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domenica 21 settembre 2014

Quali sono i 10 momenti che hanno caratterizzato la mia vita associata al calcio?


Qualche giorno fa, attraverso il mio profilo su Facebook, ho risposto a Giovanni Augugliaro, un amico "virtuale", che mi domandava (dopo aver esposto i suoi) quali fossero i 10 momenti che hanno caratterizzato la mia vita associata al calcio.

Ho deciso di pubblicarli anche qui, sul blog.
Eccoli:
1. La volta che ricevetti la foto autografata da Gaetano Scirea, con tanto di dedica. Chi la fece avere a mio padre gli raccontò un aneddoto: “Eravamo sugli spalti di un piccolo stadio per guardare una partita di ragazzini. Ce n’erano alcuni bravi e altri meno. Per lui no, non era così. Aveva una parola buona per tutti. Era semplicemente unico”;
2. La vittoria dell’Italia nel mondiale del 1982. Per me, come per molti juventini, quella è stata un’edizione indimenticabile;
3. La sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo. In quel preciso momento ho capito che puoi perdere anche se sei indiscutibilmente, incredibilmente più forte del tuo avversario;
4. La maledetta finale di Bruxelles. Non scrivo altro, anche perché scadrei nella retorica;
5. Quando Platini si sdraiò sul prato verde di Tokyo. In un solo gesto aveva riunito tutte quelle caratteristiche che, ai miei occhi, lo rendevano meraviglioso. Ah, per essere precisi: pochi istanti prima aveva realizzato un goal mostruoso, poi ingiustamente annullato;
6. L’esordio di Del Piero con la maglia della Juventus. Tra me e lui ci sono pochi giorni di “distanza”, siamo coetanei. In quel momento avevo intuito che quel ragazzino avrebbe accompagnato tanti momenti felici della mia vita;
7. La finale di Champions League vinta contro l’Ajax. Perché si è trattata di una gioia immensa, condivisa con la nonna materna che non c’è più;
8. Il gesto sportivo di Pessotto nel corso della gara persa a Perugia, nella risaia che aveva sostituito il campo di gioco. Quello, per me, è lo stile Juve;
9. Lo scudetto vinto il 5 maggio 2002. In quel preciso istante mi trovavo alle Maldive. Pochi minuti prima dell’inizio delle gare un colpo di vento ruppe l’antenna centrale. Tutti nella hall, quindi, per seguire via internet gli aggiornamenti. Al primo goal segnato dalla Lazio stavo per sedermi su una panchina di legno. Decisi di rimanere in quella posizione, scomodissima, per quasi un’ora e mezza, intervallo compreso. Scaramanzia, of course. Poi, come promesso ad un conoscente interista prima di partire per la vacanza (“Non succede, ma se succede… “), mi feci dare un bicchiere di latte per poi andare da solo sul pontile, a ballare come fece Leonardo Pieraccioni in “Fuochi d’artificio”. Tornato in camera, scagliai i cuscini a destra e a manca. Spesi 18 dollari per chiamare in Italia, mia madre mi disse che aveva ricevuto almeno 12 telefonate di amici che le chiedevano cosa cazzo ci facessi alle Maldive in quel momento;
10. La serata nella quale conquistammo matematicamente il primo scudetto dell’era-Conte. Dopo tanti anni passati ad accumulare rabbia, a domandarmi come avrei reagito in futuro di fronte alla prima vera gioia, ho fatto la cosa che meno mi aspettavo: ho stappato una birra e l’ho bevuta con calma, guardando i giocatori in televisione che festeggiavamo all’impazzata. Stavo piangendo. Di gioia, ovviamente.

sabato 18 agosto 2012

Intervista a Darwin Pastorin


Darwin Pastorin, scrittore e giornalista sportivo di lunga militanza con esperienze dirigenziali maturate all'interno di alcune tra le principali redazioni giornalistiche e televisive italiane, ha concesso un'intervista in esclusiva per "Pagina". I temi affrontati? Diversi, con un unico comune denominatore: il calcio. Da quello "parlato" a quello "giocato", passando attraverso la sua Juventus e le emozioni che questo sport meraviglioso continua a regalare.

Il Paris Saint-Germain ha stravolto il mercato del pallone con una campagna acquisti faraonica, Real Madrid e Barcellona stanno puntellando le rose stellari a loro disposizione con innesti mirati, Chelsea e Manchester United si sono ulteriormente rafforzate. Senza contare che presto arriverà il turno del City e del Bayern Monaco... Secondo lei di quanto è aumentato il divario tra i maggiori club europei e quelli italiani?

Di molto, anche perché da tempo l’Italia non rappresenta più l’elettorato del calcio. Se penso agli anni ’80 vedo un’Italia in grado di dominare l’Europa dal punto di vista del pallone. In quel periodo, tanto per fare qualche esempio, arrivarono da noi Maradona, Zico, Platini, Falcao e Rummenigge. Senza dimenticare che nella serie A giocavano i nostri nazionali campioni del mondo. Quello era un paese che poteva garantire da un lato la qualità e dall’altro una forza economica senza precedenti. Col tempo le cose sono cambiate, ed altre nazioni hanno preso quell’egemonia. A cominciare, come hai detto tu, dall’Inghilterra, dalla Spagna e ora anche da questo fenomeno che è il Paris Saint-Germain. Con una nota, però…

Quale, mi scusi?

Non basta comprare grandi giocatori per fare una grande squadra. Ricordo, per citare un caso, che la Juventus vinse uno scudetto guidata da Trapattoni con buoni calciatori e qualche fuoriclasse, presentando in attacco Fanna, Virdis e Marocchino. Nella prima partita del campionato francese il Paris Saint-Germain, in casa, ha pareggiato a fatica 2-2. E’ ovvio che la situazione del nostro paese dal punto di vista sociale ed economico incide anche sul calcio: nessuno si può più permettere quelle “follie” che – oltretutto - striderebbero con le fatiche che fanno gli italiani comuni ad arrivare a fine mese. I nuovi investitori sono diventati i russi, gli arabi, i quali investono sul “giocattolo” calcio, fenomeno che da noi oggi non esiste.

Gianluigi Buffon, nella giornata dedicata al tradizionale vernissage bianconero a Villar Perosa, ha dichiarato: "Rispetto alle altre Juventus in cui ho giocato questa in Champions League parte avvantaggiata perché gioca un bel calcio, ed in Europa è un aspetto che conta molto. E siamo più forti dell'anno scorso". A suo modo di vedere quali potrebbero essere le prospettive della Vecchia Signora nella prossima edizione della massima competizione continentale?

