mercoledì 31 marzo 2010

La lezione dimenticata di Scirea


La Juventus di Blanc vince sull’Atalanta. Di questi tempi è una notizia. Una frustata di Del Piero ed una zuccata di Felipe Melo consegnano al progetto del francese un’altra pietra su cui fondare le speranze di una rinascita bianconera al momento presente solo nelle sue convinzioni. Una partita cha ha seguito da solo, in piedi, non distante da Buffon nei 45 minuti iniziali (prima che il portiere si travestisse da secondo allenatore e primo tifoso all’ingresso del tunnel che porta agli spogliatoi) e a quell’uscita dello stadio che se intrapresa - una volta per tutte - segnerebbe il primo passo verso la risoluzione dei problemi juventini.

Una squadra stanca, senza forza né benzina nelle gambe, con una formazione disegnata dal medico sportivo più che dall’allenatore-traghettatore. Le scuse di Felipe Melo ai tifosi (dopo il goal segnato) e la risposta (verbale) di Zebina alla contestazione (fisica) le uniche note positive di un’altra domenica più nera che bianca. Un’altra giornata di proteste. Non è stata la prima, e non sarà l’ultima.
Dove il bersaglio non era quello giusto. Anche stavolta.

Troppe forze sprecate nel prendersela con i vari Cannavaro, Zebina e Felipe Melo (appunto); facile ed ovvio tirare in ballo gli allenatori di turno (Ranieri, Ferrara,…); inutile puntare il dito sempre e solo sulla dirigenza (seppur dotata di super-poteri): tutto dipende dalla proprietà.
E’ da lì che devono partire le mosse per la vera rinascita juventina. Che si chieda un maggior impegno economico e affettivo oppure un disimpegno a favore dell’entrata (definitiva) del cugino Andrea: ognuno scelga la propria strada. Chi scrive, crede nel "made in Juventus" (Agnelli). Ma chi può cambiare le cose (in un modo o nell’altro) è solo John Elkann. E’ a lui - e soltanto a lui - che bisogna rivolgersi se si vuole veramente sperare di ottenere risultati concreti.

Al di là delle ovvie recriminazioni e rimostranze verso chi si ritiene non meriti di indossare la maglia bianconera, verso chi disperde milioni di euro in acquisti onerosi e infruttuosi, verso un allenatore che insiste su moduli sbagliati o non ha la giusta grinta per (ri)svegliare una squadra in cerca di autostima, l’importante è non perdere di vista l’obiettivo principale.
Nel mettere in atto un gesto forte come una contestazione, volendo, si può usare anche la classe. Come quella dimostrata dai tifosi bianconeri che domenica, dagli spalti dello stadio Olimpico, hanno manifestato il loro disappunto verso l’attuale gestione con una maglietta bianca nella quale era presente la scritta: "Ho un sogno: Blanc all’Inter!".
Perché indossare la maglia bianconera è una responsabilità non facile da reggere per qualsiasi calciatore, ma prendere posto in una curva che porta il nome e cognome di Scirea rappresenta un impegno non meno gravoso.

"Se dovessi chiederti quale giocatore per te rappresenta la Juventus, uno soltanto, chi sceglieresti?"
Capita, tra ragazzini, quando si parla di calcio giocato e non urlato, di sfottò e non di polemiche, di partita vinta su rigore e non di moviola per vedere se il penalty fosse regolare o meno, di porsi domande simili.
La risposta del sottoscritto è sempre stata questa: "Stile, classe, potenza: in sintesi, Gaetano Scirea".

Di solito un bambino sceglie il proprio idolo tra eroi che stuzzicano la fantasia, gladiatori che accendono l’ardore, attaccanti che fanno schizzare di gioia stadi interi e urlare "goal" a squarciagola. Ma lui era unico. Difficile scegliere se fosse più forte dal punto di vista tecnico o da quello umano: era un numero uno in entrambi i casi.
Quando la voce roca di Sandro Ciotti ne annunciò la tragica fine nel corso di una trasmissione sportiva (il 3 settembre 1989), una fitta al cuore bloccò ogni parola, impedì qualsiasi pensiero e segnò nel tracciato della vita di un piccolo tifoso il primo passo verso la strada per diventare adulto.
Ci sono campioni la cui scomparsa decreta il loro ingresso nel libro della leggenda sportiva: a lui, questo, non era necessario. Era già leggenda. Nel modo più impensabile: con la timidezza, la bontà d’animo, l’eleganza di chi entrava ed usciva dal campo a testa alta. Fiero di aver interpretato lo sport nella sua versione più romantica e pura. Con una classe che - nel ruolo - ha trovato nel tempo pochi simili.

