spagna era già iniziato, così come le critiche per una Nazionale troppo poco convincente per poter ambire ad una vittoria finale. Zoff le allontanò con decisione: "Noi non siamo quelli di Parigi, noi quando siamo veri, voglio dire. Adesso la nostra reazione sarà positiva, faremo gruppo, faremo quadrato, faremo famiglia con Bearzot, è accaduto anche nel passato. Prima dell'Argentina, nel 1978, ci furono gli stessi brutti risultati con lo stesso pessimismo e la stessa polemica".

Paolo Carosi, tecnico del Cagliari, per l’occasione dovette fare a meno di Selvaggi e Marchetti, veri e propri punti di forza dell’attacco e del centrocampo degli isolani; di contro la Juventus ovviò all’assenza dello squalificato Gentile schierando al suo posto Osti. Sergio Brio annullò sin dai primi minuti dell’incontro Piras, il terminale offensivo del gioco dei padroni di casa, mentre Furino - sulla linea mediana del campo - sopperì con la propria furia agonistica alla mancanza di freschezza atletica di alcuni compagni di squadra, specialmente quelli reduci dalla gara infrasettimanale con la maglia della Nazionale.
Il Cagliari avvertì subito di trovarsi di fronte ad una Vecchia Signora opaca e svogliata, reduce da tre vittorie consecutive in campionato e forse distratta dall’imminente derby con il Torino previsto per la domenica successiva. La aggredì, sospinto dal pubblico locale e guidato in campo da un ottimo Brugnera, ma nel momento di maggior pressione venne punita dagli ospiti al 27’ della prima frazione di gioco: da una punizione calciata dalla fascia sinistra da Cabrini scaturì un cross diretto verso l’area di rigore dei sardi, Virdis lasciò scorrere la sfera che finì a Tardelli pronto a battere Corti con un potente colpo di testa, con il pallone che passava sotto le gambe del portiere avversario.
I padroni di casa si riversarono nella metà campo bianconera nell’intento di arrivare immediatamente al pareggio. Con il trascorrere dei minuti, però, apparve sempre più evidente l’inconsistenza dei loro attacchi, tanto che Zoff non dovette eseguire un solo intervento in tutto l’arco della partita (“Mi hanno regalato — disse a fine gara — una giornata di riposo, mi sembra il minimo che potessero fare per un vecchietto come me, adesso spero che continuino così”). L’unico giocatore che provò ad impensierirlo seriamente fu Osellame, il centrocampista del Cagliari che al 10’ della ripresa provò ad imitare Tardelli, compiendo però l’errore di colpire con troppa forza la sfera che, una volta toccato il terreno di gioco, si impennò sorvolando la porta bianconera, con lo stesso Zoff che si limitava ad osservarne la traiettoria. E così, mentre dall’altra parte Galderisi e Virdis non riuscivano ad essere incisivi nelle loro sortite offensive e Marocchino continuava ad andare a corrente alternata, sempre Osellame - quando ormai si era arrivati a cinque minuti dalla fine della partita - con un potente rasoterra colpì il palo esterno, senza però preoccupare eccessivamente il numero uno bianconero attento nel seguire la direzione del tiro.

Terminato l’incontro, mentre i giocatori del Cagliari reclamavano nelle consuete interviste post gara l’assenza di fortuna a loro favore (alla quale addebitavano il mancato pareggio), un Furino ancora 'carico' di adrenalina rispose a tono: “Si vince, si prendono i due punti e si mettono in saccoccia. Non mi sembra che il Cagliari meritasse il pareggio. Quali occasioni da gol ha avuto? Quella di Osellame non conta perché c'era un fallo su Cabrini. Fortunati? La fortuna aiuta i forti, no?
Dopo aver sgomitato con la Roma ad inizio campionato, la Juventus si rese protagonista di un avvincente testa a testa con la Fiorentina: la situazione di equilibrio si ruppe all’ultima giornata, allorquando i viola pareggiarono proprio al 'Sant’Elia' per 0-0 e William 'Liam' Brady, su calcio di rigore, regalò a Catanzaro lo scudetto numero venti alla Vecchia Signora. Quello rappresentò l’ultimo dono di un gentiluomo del pallone prima che fosse costretto a lasciare Torino per far posto a Michel Platini e Zbigniew Boniek.
Nel giorno del suo quarantesimo compleanno a Zoff vennero elargite belle parole da tutto il mondo calcistico. Gilmar, portiere brasiliano, dichiarò: “Zoff tra i più grandi del mondo, se non il più grande, anche per come ha reagito alle critiche dopo il 'Mundial' in Argentina”. Il numero uno bianconero, lusingato per il giudizio, raccolse i complimenti e 'rilanciò': “Questo è niente, vedrete come reagirò alle critiche dopo il 'Mundial' in Spagna”.
Quel campionato che ancora non era iniziato, ma del quale aveva già previsto le roventi polemiche che si sarebbero scatenate.
E, forse, la vittoria finale dell’Italia.