Io do ragione a Buffon. La Juventus ha appena vinto uno scudetto senza mai perdere una partita, visto che l’unica sconfitta è avvenuta in Coppa Italia contro il Napoli. Si è rinforzata e - lasciando perdere per un attimo la serie A - mi ripeto: non basta comprare grandi giocatori per essere vincenti e potersi assicurare una gloria infinita. La finale della scorsa Champions League è stata disputata da Chelsea e Bayern Monaco, non da Real Madrid e Barcellona. Credo che la Juventus abbia buone possibilità: ha un allenatore che può garantire gioco e spettacolo, che è riuscito ad amalgamare bene anziani e giovani ed i nuovi arrivati – come Asamoah – promettono bene. Teniamo conto, poi, che il mercato non è finito: potrebbero esserci delle sorprese.

Torniamo in Italia, ai fatti di casa nostra e a quanto è recentemente accaduto a Pechino. Mi può dare la sua opinione circa l'assenza dei tesserati del Napoli al momento della premiazione della Juventus per la vittoria nella Supercoppa Italiana?

E’ stata una figuraccia a livello mondiale. Oltretutto a non meritare questa pessima figura sono sia il Napoli che Napoli, intesa come città. Puoi recriminare quanto ti pare, questo fa parte delle regole del gioco, però proprio le Olimpiadi hanno dimostrato che anche con il diavolo in corpo ti devi presentare alla cerimonia della premiazione. Si tratta di una forma di rispetto universale. Abbiamo dato un’immagine negativa a Pechino, di fronte agli occhi del mondo intero. Mi aspettavo delle scuse da parte di De Laurentiis, ma a quanto pare non sono ancora arrivate.

Andrea Agnelli ha recentemente definito la giustizia sportiva "inadeguata, vetusta e contraddittoria", parlando di un "sistema dittatoriale che priva la società e i suoi tesserati di qualsivoglia diritto alla difesa e all'onorabilità". Sono parole molto forti. Al suo posto si sarebbe espresso in questa maniera?

Capisco la presa di posizione di Andrea Agnelli. Si tratta di un presidente che ha saputo dare alla Juventus un volto nuovo, positivo, ha fatto sì che con lo stadio di proprietà il club diventasse un esempio in campo internazionale (visto che molti ora lo vogliono copiare, non soltanto in Italia). Il museo, poi, è diventato un punto di riferimento anche per tanti turisti che vengono a Torino. Deve fare i conti col passato, col 2006 e con la situazione che vede coinvolto non il club bianconero quanto alcuni suoi tesserati, per fatti accaduti quando militavano in altre società. Per arrivare al punto, parto da una considerazione molto semplice: bisogna avere fiducia nella giustizia e affrontare i processi a testa alta. Alla fine la verità verrà fuori. Abbiamo visto scagionati Bonucci e Pepe…

E Antonio Conte?

Alla fine riuscirà ad uscire bene anche Antonio Conte. Lo conosco da quando era giocatore: è sempre stata una persona dotata di carattere, determinata, sempre nel rispetto delle regole del gioco. Ha sempre voluto vincere, lealmente.

Poco meno di un anno fa, nel corso di un'intervista rilasciata al sito "Obiettivo Sport", lei aveva dichiarato: "Continuo a credere nella nuova Juve e nel carattere e nella competenza di Antonio Conte, bianconero nel cuore, nelle vene, nell’anima. E’ una Juventus da scudetto. Senza ‘se’ e senza ‘ma’". Dopo i due precedenti settimi posti consecutivi cosa la spingeva a riporre così tanta fiducia nelle possibilità di successo del club juventino?

Ho visto nascere la nuova Juventus mattone dopo mattone, con Andrea Agnelli nel nome del padre e dello zio, con la scelta di un allenatore come Conte, con la forza di quei giocatori rimasti anche dopo il 2006… Ho avuto la sensazione, più che una chiaroveggenza, di una squadra che potesse lasciare un segno in quel campionato. Ho notato di nuovo una società con la voglia di vincere, senza fare progetti triennali. Anche la vicinanza espressa più volte in questi momenti difficili al tecnico è una chiara dimostrazione della forza ritrovata.

In diverse occasioni, nel passato, ha definito Diego Armando Maradona "il più grande giocatore di tutti i tempi". Avendo avuto l'occasione di conoscerne tantissimi dal vivo, ce n'è qualcuno in particolare al quale è rimasto maggiormente affezionato dal punto di vista umano? Se sì, per quale motivo?

Mi ripeto: Maradona, che ho avuto modo di conoscere anche al di fuori del campo. L’ho definito “il Borges del calcio”. Ma poi ce ne sono altri… Ad esempio Pietro Anastasi, che era l’idolo della mia giovinezza, ed ora è diventato un amico ed un’opinionista a “Quartarete TV” assieme a José Altafini. Ci sono pure i miei connazionali Junior e Zico, campioni di classe, simpatia, professionisti esemplari. Per non parlare di tutta la generazione di miei coetanei che hanno vinto in Spagna nel 1982. Soprattutto di chi non c’è più, come Gaetano Scirea, che per me rimane l’esempio da seguire nei secoli dei secoli: non è mai stato espulso, ed è stato ammonito una sola volta per essersi mosso in barriera.

Scirea…

E’ un’assenza che sento ancora molto, perché era veramente una persona speciale. Sono rimasto legato alla moglie Mariella e al figlio Riccardo. Dico che Scirea dovrebbe entrare nei libri di scuola. Quando vogliamo raccontare i personaggi che hanno fatto bella l’Italia… ecco, secondo me bisognerebbe ricordare Gaetano.

Lei è sempre stato un difensore del calcio romantico. Quanto spazio ritiene possa ancora ritagliarsi un sentimento così nobile in un mondo del pallone come quello attuale?

