giovedì 11 ottobre 2012

"Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione". Intervista a Marco Iaria



"Donne, vodka e gulag. Eduard Streltsov, il campione" è il libro scritto da Marco Iaria, giornalista della "Gazzetta dello Sport", in onore del fuoriclasse russo che in molti hanno definito il "Pelé bianco".

Calciatore dotato di un talento cristallino, nel corso della propria carriera Streltsov aveva militato soltanto nella Torpedo Mosca rifiutando le proposte avanzate dalla Dinamo e dal Cska, club legati all'apparato militare sovietico nella seconda metà degli anni cinquanta del vecchio secolo.
Avrebbe potuto incrociare lo stesso Pelé durante il mondiale tenutosi in Svezia nel 1958, ma il fuoriclasse russo non prese parte alla manifestazione: accusato di violenza carnale, consumata ai danni di una donna nel corso di una festa svoltasi qualche giorno prima dell’inizio del torneo, era finito in prigione e successivamente nel gulag, dove trascorse cinque anni.
Dietro al processo a suo carico, sommario e veloce, ci furono troppi buchi vuoti. Compreso quello creato dal rifiuto di sposare la figlia di una potente donna membro del Politbjuro, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico.
Al regime non piaceva quel ragazzo che incantava le folle, amava la bella vita e le donne, troppo lontano dal modello socialista voluto dalla dittatura. Tornato in libertà, aveva poi guidato la Torpedo alla conquista del secondo titolo nazionale della propria storia. In nazionale aveva segnato 25 goals in 38 partite disputate.
E' morto all'età di 53 anni, nel 1990, a causa di un tumore.

Ancora oggi il colpo di tacco in Russia viene chiamato "alla Streltsov", nel ricordo delle magie di quel campione.
Marco Iaria, in esclusiva per "Pagina", risponde ad alcune domande sul suo libro.

In passato hai confessato di essere rimasto colpito dalla vicenda umana e sportiva di Eduard Streltsov dopo averne sentito parlare in un documentario. Successivamente ti sei convinto a scrivere un libro sull'argomento. C'è stato un episodio, in particolare, che ha catturato maggiormente la tua attenzione rispetto ad altri?

Più che un episodio, mi ha colpito, da giornalista, la superficialità e, a volte, l’irriverenza con cui i fatti che succedevano al di là della cortina di ferro venivano raccontati dalla stampa occidentale. Anche una rivista autorevole come Time si permise di pubblicare, nel 1958, un album segnaletico, tipo quelli appesi nei commissariati di polizia. Vennero raccontate, con tono ironico, storie di sportivi finiti nel mirino dei regimi comunisti, compreso Streltsov. Senza interrogarsi se dietro quegli aneddoti si stessero consumando tragedie umane.

Il lavoro di ricerca del materiale sul quale hai basato la tua opera è stato imponente. Chi ha avuto modo di leggerla immagino se ne sia reso conto quanto il sottoscritto. Durante quella fase ti è mai capitato di trovarti in una situazione così difficile da farti pensare "Ma chi me lo ha fatto fare?"

La ricerca, in effetti, è stata la sfida più affascinante e allo stesso tempo complicata. Icona in patria, Streltsov è quasi sconosciuto in Occidente. Proprio questo mi ha spinto ad andare oltre. Con un ostacolo apparentemente insormontabile: il cirillico. Per fortuna un mio amico, Dario Magnati, che insegna il russo, mi ha aiutato traducendo tutta la documentazione originale e facendo da interprete. Il lavoro più arduo è stato ricostruire il periodo di detenzione di Streltsov nel gulag. Pensavo di non farcela, ma sapevo che una ricostruzione la più dettagliata possibile di quegli anni avrebbe dato un valore aggiunto all’opera. Così, dopo diversi tentativi, ho scoperto quel bellissimo recupero della memoria che è riuscita a fare un’associazione di parenti e amici di ex detenuti dei campi del Vjatlag.

La stesura definitiva del testo è passata anche tramite la conoscenza diretta dei familiari del protagonista. Che idea si sono fatti della vicenda capitata al fuoriclasse? Hanno avuto modo di leggere il tuo libro o comunque di conoscerne il contenuto?

Il figlio Igor ha raccontato che in punto di morte Streltsov fece allontanare tutti dalla stanza, chiamò vicino a sé la moglie Raisa e le disse che era innocente. Quella fu l’unica volta che l’argomento venne trattato in famiglia. C’era pudore nel parlarne e anche io l’ho percepito. I contatti maggiori, comunque, li ho avuti col nipote del calciatore, si chiama Eduard pure lui, ha vent’anni ed era il più interessato al fatto che in Italia uscisse un libro sul nonno. Gli sono grato per avermi concesso l’archivio fotografico di famiglia.

L'elenco delle nazionali di calcio utilizzate come strumento di propaganda di un regime, purtroppo, è lungo: l’Italia di Mussolini, la Germania di Hitler, la DDR e lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) nei mondiali del 1974, l’Argentina in quelli del 1978 e via discorrendo. La gestione dell’uomo-Streltsov ritieni che sarebbe stata simile nelle realtà elencate, oppure quella sovietica era stata particolarmente feroce e risolutiva nei suoi confronti?

Streltsov non era funzionale al regime perché il suo stile di vita mal si conciliava con l’ideale dell’uomo sovietico che gli sportivi, specialmente i calciatori, dovevano interpretare. Non è un caso se venne fatto fuori dal Mondiale del 1958 a pochi giorni dalla partenza e in seguito, dopo il ritorno dal gulag, non riuscì a partecipare a nessuna fase finale di un Europeo o di un Mondiale.