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sabato 8 gennaio 2011

José Altafini e lo scudetto strappato dalle mani del Napoli

Al termine dell’incontro disputato allo stadio “San Paolo” di Napoli il 15 dicembre 1974 tra i padroni di casa e la Juventus, vinto poi dai bianconeri con il risultato tennistico di 6-2, José Altafini rilasciò questa dichiarazione: “Il primo goal l'ho segnato io. Il secondo è stato realizzato da Damiani su rigore, dopo che era stato commesso il fallo ai miei danni. Il terzo a Damiani l'ho offerto io. Il quarto, a Bettega l'ho offerto io. Il quinto a Causio l'ho offerto io ed il sesto è nato in seguito a una punizione per un fallo che era stato commesso ai miei danni. Che cosa potevo pretendere di più?”.
L’attaccante, di origini brasiliane poi naturalizzato italiano, non poteva sapere che qualche mese dopo, in occasione della gara del girone di ritorno giocata dalle due formazioni a Torino il 6 aprile 1975, con una rete realizzata a pochi minuti dal termine della sfida sarebbe riuscito addirittura a spegnere i sogni di scudetto dei rivali, nonché ex compagni di squadra (prima di approdare in bianconero era rimasto all’ombra del Vesuvio per sette stagioni). Proprio a questo proposito, nei giorni immediatamente successivi a quel match comparve su un cancello di accesso del “San Paolo” l’ormai famosa scritta “José core ‘ngrato”.
Altafini, quindi, assoluto protagonista di una partita nella quale gli uomini dell’allora tecnico Carlo Parola sfruttarono alla perfezione l’allegra applicazione del fuorigioco da parte dei campani. Il presidente del Napoli Corrado Ferlaino, un mese prima della gara, in risposta alla domanda di un giornalista sull’operato di Luis Vinicio, aveva detto: “Tutte le squadre da lui allenate in passato cominciavano bene, poi all'improvviso si fermavano. Non vorrei che stavolta si ripetesse col Napoli”.
Roberto Bettega, spostato qualche metro indietro rispetto alla sua abituale posizione di attaccante, lasciò allo stesso Altafini e a “Flipper” Damiani il compito di infierire sulla malcapitata difesa partenopea, prodigandosi in assist e giocate sopraffine per tutta la durata del match. A Fabio Capello, Furino e Causio venne demandato il compito di proteggere le retrovie bianconere, impedendo sul nascere le controffensive del Napoli all'altezza della linea mediana del campo.