Ogni volta che ricomincia la partita si riaccende la magia del calcio: un giovane che riesce a farsi valere, un debuttante che si fa onore, un dribbling riuscito, la parata all’incrocio dei pali, la rovesciata che sembrava impossibile… Ecco, il calcio ha la fortuna di rinnovarsi sempre, al di là delle malefatte di alcuni. Quando parliamo del marcio in questo sport discutiamo di un ristretto numero di persone, non della maggior parte, ma di gente che ha barato al gioco più bello. Per il resto, il calcio rimane per me la giovinezza ripresa per mano. Durante una partita ripenso a quando ero bambino e andavo a vedere la Juventus in curva Filadelfia con la bandierina in mano, le ore di attesa sotto la pioggia, con il vento, la neve… E poi, quando i giocatori entravano in campo, cominciava quel “miracolo” chiamato calcio. Oppure le partite ascoltate alla radio, se la tua squadra giocava in trasferta… Le voci di “Tutto il calcio minuto per minuto”: Sandro Ciotti, Enrico Ameri…

Bei tempi…

Per me resta sempre lo stesso sport, anche con l’avvento delle televisioni, delle telecamere nello spogliatoio, dei primi piani sugli allenatori. Il calcio per me significa ritornare giovani, mantenere fede a quello che sei stato, alle tue passioni, alle tue emozioni, alla tua gioia di vivere, ai tuoi sogni.

Date le sue origini brasiliane, ed escludendo Sua Maestà Pelé, quale giocatore considera il più rappresentativo della storia della Nazionale verdeoro?

Il giocatore simbolo del calcio brasiliano in senso universale per me è stato Garrincha, al quale dedicai un libro (“Ode per Mané. Quando Garrincha parlava ai passeri”, ndr). Era un calciatore straordinario: nato con la poliomelite, ingenuo, capace con una finta sola di ingannare qualsiasi rude difensore. Ancora oggi, pensa, i poveri brasiliani al nome di Garrincha si commuovono, perché rappresentò il riscatto dalla povertà. Il presidente Lula, nel momento in cui venne eletto, nel suo primo discorso tra i grandi del Brasile ricordò proprio Garrincha.

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domenica 28 agosto 2011

La Juventus tra lo sciopero e l'esordio col Parma


Per un calcio italiano che continua a fare la conta dei suoi problemi e che misura ripetutamente la distanza che lo separa da chi l’ha superato nel corso degli ultimi anni in termini di competitività, credibilità, audience e spettacolarità, non poteva certo mancare lo sciopero come ciliegina finale su una torta indigesta.

Il fatto, poi, che venga (spesso) utilizzata quella parola per definire lo slittamento della prima giornata della serie A provoca ancora più rabbia in quei tifosi innamorati del pallone costretti da tempo a sopportare e subire passivamente ogni tipo di delusioni e decisioni, e che poche volte vengono realmente ricompensati da "quel mondo" per la loro passione.

Cresce il disgusto tra gli amanti di questo sport, inizia il tam tam tra i sostenitori delle varie squadre per organizzare forme di protesta unitarie, un intero paese si indigna per quanto accaduto, e quando capita sotto mano la prima occasione per dare una dimostrazione di tutto ciò uno stadio intero si riempie di tifosi pronti ad acclamare i loro beniamini: è accaduto a Napoli, dove gli striscioni contro i milionari scioperanti hanno fatto da cornice ad un’amichevole tra il club campano e il Palermo di Maurizio Zamparini. L’ingresso era gratuito, c’erano 60.000 persone festanti sugli spalti, non sono mancati i fuochi d’artificio, una benedizione ad opera del cardinale Sepe e la presentazione del nuovo acquisto Goran Pandev. A Milano, intanto, altre 8.000 (paganti) erano presenti a Monza per studiare la nuova Inter di Gasperini, un migliaio si trovavano nel centro sportivo di Casteldebole per l’amichevole del Bologna, e via discorrendo. Il risultato? Di questo passo verrà ingoiato presto anche l’ennesimo boccone amaro.

"Ripartiamo da zero, ripartiamo dalle ceneri". Queste parole potrebbero essere usate come slogan per sintetizzare la situazione attuale, in realtà Gianluigi Buffon le ha pronunciate pochi giorni fa per mettere in chiaro ciò che ormai è noto a tutti da tempo: i settimi posti collezionati da Madama nelle ultime due stagioni sconsigliano proclami e impongono realismo.

Verso la metà del mese di luglio, durante il ritiro di Bardonecchia, raccolta la richiesta di aiuto da parte di Antonio Conte che individuò in lui, Del Piero e Pirlo quei campioni carismatici e vincenti in grado di prendersi le maggiori responsabilità nei momenti difficili all’interno del gruppo bianconero, lanciò la carica: "Il fatto che gli ultimi due campionati dicano che ci sono sei squadre più forti della Juve deve far scattare dentro di noi la molla giusta per tornare ad essere competitivi e dimostrare che prima è stata soltanto sfortuna".

Sottinteso che due fallimenti consecutivi non possono essere addebitati alla sola malasorte, anche lo stesso portiere juventino ha vissuto di recente una situazione personale particolarmente difficile a Torino. Risale allo scorso 14 maggio una dichiarazione di John Elkann che, rispondendo ad una domanda circa le probabilità della permanenza sotto la Mole del giocatore posta da uno studente durante il convegno "Crescere tra le righe" (organizzato alle porte di Siena), disse: "Buffon? E’ un anno e mezzo che non sta giocando". Il portavoce del numero uno di Fiat ed Exor si affrettò a precisare che alla frase mancava la parola "purtroppo", il numero uno bianconero prese atto della sostanza della stessa: passata la tempesta si è poi "risposato" con la Vecchia Signora, continuando - così - il matrimonio decennale con il club.

Quelli erano i momenti che precedevano la gara disputata dalla Juventus al "Tardini" contro il Parma di Giovinco, penultima tappa del martirio, monopolizzati dalle ferme convinzioni di Luigi Del Neri ("Non c’è la controprova che agendo in modo diverso le cose sarebbero cambiate"), alle quali susseguirono - racimolata la decima sconfitta in serie A - le parole di resa di Chiellini: "Non siamo mai stati una squadra".

L’analisi più dura, però, fu quella del Presidente Andrea Agnelli: "C’è tanta delusione perché alla fine di questo campionato è emerso che una serie di giocatori arrivati non hanno capito cos’è la Juventus e i giocatori che avevamo lo hanno dimenticato".

Più che la semplice presa di coscienza del settimo posto conclusivo, agli uomini di Conte sono queste le considerazioni che dovranno servire da monito (e da stimolo) per iniziare al meglio la loro nuova avventura. Che, con ogni probabilità, comincerà nel nuovo stadio torinese proprio (e ancora) contro il Parma. Sciopero permettendo, ovviamente.