Dopo i primi goals segnati nel calcio professionistico, quando ancora era ragazzino, Streltsov gioiva ma non esultava troppo. Puntava a migliorarsi continuamente. Se fuori dal campo il suo comportamento era criticabile, con le scarpette ai piedi era un campione di tutto rispetto. Sotto questo punto di vista quali fuoriclasse del presente o del passato ti ha ricordato?

Difficile fare paragoni per me non avendolo visto giocare, se non in spezzoni di partite recuperate in Rete. Chi l’ha visto dal vivo me l’ha raccontato come un calciatore atipico rispetto al cliché sovietico, capace di unire potenza e fantasia. Il suo essere centravanti ma allo stesso tempo ispiratore della manovra mi fa venire in mente il grande Di Stefano. Di sicuro, sul piano della qualità e dell’intelligenza, era di una spanna sopra a tutti in Russia.

Dopo un'infanzia difficile, grazie al successo nel calcio per Streltsov arrivarono soldi e notorietà. Poi fu la volta della campagna denigratoria nei suoi confronti, per finire con l'arresto e gli anni trascorsi nei gulag. E' giusto affermare che la sua più grande vittoria sia stata quella di tornare a giocare ad altissimi livelli dopo gli anni di prigionia?

Sicuramente. Dopo il gulag, il suo ritorno al calcio venne ostacolato in tutti i modi da qualche zelante funzionario di partito. Ci furono petizioni e cori allo stadio da parte dei tifosi, probabilmente tutto quell’affetto diede a Streltsov una spinta straordinaria. Il risultato fu che nella stagione del rientro, nel 1965, contribuì alla vittoria del campionato nazionale, fu premiato per due anni di fila come migliore giocatore sovietico dai giornalisti e riconquistò la maglia dell’Urss. Un testimone oculare che lo vide giocare prima e dopo il gulag, l’inglese Jim Riordan, mi ha raccontato di come i campi di lavoro lo avessero segnato: capelli caduti, fisico appesantito, aria dimessa. Ma la classe rimase intatta.

Uno degli aspetti della storia del calciatore che colpisce maggiormente è il fortissimo legame che aveva instaurato con la squadra della sua vita, la Torpedo Mosca. Quanto ritieni sia stato importante per Streltsov sapere che fuori dall'incubo che stava vivendo c'era ancora chi credeva in lui?

Tantissimo. Il calcio è stato la salvezza di Streltsov nel gulag. Il fatto che, per ragioni propagandistiche, venisse praticato nei campi, con tanto di tornei e coppe da assegnare, fu un enorme vantaggio per lui. Gli consentì di tenersi in allenamento e soprattutto di sentirsi ancora un calciatore. A Tula il suo compagno di squadra Sustikov andava a trovarlo assieme alla madre più volte al mese e gli portava palloni, magliette, generi alimentari, tutto ciò che i ragazzi della Torpedo riuscivano a raccogliere per rendergli l’esistenza più sopportabile.

E' risaputo che paragonare giocatori di epoche (e realtà) differenti è un esercizio che inevitabilmente porta a risultati dal valore più soggettivo che oggettivo. Dal tuo punto di vista, senza l'allontanamento forzato dai campi di gioco quale posizione avrebbe occupato Streltsov nella classifica dei migliori calciatori di tutti i tempi?

Di sicuro avrebbe potuto essere ricordato come il calciatore russo più forte di sempre. A livello internazionale i dubbi sono legati al suo essere genio e sregolatezza. Secondo Gabriel Hanot, l’inventore del Pallone d’Oro, a vent’anni Streltsov era ‘la più grande promessa del calcio mondiale nel ruolo di centravanti’. Vorrei ricordare che, nonostante una carriera spezzata, si piazzò una volta settimo e due volte tredicesimo nella classifica del Pallone d’Oro.

L’ultima domanda, prima di salutarci: c'è un altro calciatore per il quale avresti voluto (o vorresti) scrivere un libro?

Di sicuro mi sarebbe piaciuto moltissimo ripercorrere le orme di Arpad Weisz, l’allenatore ebreo deportato ad Auschwitz, visto che proprio l’Italia, per via delle leggi razziali, fu la prima tappa del suo calvario. L’ha fatto con sensibilità e rigore Matteo Marani e il suo libro è un piccolo gioiello della memoria.

Grazie per l’intervista.
Una nota, per concludere: all’inizio del 2013 uscirà la ristampa del libro, nella collana di tascabili Limina Pocket.

Articolo pubblicato su

2 commenti:

Giuliano ha detto...

Iaria mette in evidenza una cosa che mi ero dimenticato: la tendenza a far passare per idiota "quelli di là". Evidentemente, i giornali usa (e i nostri) erano tutti contenti di aver trovato "il sovietico stupido e violento", sull'onda del "tutti uguali" che imperversa anche oggi.
Streltsov, da come viene raccontato, non era un dissidente, era solo uno che si faceva la sua vita. Cosa pericolosissima sotto le dittature, anche da noi sotto il fascismo si veniva bollati come asociali.
La maggior parte di noi è così, al primo posto viene la nostra vita personale, la famiglia, e se non si fa niente di male che problema c'è? I dittatori invece vogliono tutti in riga, in uniforme, il sabato fascista, le camice brune, queste cose qui.
Il problema vero è che sono passati tanti anni, è caduto il comunismo, ma la Russia è ancora così.

Thomas ha detto...

Hai centrato perfettamente il nocciolo della questione, Giuliano: "Streltsov, da come viene raccontato, non era un dissidente, era solo uno che si faceva la sua vita".

Pensa cosa gli avrebbero fatto se fosse stato pure un dissidente...

Un abbraccio!