Entrambe le formazioni erano reduci da impegni infrasettimanali in coppa UEFA, dato che il mercoledì precedente la partita si erano svolti gli incontri di ritorno degli ottavi di finale della manifestazione europea. I bianconeri erano riusciti a superare il turno ai danni dell'Ajax, mentre i campani erano stati eliminati ad opera dei cechi del Banik Ostrava. Nonostante la gara di andata si fosse conclusa con una sconfitta interna per 2-0, che aveva compromesso in maniera evidente la qualificazione ai quarti, Vinicio aveva deciso comunque di schierare quasi tutti i titolari a sua disposizione, tranne l’attaccante Clerici. L’unico che poi, la domenica, sarebbe riuscito ad opporre una valida resistenza allo strapotere juventino, realizzando le due reti per il Napoli (ad incontro ormai deciso), nel complesso di una prestazione macchiata da un rigore sbagliato, concesso dall’arbitro Agnolin dopo che lo stesso aveva ravvisato un tocco di braccio del bianconero Cuccureddu su un tiro scoccato da Esposito.
Per il resto, si trattò di un predominio juventino. Dichiarò Capello, dopo il match del 'San Paolo': “E' il nostro momento di grazia. Non abbiamo risentito delle fatiche di Amsterdam. Stiamo giocando tutti al nostro posto, tutti nel modo migliore. Si predicava tanto il gioco olandese e mi pare che, in quanto a schemi auspicati per le squadre italiane, noi siamo i primi”.
Assente il laterale sinistro La Palma, il tecnico dei partenopei decise di sostituirlo con Landini senza modificare l’assetto difensivo, imperniato su una costante ricerca della tattica del fuorigioco. L’errata applicazione dei corretti movimenti da parte dello stesso Landini fece sì che le offensive bianconere non venissero quasi mai interrotte dalla bandierina alzata del guardalinee. Per il Napoli si trattò della prima sconfitta stagionale dopo sei pareggi e tre sole vittorie nel corso delle prime nove gare di campionato. Il pubblico del 'San Paolo' nel corso della seconda frazione di gioco (sul risultato di 3-0 a favore di Madama) iniziò un fitto lancio di oggetti in campo: tavole di legno, bottiglie di vetro e altro ancora. Furino, colpito duro da un avversario e costretto a lasciare il posto a Viola, ebbe difficoltà a rientrare negli spogliatoi. Proprio una bottiglietta lanciata dal settore distinti colpì in testa uno dei due guardalinee, Sante Zamperi, quando mancavano ancora due minuti alla fine delle ostilità. Medicato dai sanitari del Napoli provò a riprendere il suo ruolo, con Agnolin che invertì la posizione dei due assistenti di gara nel tentativo di portarla a termine. Ciò non fu possibile, anzi: le intemperanze dei sostenitori aumentarono. Alla fine l’arbitro decise di concludere anticipatamente l’incontro. Fuori dallo stadio la protesta sfociò in ulteriori atti di vandalismo, con la polizia che faticava a placare gli animi bollenti dei tifosi locali. In merito a questi episodi Fabio Capello disse: “Io proprio non li capisco questi atti della folla. Stavamo vincendo largamente, dimostrando di meritare il successo. Che cosa volevano di più?

Boniperti si prodigò in elogi per Bobby-gol, nell’occasione orfano del compagno di reparto Pietro Anastasi: “Bettega è magnifico, si trova alla perfezione in quel ruolo. Però rimane utile anche come punta; anzi, per noi rimane una punta e basti vedere come ha fatto il suo gol. Una staffilata prepotente”.
A seguito di questa vittoria i bianconeri si trovarono a guidare la classifica con tre punti di vantaggio (all’epoca ne venivano assegnati due per ogni vittoria) su una coppia di inseguitrici formata da Torino e Lazio, detentrice dello scudetto. Alla fine del campionato per la Vecchia Signora arrivò il sedicesimo titolo.
Carlo Parola si prese una personale rivincita dopo la sfortunata esperienza alla guida della Juventus nella stagione 1961-62, quella passata alla storia come l’annata dei record negativi di Madama.
Prima che a Torino arrivasse Jean-Claude Blanc, pronto con il suo “progetto” a peggiorarli ad uno ad uno.

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sabato 20 novembre 2010

Aleinikov, Schillaci e lo sgambetto al "professor" Scoglio


Nei giorni precedenti l'incontro col Genoa un giornalista fece vedere a Sergej Aleinikov il suo taccuino, nel quale aveva disegnato uno schema della Juventus evidenziando la posizione da lui occupata in campo a seguito dell'assenza di Tricella e del conseguente arretramento di Daniele Fortunato nel ruolo di libero: centrocampista centrale, davanti alla difesa. "E' contento?", gli chiese. In tutta risposta il bielorusso si fece prestare la penna e si "spostò" più avanti: "Anch'io ho voglia di goal, anche se non ne ho mai segnati molti in carriera".

Il calcio italiano aveva iniziato nel modo peggiore la stagione 1989-90, quella che anticipava i secondi campionati mondiali disputati nel nostro paese: il 3 settembre 1989 Gaetano Scirea aveva perso la vita in un incidente stradale in Polonia. A Dino Zoff, confermato come tecnico alla guida della Vecchia Signora, in quell’occasione non venne a mancare soltanto l'allenatore in seconda della squadra, quanto - piuttosto - un amico vero. Per il popolo juventino era semplicemente "Gai", un campione inimitabile dentro e fuori dal rettangolo di gioco.

Il già citato Aleinikov andava a far compagnia all’altro sovietico, l'ucraino Aleksandr Zavarov, in una squadra che vedeva il suo terzetto straniero (il limite massimo tesserabile all'epoca) completato dal piccolo attaccante portoghese Rui Barros. Quella era una Juventus che, sulla carta, difficilmente avrebbe potuto competere sino in fondo al torneo per aggiudicarsi lo scudetto. Dopo un inizio stentato, però, in quella formazione successe quel "qualcosa" che anche i soloni del calcio non riescono mai a prevedere in anticipo: si creò quell'alchimia capace di trasformare una buona squadra in un gruppo vincente.