Tra i cinquanta campioni bianconeri scelti dai tifosi ai quali sono state dedicate altrettante stelle presenti nell’impianto che verrà inaugurato a breve, figura anche il nome di Gaetano Scirea. Anni fa, dopo aver festeggiato in discoteca con i compagni la conquista del sedicesimo scudetto della Vecchia Signora, il libero uscì dal locale all’alba per cercare un’edicola. Ne vide una accanto alla fermata di un tram, dove gli operai attendevano il mezzo per andare a lavorare. Lui indossava ancora l’abito da sera, e per pudore e rispetto verso quelle persone fece marcia indietro e tornò a casa.

Nel descrivere Scirea la moglie raccontò che in molte occasioni il marito tornava a casa con persone sconosciute: "Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve e ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa".
Non serve aggiungere altro. Chi vuol capire, capisca.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com


venerdì 8 aprile 2011

"Le Roi" Platini e il poker al Genoa di Briaschi



“Una macchina da gol”. Tra le tante definizioni che si possono scegliere per descrivere la Juventus che vinse il ventunesimo scudetto della sua storia nel corso della stagione 1983-84, questa è quella che con ogni probabilità più le si addice: 57 reti realizzate su 30 gare affrontate in quel campionato, una media vicina a due marcature per ogni incontro disputato. Dopo i risultati negativi conseguiti l’anno precedente, con il tricolore perso dopo un avvincente duello con la Roma di Falcao e la coppa dei Campioni sfuggita ad Atene per opera dell’Amburgo, la Vecchia Signora si era immediatamente ripresa lo scettro della più bella del reame.

In una squadra infarcita di fuoriclasse e all’apparenza priva di punti deboli splendeva la stella di Michel Platini: fresco vincitore della classifica capocannonieri al primo tentativo dopo il suo arrivo in Italia, non smise più di segnare, confermandosi il vero trascinatore di una straordinaria rosa di giocatori creata da Boniperti (dietro la scrivania) e plasmata sul campo da Trapattoni. Al giro di boa del campionato la Juventus affrontò il Genoa guidato da Luigi Simoni, ospite allo stadio “Comunale” di Torino l’8 gennaio 1984. Il fuoriclasse francese sino a quel momento aveva messo il proprio nome nel tabellino dei marcatori ininterrottamente da sei gare: per non perdere il vizio del gol, anche con i rossoblù appose la sua firma nella rete del vantaggio iniziale della Vecchia Signora.

Al 23’ Madama beneficiò di un calcio di punizione vicino al limite dell’area di rigore avversaria, dal lato opposto rispetto alla zona prediletta dal suo numero dieci: Tardelli toccò la palla verso il centro, scartando l’opzione di passarla a Cabrini e Penzo appostati accanto a lui, con Platini che riuscì a cogliere di sorpresa Martina tirando improvvisamente verso la porta dei rossoblù. Trascorsi soltanto sei minuti, Massimo Briaschi (attaccante dei liguri prossimo a trasferirsi sotto la Mole alla corte della Vecchia Signora) siglò il pareggio approfittando di una dormita generale della difesa juventina, eludendo l’intervento di Brio e battendo Bodini con una conclusione di sinistro non certo irresistibile. Invece di demoralizzarsi Madama trovò subito (al 33’) la forza di segnare nuovamente: Rossi crossò al centro per Cabrini che di testa anticipò Bergamaschi e l’estremo difensore genoano. Sul 2-1 per i padroni di casa si chiuse la prima frazione di gioco.

Trascorso un quarto d’ora dall’inizio della ripresa, i liguri riuscirono nuovamente ad agguantare la Juventus: Paolo Benedetti, anche lui con un colpo di testa, bruciò sul tempo Scirea sfruttando alla perfezione un traversone di Policano. Le continue disattenzioni del pacchetto arretrato della Vecchia Signora (dieci reti subite nel corso delle ultime sei gare) irritarono Umberto Agnelli, che a fine incontro dichiarò: “Troppe distrazioni difensive: speriamo che d'ora in poi la Juventus possa essere più attenta”. Tre minuti di attesa e la macchina da gol bianconera si rimise nuovamente in moto: Platini subì un fallo a seguito di un contrasto con Eloi, nella successiva punizione Penzo – ricevuto il pallone da Cabrini – infilò Martina con un tiro che andò a infilarsi direttamente nel “sette”. Per dare maggiore vivacità alla manovra ed evitare ulteriori cali di concentrazione Trapattoni decise di sostituire Boniek con Vignola: il pubblico presente al “Comunale” lo stava richiedendo con forza da diversi minuti, e proprio per non demoralizzare ulteriormente il polacco (che da tempo viveva una situazione di difficoltà) il tecnico era rimasto dubbioso sino all'ultimo istante se procedere o meno al cambio. Così come accaduto in alcune gare precedenti la mossa portò subito beneficio: Platini avanzò di qualche metro il raggio d'azione avvicinandosi alla porta avversaria, e la squadra macinò gioco senza più interruzioni.

Lo stesso francese al 75' conquistò un penalty dopo essere venuto a contatto con Faccenda, cadendo insieme a lui in area di rigore nel tentativo di raggiungere un pallone lanciato da Rossi. La concessione della massima punizione fece arrabbiare gli ospiti, tanto che Luigi Simoni, alla fine delle ostilità, ebbe a dichiarare: "Dopo il nostro secondo pareggio la Juventus è tornata subito in vantaggio. Ma la partita era ancora aperta come ha lasciato intravedere la palla del tre a tre capitata a Policano. E invece ecco il rigore per un fallo che voglio proprio rivedere in quanto a me non è sembrato tale". A suo modo di vedere, comunque, la Vecchia Signora era la principale candidata alla vittoria dello scudetto: "Può sempre trovare il gol in mille maniere". E con diversi giocatori: dopo essersi procurato il rigore il francese lasciò l'incombenza a Rossi, nella giornata in cui Zico, il brasiliano acquistato dall'Udinese, lo raggiungeva nella classifica marcatori. Questo non gli sarebbe bastato per superare il fuoriclasse bianconero a fine stagione: con venti realizzazioni su ventotto partite da lui disputate arrivò primo nella speciale graduatoria davanti all'asso dei friulani, fermo a quota diciannove. Con il successo sui grifoni Madama chiuse il girone d'andata in vantaggio di due punti sui cugini granata, per poi conquistare il tricolore in primavera mantenendo lo stesso vantaggio in classifica sulla Roma.