Si era presentato in punta di piedi nel mondo bianconero nel 1974. Proveniva (guarda caso) dall’Atalanta. Se n’è andato in silenzio, senza che nessuno lo potesse salutare. Trionfi e sconfitte accettati sempre con lo stesso stile: quello di chi vedeva nel risultato sportivo, qualunque fosse, il giusto epilogo di una contesa. Gli insuccessi come parte integrante della vita, anche se spiacevoli. Ci sono addii che scuotono le anime di chi rimane, lasciando insegnamenti scolpiti nelle pietre delle esperienze di ognuno di noi.
Scirea se n’è andato troppo presto: in molti non hanno capito la sua lezione. Se così non è stato, l’hanno comunque dimenticata.

La Juve è qualcosa di più di una squadra, non so dire cosa, ma sono orgoglioso di farne parte (Gaetano Scirea)

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

Di seguito, il mio video su Gaetano Scirea

domenica 28 marzo 2010

Momenti (e frammenti) di gloria

Siamo riusciti a vincere una partita



Abbiamo tutti un sogno nella vita. Oggi, il mio è questo:



Le espressioni del viso di Bettega, durante l'incontro, valgono più di tante parole...



Perdonato?



Sì alla contestazione, NO alla violenza



Al solito, Oliviero Beha (grande)


Intervista a Zebina

Juve-Atalanta. E la storia si ripete...



"Vogliamo dare una scossa alla squadra e mettere i giocatori davanti alle loro responsabilità. Contro l'Atalanta per noi era un "match ball" in chiave secondo posto".
Con queste parole Jean Claude Blanc spiegò alla stampa e ai tifosi bianconeri la scelta di Ciro Ferrara quale traghettatore della Juventus per le ultime partite dello scorso campionato. Servivano sei punti, vale a dire due vittorie, per arrivare secondi. Ferrara promise di chiederne sette ai giocatori. Era il 18 maggio 2009. Il giorno prima, all’Olimpico di Torino, si giocò Juventus-Atalanta, in uno stadio vuoto a causa della squalifica per i cori contro Balotelli.
Il risultato finale fu 2-2 (Iaquinta e Cristiano Zanetti per i bianconeri, Cigarini e Pellegrino per i bergamaschi).
Da Luis Carniglia a Claudio Ranieri: dal 1969 al 2009, quarant’anni di attesa per trovare un altro esonero in corso d’annata in casa Juventus, con l’aggravante di averlo fatto a due sole giornate dalla conclusione del torneo. Una società che aveva perso il controllo della situazione, lasciando l’allenatore solo di fronte alle critiche pesantissime e ad uno spogliatoio dove - da tempo - diversi giocatori importanti avevano perso il feeling con lui.
Un anno (calcistico) o dieci mesi (effettivi): si prenda l’unità di misura preferita, ma la sostanza è che la storia si è ripetuta. Un altro Juventus-Atalanta come cornice di un (nuovo) fallimento.
La storia è fatta di corsi e ricorsi: vale per i vincitori, ma anche per i vinti.
Vale per i vincenti, ma anche per i perdenti.

"Abbiamo deciso di affidare la guida della Juventus a Ciro Ferrara dopo gli ultimi risultati, in particolare dopo il pareggio contro l'Atalanta. Una scelta ponderata, condivisa da società, cda e proprietà. In queste ultime due giornate ci giochiamo questa e un pezzo della prossima stagione, siamo consapevoli che non sarà facile per Ciro, ma la sua missione è conquistare la qualificazione diretta in Champions".
Solo in campionato, compreso l’incontro giocato con l’Atalanta, la Juventus veniva da 6 pareggi e una sconfitta nelle ultime sette gare giocate. C’era il pericolo di essere scavalcati da Fiorentina e/o Genoa (quello di Milito e Thiago Motta), e di dover arrivare in Champions League passando per i preliminari. Quelli che oggi, se raggiunti, rappresenterebbero un sogno diventato realtà.

Blanc: "Sappiamo che mandare via un allenatore non rientra nello stile Juve, l'ultimo esonero a stagione in corso risale al 1969. Ma da 3 anni siamo in una situazione diversa dal passato. Non è nemmeno stile Juve giocare i preliminari di Champions e finire le stagioni in questo modo".
Quest’anno, invece, si è riusciti a fare decisamente peggio…
L’accesso diretto alla massima competizione europea veniva considerato come la garanzia di poter disporre del denaro liquido necessario a rinforzare ulteriormente la squadra. Quel denaro, poi, investito - soprattutto - negli acquisti di Diego e Felipe Melo.