Il 22 ottobre 1989 la Vecchia Signora scese in Liguria, ospite del Genoa di Franco Scoglio, nel rinnovato "Luigi Ferraris" che proprio in quei giorni iniziava a mostrarsi in tutta la sua nuova bellezza dopo il completamento della ristrutturazione, in vista degli ormai prossimi campionati del mondo. La squadra del presidente Aldo Spinelli aveva puntato forte su un trio di uruguaiani (Perdomo, Paz, Aguilera), visto che non aveva potuto raggiungere uno degli obiettivi dichiarati nel calciomercato estivo: Sergej Aleinikov. Guarda caso.
La sconfitta finale del Genoa maturò proprio dal non aver potuto applicare la tattica in cui era particolarmente abile, il pressing sui portatori di palla avversari: gli uomini di Zoff aggredirono i grifoni in lungo e in largo per tutto il rettangolo di gioco, raccogliendo da subito i frutti di una gara affrontata con il piglio della grande squadra. Grazie ad una stupenda rovesciata sottomisura, istintiva come lo erano molte delle sue giocate, Salvatore "Totò" Schillaci portò in vantaggio la Juventus indirizzando in rete un cross proveniente da una punizione di De Agostini, la cui traiettoria era stata deviata dalle precedenti sponde di testa di Galia e del terzino destro Napoli. Pato Aguilera dopo pochi minuti – anche lui di testa - riportò la situazione in parità.

In tribuna, ad assistere alla partita, c'era Azeglio Vicini, commissario tecnico della nazionale italiana. Era venuto per osservare dal vivo tanto i giocatori già presenti nel suo gruppo quanto altri che nutrivano speranze di farne parte. Tra i quali, ovviamente, non poteva mancare l'attaccante siciliano della Juventus. "Vedrete Schillaci, sorprenderà tutti": così Giampiero Boniperti, presidente bianconero, aveva presentato il calciatore al palcoscenico della serie A ad inizio stagione. Per non deludere nessuno, a seguito di una bella triangolazione con Aleinikov proprio la punta siglò la sua personale doppietta con un tiro di destro in diagonale: 2-1.

Nel tentativo di appoggiare la palla in calcio d’angolo Daniele Fortunato fu l’autore del più classico tra gli autogoal, deviando – di testa, ovviamente - nella porta difesa da Tacconi un cross del genoano Fiorin. A fine gara il portiere bianconero confessò il contenuto della chiacchierata avuta col difensore negli attimi immediatamente successivi all’episodio: “Scherzosamente mi sono complimentato per la deviazione imparabile che aveva effettuato. Alla fine della partita, poi, è venuto a ringraziarmi”.
Il "professore" Franco Scoglio, squalificato, dopo aver assistito alla prima frazione di gara in tribuna d'onore si spostò nel corso della ripresa in quella di fronte, vuota perché non ancora aperta al pubblico. Aveva capito le difficoltà in cui versava la sua squadra, con la difesa retta dal solo Signorini e che mostrava i suoi punti deboli nelle deludenti prestazioni offerte da Perdomo e Caricola. L'allenatore genoano conosceva bene Schillaci, per averlo allenato a Messina. Aveva provato – tempo addietro - a portarlo con sé sotto la Lanterna, ma l'allora presidente Massimino si era rifiutato di farlo partire: se ne sarebbe privato solo al cospetto di un'offerta irrinunciabile da parte di una grande squadra.

Una deviazione di Aleinikov (raccogliendo un pallone scagliato in area da Marocchi) portò la Juventus nuovamente in vantaggio. Il successivo rigore calciato da Aguilera e parato da Tacconi chiuse definitivamente l’incontro. Ironia della sorte, furono proprio il centrocampista e Schillaci, fortemente voluti in passato dal Genoa, a decidere l’esito della gara.
Quella stagione, considerando le premesse iniziali, risultò poi essere ottima. A seguito del ribaltone targato Luca Cordero di Montezemolo Dino Zoff sarebbe però stato costretto ad abbandonare la Juventus a fine anno.
Nel momento dei saluti, dopo che Zoff e i suoi ragazzi avevano aggiunto nella bacheca bianconera una Coppa Italia e una coppa UEFA, oltre ad aver ottenuto il terzo posto in classifica (in coabitazione con l’Inter), è bello immaginare che lassù, da qualche parte, anche Gaetano Scirea stesse festeggiando le vittorie del suo amico.

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