Nei giorni immediatamente successivi l'incontro con i grifoni tenne banco il dualismo tra Boniek e Vignola, tanto che iniziarono a farsi sempre più insistenti le voci che volevano la Juventus interessata a Karl-Heinz Rummenigge e Bryan Robson per colmare la casella del secondo straniero utilizzabile in caso di rinuncia al polacco. A fine anno Madama sarebbe riuscita a trionfare anche nella coppa delle Coppe, sollevata a Basilea dove vinse la finalissima disputata contro il Porto (16 maggio 1984). Le reti con le quali la formazione bianconera piegò gli avversari furono segnate proprio da Boniek e Vignola, che quella sera Trapattoni schierò entrambi sin dall'inizio della gara nella formazione titolare.

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venerdì 14 gennaio 2011

Platini e la sua prima tripletta italiana al Bari

La stagione 1985-86 fu per la Juventus l’ultima con Trapattoni allenatore e la penultima di Michel Platini in campo con la maglia bianconera. Soprannominato “le Roi”, il francese era arrivato a Torino nell'estate del 1982 al tramonto del Mondiale spagnolo vinto dall’Italia, appropriandosi dello scettro di miglior realizzatore della serie A per i suoi tre primi campionati e spodestando così dal trono il precedente capocannoniere Roberto Pruzzo, “O' Rey di Crocefieschi” (il quartiere di Genova dove è nato). Per vedere una tripletta di Michel, però, si dovette attendere sino al 20 ottobre 1985, quando allo stadio "Comunale" la Vecchia Signora sconfisse il Bari per 4-0, inanellando la settima vittoria consecutiva in tutte le gare da lei disputate dall'inizio dell'anno ed uguagliando in tal modo il suo precedente record risalente alla stagione 1976-77, conclusa con le conquiste dello scudetto (51 punti accumulati dai bianconeri sui 60 disponibili, quando ancora ne venivano assegnati due per ogni successo) e della prima coppa UEFA vinta a Bilbao.

La squadra pugliese allenata da Bruno Bolchi quella domenica si presentò al cospetto della Juventus con un atteggiamento sin troppo prudente, comprovato dalle marcature a uomo sull’avversario diretto scelte dal suo tecnico in quasi tutte le zone del campo. Madama, campione d'Europa in carica e prossima a diventarlo anche del mondo, iniziò da subito un vero e proprio tiro al bersaglio verso la porta difesa da Pellicanò. Riuscì a raccogliere i risultati di quanto seminato quando ormai si era giunti al termine della prima frazione di gioco: un lancio di Cabrini dalla metà campo sfuggì in maniera goffa al controllo del barese Sola, lasciando la possibilità a Platini di scoccare un destro imparabile. Tacconi, spettatore non pagante per tutta la durata dell'incontro, dovette compiere un unico intervento in un’ora e mezza di gioco, una semplice uscita di pugno per anticipare un tentativo di conclusione di Rideout su un cross effettuato da Sclosa.
Un’autorete di Gridelli aprì le danze nella ripresa, consentendo alla Juventus di camminare sul velluto per tutta la restante parte della gara. Sfortunato protagonista per gli ospiti, il difensore venne sostituito di lì a poco da Bolchi con Carboni, senza che la mossa potesse sortire effetti particolari nel prosieguo dell'incontro. Platini, nel frattempo, continuò il suo show: al 63’ Mauro indirizzò verso l’area di rigore barese un pallone che, grazie ad un velo di Serena, arrivò al francese il quale con una finta rientrò di destro liberandosi di Loseto per poi trafiggere Pellicanò col piede sinistro. Scirea dovette abbandonare il campo a causa di una fastidiosa tendinite divenuta insopportabile col trascorrere dei minuti; Favero andò così ad occupare il ruolo di libero rimasto vacante, con il neo entrato Pioli che si francobollò a Bivi, autore di una partita anonima tanto quanto il compagno di reparto Rideout, tenuto a bada da Brio.
Quando ormai mancavano pochi minuti al termine dell’incontro un cross di Cabrini divenne preda nuovamente del numero dieci bianconero dopo uno scontro di gioco tra Pacione (subentrato a Laudrup) e Pellicanò, che impedì ad entrambi di impossessarsene: stavolta la soluzione vincente scelta dal fuoriclasse fu una mezza rovesciata, con la quale indirizzò la palla nella porta rimasta sguarnita.
Autore di una prestazione eccellente, nell’intervista post-gara Platini si mostrò prudente sul futuro di Madama nel campionato: “Questi record non hanno importanza. Adesso ci aspettano partite difficilissime e sarà proprio in occasione di quelle verifiche che dovremo confermare tutte le nostre doti”.
La Vecchia Signora in estate si era rifatta completamente il look, tanto da rendere difficilmente ipotizzabile la possibilità che Trapattoni riuscisse ad amalgamare molti elementi nuovi in così poco tempo: arrivarono contemporaneamente Massimo Mauro, Lionello Manfredonia, Michael Laudrup e Aldo Serena, con l’attaccante di Montebelluna che prese il posto di Paolo Rossi trasferitosi al Milan. Sbancando Udine la domenica successiva Madama portò il numero delle vittorie consecutive iniziali ad otto, per poi cadere a Napoli il 3 novembre 1985 in occasione del confronto diretto tra l’asso transalpino e il futuro re del calcio: Diego Armando Maradona.

I timori di Platini avrebbero avuto un loro riscontro a stagione inoltrata, visto che la Juventus sarebbe stata raggiunta dalla Roma di Eriksson a due sole giornate dalla conclusione del campionato. L’ombra dello spareggio sembrava essere ormai sempre più lunga, quando il 20 aprile 1986 accadde che un incredibile harakiri dei giallorossi in casa contro il Lecce spianò la strada verso il ventiduesimo tricolore agli uomini di Trapattoni, usciti nel frattempo vittoriosi dall’incontro al “Comunale” con il Milan. Giunse così un altro trionfo per la Vecchia Signora, per la gioia dei milioni di tifosi bianconeri sparsi per il mondo e la rabbia di chi, come Franco Zeffirelli, proprio non riusciva a digerirne i successi.
Proprio in occasione dell’incontro con il Bari dalla curva Filadelfia stracolma di sostenitori juventini comparvero striscioni e si levarono cori irriverenti nei confronti del regista fiorentino, condannato pochi giorni prima dal tribunale a pagare una multa di trentadue milioni di lire (risarcimento danni e multa) per le calunnie rivolte al club torinese. L’Avvocato Agnelli, intervistato durante l’intervallo di quella gara, si disse dispiaciuto per l’accaduto. La stima che nutriva verso l’uomo era nota a tutti, tanto quanto il disappunto per le sue considerazioni in ambito sportivo. Così come ebbe modo di sostenere in una delle dichiarazioni passate ormai alla storia: “È un grande regista. Ma quando parla di calcio non lo sto nemmeno a sentire

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venerdì 19 novembre 2010

Un altro anno è passato...

Ho iniziato così, per caso, il 19 novembre 2007, celandomi dietro lo pseudonimo di “zebrabianconera10”.
Prima un blog, poi un altro.
Alla fine, “costretto” ad uscire alla scoperto con il mio nome e cognome, ne ho creato un ultimo: questo.
Ogni anno scrivo qualcosa di particolare per festeggiare questo momento.
Oggi mi limito a dire che “casualmente” l’anniversario coincide con il mio compleanno.
Quello vero.

Scrivo perché mi diverte.
Mi diverto perché scrivo della Vecchia Signora.
Scrivo della Vecchia Signora perché la amo.

La Juventus è la compagna della mia vita... Soprattutto un'emozione. Accade quando vedo entrare quelle maglie in campo... Mi emoziono anche quando vedo la lettera J in qualche titolo di giornale. Penso subito alla Juve” (Gianni Agnelli)

Mi dispiace per chi non è juventino: non può capire cosa si prova ad esserlo.

Dopo il primo scudetto nel 1975 Scirea festeggia in discoteca con la squadra fino all’alba.
“Rientro e poi vado a comprare i giornali, ma l’edicola davanti a casa mia era vicino alla fermata dell’autobus che portava gli operai in Fiat, mi vergognavo a farmi vedere vestito da sera alle 6 del mattino da gente che andava a lavorare”.
Gaetano pensò ai suoi genitori a Cernusco, agli operai della Pirelli e lasciò perdere i giornali che celebravano la Juve.

Questo è lo stile-Juventus.

Giovanni, uno degli amici più cari e compagno quotidiano di (dis)avventure, mi ha “regalato” il video che trovate qui sotto.
Chi ha seguito il mio blog nel corso di questi anni, ricorderà qualcuna delle immagini presenti.
A lui rivolgo soltanto una parola: GRAZIE

venerdì 3 settembre 2010

Del Bosque, Scirea e la differenza tra classe e stile


"Il suo dolore, la nostra sofferenza, è servita a relativizzare i problemi, a capire che in fondo la vita ha altre priorità, altri ostacoli, altri doveri. E oggi siamo felici, Alvaro lo è e così i suoi fratelli".

Alvaro è un ragazzo quattordicenne, affetto da sindrome down, con un cognome "importante": Del Bosque. E' il figlio del tecnico della nazionale spagnola campione del mondo, il terzogenito a cui il padre aveva sempre negato il permesso di accompagnarlo negli spogliatoi della Roja. Era riuscito, con la sua insistenza, ad ottenere una promessa: nel caso in cui i risultati dell'avventura sudafricana fossero stati positivi, sarebbe potuto salire sull'autobus dei festeggiamenti con i suoi eroi. E così è stato: alla gioia per il trionfo si è unita la commozione di un paese intero per una festa particolare, genuina, di stampo familiare.

Vicente Del Bosque non è stato tifoso del Real Madrid sin da piccolo: prima di arrivarci, era sostenitore dell'Athletic di Bilbao. Poi, a diciassette anni, cominciò la sua nuova vita, proprio con i Blancos. Giocatore prima, allenatore poi. Una vita da vincente, in campo come sulla panchina.

Ma la sua non è la classica figura da "uomo copertina": non ha il fascino di un Lippi (del recente passato) o la capacità mediatica di un Mourinho. Lui è l'antidivo per eccellenza, l'uomo troppo normale per trovarsi a proprio agio in un mondo del calcio dove l'immagine conta (ormai sempre) più della sostanza, in cui quello che hai fatto sino a cinque minuti prima è già diventato storia.

Trentacinque anni a Madrid, in molti trofei esposti nella bacheca di quella società è presente il suo nome: cinque campionati vinti e quattro coppe di Spagna da calciatore; due campionati, due coppe dei Campioni, una coppa Intercontinentale, una supercoppa Uefa, una supercoppa di Spagna come allenatore.

Giocò, giovane, come centrocampista davanti alla difesa: da quell'esperienza imparò a dosare le parole come i passaggi che faceva in campo, a non lamentarsi mai, a correre e lavorare sodo. Per gli altri, per un risultato. Vestì la maglia della sua nazionale per 18 volte, senza immaginare che in futuro l'avrebbe poi allenata.

Perchè per lui esisteva solo il Real Madrid. Quello che perse, da un momento all'altro, perchè "non portava bene la cravatta". Non era l'uomo adatto a guidare la squadra dei galacticos, non aveva lo "charme" giusto, anche se se si trattava di un vincente: Florentino Pérez lo liquidò in quel modo, con poche parole, espressioni di una mania di grandezza di chi non capisce che i successi si costruiscono nel tempo, con il (piccolo) lavoro quotidiano.
Lo lasciò così, su due piedi, senza alcun dubbio e nessun rimpianto. In quel momento: perchè dopo arrivarono, tutti insieme.

Una carriera intera trascorsa in un club amato volatilizzata in pochi attimi. In che modo reagì? Con il suo stile: in silenzio. Aveva perso il fratello, vittima di una malattia che non riuscì a sconfiggere: erano altre le dure battaglie da affrontare. Questa, seppur dolorosa, poteva essere vinta. Come? Con il lavoro, sempre e comunque. Anche se in quel momento non c'era più: "Sono un disoccupato privilegiato, ma mi hanno ferito. Il lavoro è nella natura dell' uomo, non so che fare ora".

Dopo un'infelice esperienza nel Beşiktaş (2004) tornò in Spagna. Rifiutò l'incarico di guidare la nazionale messicana, per accettare quello di sedere sulla panchina del suo paese. Nel momento più difficile, verrebbe da dire: proprio quando - finalmente - aveva iniziato a vincere (l’Europeo del 2008, dopo quello del 1964). Doveva sostituire Luis Aragonès, e puntare al bersaglio grosso, quel mondiale mai raggiunto da una squadra che adesso iniziava a prendere coscienza delle proprie possibilità.

Tensioni e aspettative, delusioni e paura di non farcela, critiche feroci: si trovò solo, contro tutto e tutti. Compreso quello stesso commissario tecnico del quale aveva appena preso il posto, timoroso che qualcuno potesse subito far passare in secondo piano quanto ottenuto da lui. Come si comportò Del Bosque? Da signore: stette in silenzio, si mise in difesa dei suoi ragazzi, così come da giocatore proteggeva i compagni difensori. Non rispose, se non con i risultati. Dispensò serenità, miscelando un gruppo composto più da giocatori del Barcellona (l’antica rivale) che non del Real Madrid. Ha finito con unire - per qualche momento - un paese nel nome di una vittoria che è già passata, lei sì, alla storia. Non poteva essere altrimenti, per un vincente come lui.

Pensi alla figura di Del Bosque, leggi le dichiarazioni al vetriolo di alcuni ex calciatori bianconeri di questi giorni, e capisci le differenze tra il concetto di classe (intesa come capacità individuali) e quello di stile, nello sport così come nella vita di tutti i giorni. Che è fatta - anche, purtroppo - di difficoltà, di percorsi in salita, di ingiustizie. Ci sono modi diversi di affrontarle, superarle, assimilarle, raccontarle a chi ti sta intorno.

C'è chi, in quei momenti, è più o meno dotato di capacità di resistenza, e non crede che il tempo sia galantuomo e il campo un giudice supremo. E' sempre più numeroso il partito di coloro i quali pensano di poter sistemare le proprie pendenze alzando la voce o attaccando per primi, per paura - forse - che gli altri possano smascherarli.

Ci sono - invece - uomini che hanno carattere, sono sicuri di se stessi, fanno della serietà e della serenità i loro punti di forza, e non hanno mai la necessità di discutere animatamente: i loro silenzi rendono inutili qualsiasi parola. Non sentono il bisogno di vendicarsi con qualcuno: vincono. Semplicemente.
Perchè il loro modo di affrontare la vita li fa partire da 1-0 ogni qualvolta mettono il piede a terra dopo essersi alzati dal letto la mattina.

I giocatori passano, le squadre rimangono. Così come le leggende.
Gaetano Scirea, del quale oggi si commemora l’anniversario della sua scomparsa, è una di quelle. Il suo ricordo non morirà mai, così come i suoi insegnamenti.
Prima o poi certe lezioni le imparerà anche chi non ha ancora chiara la differenza tra classe e stile.
Forse.

Ps: ciao Gai

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

giovedì 2 settembre 2010

Ci manchi Gaetano. Sempre di più...


Per una volta non inserisco il mio video su Scirea.
Ho trovato questo bellissimo speciale di Sky, mandato in onda lo scorso anno.
Buona visione a tutti

Ps: Gaetano, mi manchi...





giovedì 22 luglio 2010

Marchisio indica la strada per la nuova Juve



"Pensiamo a noi stessi e non al divario con l’Inter o altri avversari. Dobbiamo fare gruppo perché dall’anno della serie B pian piano si è persa l’identità, la voglia di combattere, lo spirito Juve".
Nelle parole di Claudio Marchisio, pronunciate nel corso dell’ultima intervista rilasciata nei (suoi) primi giorni di ritiro, c’è la sintesi del recente passato, del presente e del prossimo futuro della Vecchia Signora: da quanto si è perso (e non è stato fatto) durante l’immediato periodo post Farsopoli, all’analisi della situazione attuale sino ad arrivare agli obiettivi da raggiungere.
Tra i quali, il primo, è quello di tornare ad essere "la" Juventus. Nel minor tempo possibile.
"La Juventus è stata un esempio per il mio Manchester United. Facevo vedere ai miei giocatori le videocassette della squadra di Lippi e dicevo: non guardate la tattica o la tecnica, quella ce l’abbiamo anche noi, voi dovete imparare ad avere quella voglia di vincere" (Sir Alex Ferguson)

Proprio Marchisio segnò un bellissimo goal nell’incontro con i nerazzurri nel girone di andata del campionato appena concluso, a Torino, il 5 dicembre 2009. Quello fu l’ultimo momento positivo di una stagione calcistica che già dalla successiva gara (con conseguente eliminazione) in Champions League, contro il Bayern Monaco, mostrò le crepe di un progetto che di concreto non aveva nulla.

"E’ un piacere immenso ricordare che tutto "il meglio" del calcio è passato dalla Juve" (Umberto Agnelli).
Storari, Motta, Bonucci, Martinez, Pepe, Lanzafame.
Come inizio.
Non c’è più Nedved; Trezeguet e Camoranesi potrebbero aver terminato la loro avventura in maglia bianconera; quella che sta per iniziare dovrebbe essere l’ultima stagione di Del Piero a Torino; Chiellini si spera possa rimanere alla corte della Vecchia Signora, prolungando il suo contratto e rifiutando le offerte proveniente da Inghilterra e Spagna così come accadde l’estate del ritorno in serie A, quando sembrava in procinto di accasarsi al Manchester City.
C’è ancora tempo per aggiungere a questa squadra giocatori di livello tecnico superiore. Sino al 31 agosto.
Ma è arrivata l’ora di farlo.

Il vero "gap" che la Juventus dovrà colmare non è quello che la divide, attualmente, dall’Inter (in Italia) e dal Barcellona (in Europa), quanto quello che la separa da quanto è stata "bella" in passato, a quanto è stata “brutta” (troppo, per essere vera) sino a ieri.

"Programmare" e non "progettare"; "vincere" e poi - forse - "divertire"; "dominare" (in campo) e non essere continuamente "schiacciati" (nella propria metà campo); non guardare gli altri ma pensare a se stessi, a tornare ad essere i migliori.
Come sostiene Marchisio.

La nuova dirigenza non prenderà decisioni "popolari" o "impopolari", ma semplicemente investirà (e già lo sta facendo) sul mercato quelle che sono le idee (e i soldi) della società. Sarà il campo, poi, ad emettere il verdetto definitivo.
Dzeko, Krasic, Aogo, Elia… I tifosi possono tranquillamente concentrarsi sui nomi dei singoli giocatori: chi sta costruendo la nuova Juventus opterà per l’acquisto di elementi funzionali alle caratteristiche della squadra che si ha intenzione di affidare a Del Neri.

"La vera gara tra noi e le milanesi sarà tra chi arriverà prima: noi a mettere la terza stella, loro la seconda" (Gianni Agnelli)
Si torni presto a vincere. E a scrivere nuovamente una storia ferma al 2006.
Per quello che è accaduto prima di quella data, qualcosa potrà succedere soltanto quando la Juventus tornerà ad essere se stessa anche fuori dal rettangolo di gioco.
Non soltanto "vigilando", ma anche "agendo".
Dando la possibilità ai sostenitori bianconeri di tornare ad esercitare - semplicemente - il loro ruolo di "tifosi", e non di avvocati difensori di una società che - di fatto - è scomparsa quattro anni fa.
Sembra strano, ma è la semplice realtà.
E chi non è juventino non può capire.

"La Juve è qualcosa di più di una squadra, non so dire cosa, ma sono orgoglioso di farne parte" (Gaetano Scirea)

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com
Ringrazio l'amico Sandro Scarpa per aver pubblicato l'articolo anche qui Juvenews.net
Ps: Sandro, mi hai fatto provare una sensazione da "ritorno a casa"... zebrabianconera10 ti abbraccia

mercoledì 31 marzo 2010

La lezione dimenticata di Scirea


La Juventus di Blanc vince sull’Atalanta. Di questi tempi è una notizia. Una frustata di Del Piero ed una zuccata di Felipe Melo consegnano al progetto del francese un’altra pietra su cui fondare le speranze di una rinascita bianconera al momento presente solo nelle sue convinzioni. Una partita cha ha seguito da solo, in piedi, non distante da Buffon nei 45 minuti iniziali (prima che il portiere si travestisse da secondo allenatore e primo tifoso all’ingresso del tunnel che porta agli spogliatoi) e a quell’uscita dello stadio che se intrapresa - una volta per tutte - segnerebbe il primo passo verso la risoluzione dei problemi juventini.

Una squadra stanca, senza forza né benzina nelle gambe, con una formazione disegnata dal medico sportivo più che dall’allenatore-traghettatore. Le scuse di Felipe Melo ai tifosi (dopo il goal segnato) e la risposta (verbale) di Zebina alla contestazione (fisica) le uniche note positive di un’altra domenica più nera che bianca. Un’altra giornata di proteste. Non è stata la prima, e non sarà l’ultima.
Dove il bersaglio non era quello giusto. Anche stavolta.

Troppe forze sprecate nel prendersela con i vari Cannavaro, Zebina e Felipe Melo (appunto); facile ed ovvio tirare in ballo gli allenatori di turno (Ranieri, Ferrara,…); inutile puntare il dito sempre e solo sulla dirigenza (seppur dotata di super-poteri): tutto dipende dalla proprietà.
E’ da lì che devono partire le mosse per la vera rinascita juventina. Che si chieda un maggior impegno economico e affettivo oppure un disimpegno a favore dell’entrata (definitiva) del cugino Andrea: ognuno scelga la propria strada. Chi scrive, crede nel "made in Juventus" (Agnelli). Ma chi può cambiare le cose (in un modo o nell’altro) è solo John Elkann. E’ a lui - e soltanto a lui - che bisogna rivolgersi se si vuole veramente sperare di ottenere risultati concreti.

Al di là delle ovvie recriminazioni e rimostranze verso chi si ritiene non meriti di indossare la maglia bianconera, verso chi disperde milioni di euro in acquisti onerosi e infruttuosi, verso un allenatore che insiste su moduli sbagliati o non ha la giusta grinta per (ri)svegliare una squadra in cerca di autostima, l’importante è non perdere di vista l’obiettivo principale.
Nel mettere in atto un gesto forte come una contestazione, volendo, si può usare anche la classe. Come quella dimostrata dai tifosi bianconeri che domenica, dagli spalti dello stadio Olimpico, hanno manifestato il loro disappunto verso l’attuale gestione con una maglietta bianca nella quale era presente la scritta: "Ho un sogno: Blanc all’Inter!".
Perché indossare la maglia bianconera è una responsabilità non facile da reggere per qualsiasi calciatore, ma prendere posto in una curva che porta il nome e cognome di Scirea rappresenta un impegno non meno gravoso.

"Se dovessi chiederti quale giocatore per te rappresenta la Juventus, uno soltanto, chi sceglieresti?"
Capita, tra ragazzini, quando si parla di calcio giocato e non urlato, di sfottò e non di polemiche, di partita vinta su rigore e non di moviola per vedere se il penalty fosse regolare o meno, di porsi domande simili.
La risposta del sottoscritto è sempre stata questa: "Stile, classe, potenza: in sintesi, Gaetano Scirea".

Di solito un bambino sceglie il proprio idolo tra eroi che stuzzicano la fantasia, gladiatori che accendono l’ardore, attaccanti che fanno schizzare di gioia stadi interi e urlare "goal" a squarciagola. Ma lui era unico. Difficile scegliere se fosse più forte dal punto di vista tecnico o da quello umano: era un numero uno in entrambi i casi.
Quando la voce roca di Sandro Ciotti ne annunciò la tragica fine nel corso di una trasmissione sportiva (il 3 settembre 1989), una fitta al cuore bloccò ogni parola, impedì qualsiasi pensiero e segnò nel tracciato della vita di un piccolo tifoso il primo passo verso la strada per diventare adulto.
Ci sono campioni la cui scomparsa decreta il loro ingresso nel libro della leggenda sportiva: a lui, questo, non era necessario. Era già leggenda. Nel modo più impensabile: con la timidezza, la bontà d’animo, l’eleganza di chi entrava ed usciva dal campo a testa alta. Fiero di aver interpretato lo sport nella sua versione più romantica e pura. Con una classe che - nel ruolo - ha trovato nel tempo pochi simili.

Si era presentato in punta di piedi nel mondo bianconero nel 1974. Proveniva (guarda caso) dall’Atalanta. Se n’è andato in silenzio, senza che nessuno lo potesse salutare. Trionfi e sconfitte accettati sempre con lo stesso stile: quello di chi vedeva nel risultato sportivo, qualunque fosse, il giusto epilogo di una contesa. Gli insuccessi come parte integrante della vita, anche se spiacevoli. Ci sono addii che scuotono le anime di chi rimane, lasciando insegnamenti scolpiti nelle pietre delle esperienze di ognuno di noi.
Scirea se n’è andato troppo presto: in molti non hanno capito la sua lezione. Se così non è stato, l’hanno comunque dimenticata.

La Juve è qualcosa di più di una squadra, non so dire cosa, ma sono orgoglioso di farne parte (Gaetano Scirea)

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

Di seguito, il mio video su Gaetano Scirea