Giovedì 25 marzo 2010. Blanc: "Siamo ancora in ballo (per i preliminari di Champions League), ma una società gestita in modo professionale e oculato potrebbe, in teoria, gestire anche una eventuale esclusione".
John Elkann, il giorno dopo: "Manca grinta a tutti i livelli, bisogna reagire (allusione al quarto posto) per costruire una Juventus più forte".
Delle due, l’una: o i soldi si investono comunque (a prescindere dalla posizione al termine dell’attuale campionato), oppure la Juventus è vicina ad un vero e proprio (temporaneo) ridimensionamento.

A parlare, questa volta in questo articolo, non è chi scrive, ma chi promette. E illude. O pensa di farlo. Perché chi si sente tradito nell’amore, non dimentica.
Le frasi pronunciate da parte di chi occupa posizioni importanti in seno alla Juventus non sono mai parole buttate al vento: rimangono scolpite nella memoria dei tifosi. Dura come la pietra. Solo in campionato: 11 sconfitte in 30 partite. Questi sono i fatti. E’ difficile parlare di tattica, quando da mesi hai un mediano pagato a peso d’oro che viene messo a fare il regista e quando anche i muri hanno capito che il rombo a centrocampo, con i giocatori a disposizione, non funziona. E’ impensabile parlare di condizione fisica, quando i calciatori delle altre squadre dimostrano di correre (almeno) il doppio di quelli bianconeri. E’ fastidioso discutere di infortuni, quando ormai quelli non fanno neanche più notizia. Non te la puoi neanche prendere con l’allenatore, perché hai un "traghettatore".

L’invito a proprietà e dirigenza è quello di scendere in campo, domenica, qualche minuto prima dell’inizio della gara, ed osservare gli spalti intorno a loro. Anche questa volta, così come accadde lo scorso 17 maggio 2009, alcuni settori dello stadio saranno vuoti. Per scelta, non per costrizione.
Il progetto nato a Marrakech, il lontano 31 dicembre 2004, è finalmente giunto a compimento. A chi li seguirà, poi, verso l’uscita dello stadio, si rivolge l’invito a voler chiudere la porta dietro di loro. A chiave. A doppia mandata.
Per non avere, il prossimo anno, un altro Juventus-Atalanta come contorno di un (nuovo) fallimento.
La Juventus tornerà ad essere grande. E’ solo questione di tempo. Lo vuole la storia, lo impone il blasone, lo reclama l’immenso bacino d’utenza dei tifosi. "Quando" accadrà, dipenderà solo da "quando" cambieranno le persone al suo timone. "Prima" accadrà, meglio sarà. Per tutti.


Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

venerdì 26 marzo 2010

Nessuna voglia di parlare



Sono stata assente a lungo. Molte cose da fare e da curare, ma forse ora finalmente avrò del tempo per passare un po’ più spesso da qui.
Sono stata assente a lungo. Ma non avevo molto da dire.
Lo confesso, non avevo voglia di parlare di sconfitte, sconfitte, risicati pareggi e ancora sconfitte.
Non avevo voglia di parlare di infortuni che si susseguono al ritmo di 3 o 4 a settimana.
Non avevo voglia di parlare di terzini che pretendono rispetto perché rimasti controvoglia in serie B, che giocano indegnamente, prendono lauti stipendi per stare quasi sempre in infermeria e che si permettono di mandare a quel paese i tifosi.
Non avevo voglia di parlare di gol fatti nei primi 10 minuti della partita ma che portano, immancabilmente, a prenderne poi 3 (o 4 se tanti ne occorrono).
Non avevo voglia di parlare di titoloni di giornali che annunciano una lista della spesa infinitamente lunga. Che tanto, anche se fosse vera, non servirebbe a migliorare le cose, perché le cose che non vanno non sono solo in campo.
Non avevo voglia di parlare di mediani, erroneamente acquistati come registi, che sbagliano passaggi in continuazione e che non vorrebbero essere contestati solo perché comunque corrono.
Non avevo voglia di parlare di una proprietà assente, madre di tutti i mali, che si preoccupa solo di confermare certi dirigenti
Non avevo voglia di parlare di quegli stessi dirigenti, che da soli prendono tre stipendi - e che per tre fanno anche guai – che vanno davanti ai microfoni a raccontare che buon lavoro abbiano fatto, pensando che non si sappia che le cose buone fatte sono in realtà i frutti delle idee di altri.
Non avevo voglia di parlare di tutta una squadra che corre (corre?) ad un decimo della velocità con la quale si muovono tutte le altre.
Non avevo voglia di parlare di un lunghissimo elenco di record negativi battuti.
Non avevo voglia di parlare di direttori sportivi convinti, anche senza un minimo di esperienza, di essere bravi, e che invece in 4 anni hanno sbagliato tutto quello che potevano sbagliare.
Non avevo voglia di parlare di responsabili della comunicazione e dello scouting, di addetti alle raccomandate e dei loro discutibili risultati.
Non avevo voglia di parlare di brasiliani che avrebbero dovuto portare in campo inventiva e che invece corrono solo orizzontalmente palla al piede, fino a quando gli avversari non gliela tolgono.
Non avevo voglia di parlare di staff medici che annunciano infortuni da recuperare in 15 giorni, e dopo 4 mesi pensi “ma Tizio e Caio che fine hanno fatto?”
Non avevo voglia di parlare di un team dove gli over 30 sono i ¾ della squadra.
Non avevo voglia di parlare di centrocampisti che non giocano per 7/8 mesi, vanno per un pò in nazionale, e quando tornano sembrano degli zombie.
Non avevo voglia di parlare di campi di gioco e di allenamento probabilmente inadatti ad una società della massima serie.
Non avevo voglia di parlare di “depressione”, “mancanza di autostima”, “panico”, “timore” mentre dovrei citare piuttosto “fuorigioco”, “diagonale”, “cross”.
Non avevo voglia di parlare di portieri che fanno i miracoli finché stanno in campo, ma che sembrano essere sempre più fragili; e neanche di portieri che rimangono sempre troppo piantati sulla linea di porta, oppure che prendono gol da 40 metri. E neppure di quelli che si, forse sono pure bravi, ma hanno il grosso difetto di avere solo 20 anni!
Non avevo voglia di parlare di una società, incapace di scelte precise e pianificate, che ascoltando gli umori della piazza non acquista un centrocampista forte ma antipatico e l’anno successivo, pur di non ripetere l’errore, ingaggia ugualmente un antipatico, ma stavolta è un 36enne alla frutta.
Non avevo voglia di parlare di capitani che ormai, se anche c’è la possibilità di fare un contropiede, si fanno recuperare 10 metri su 35!
Non avevo voglia di parlare di esterni, non si sa se difensivi o no, dei quali non si nota mai l’assenza.
Non avevo voglia di parlare di centravanti non più giovani e che nelle loro lunghe carriere sono arrivati una sola volta a segnare 15 gol in un’unica stagione. Se ci sono riusciti!
Non avevo voglia di parlare di parametri zero che se tali erano, forse una ragione c’era.
Non avevo voglia di parlare di giocatori che probabilmente s’impegnano di più a fare gli scrittori che i calciatori.
Non avevo voglia di parlare di centrocampisti che ormai giocano poco e quando lo fanno si fanno ammonire così spesso da essere squalificati come per le offerte dei supermercati (ogni 3 partite giocate, una fuori)
Non avevo voglia di parlare di stupidi siparietti in tv che dirigenti-bandiera avrebbero fatto meglio ad evitare.
Non avevo voglia di parlare della assoluta, totale, mancanza in campo di uno schema che sia uno!
Non avevo voglia di parlare di terzini sinistri acquistati per difendere e fare cross e che non riescono a fare né una cosa né l’altra.
Non avevo più voglia di parlare neppure di quei giocatori che probabilmente saranno il futuro di questa squadra e cercano di darsi da fare – anche quelli appena arrivati – ma che affogano comunque in questo brutto mare.
Avrei voglia di parlare di Juventus, ma non so dove sia finita.


Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero

giovedì 25 marzo 2010

Ehi, fenomeni, che ne dite: facciamo un bel CDA?


La Juve a Napoli per vincere due partite


Altro giro, altro regalo: stavolta a Genova, sponda blucerchiata. Dieci sconfitte in totale: cinque a Torino, altrettante in trasferta. Meglio non far torti a nessuno, qualcuno si potrebbe offendere. Il Palermo come avversario preferito: un doppio 2-0 (andata e ritorno, alla settima giornata), sei punti incassati (da loro) e tanti saluti.
Adesso tocca al Napoli, che all’andata (Torino, 31 ottobre 2009) sconfisse la Juventus recuperando due goals di svantaggio e chiudendo l’impresa con la marcatura di Hamsik: esclusa la caduta rovinosa coi rosanero, quello fu il primo vero e proprio segnale di una squadra senza personalità. Un marchio di fabbrica che l’ha accompagnata nei mesi successivi.

L’anno scorso, al completamento della decima giornata di ritorno, la Juventus di Ranieri aveva accumulato 62 punti: 2 in più di quanti ne ha avuto, nello stesso momento in quest’annata, l’Inter capolista del torneo. 17 in più della Juventus attuale, guidata dal "traghettatore" Zaccheroni.
Che tale rimarrà: a fine anno, salvo improvvisi ripensamenti, lascerà il posto ad un nuovo tecnico.
E’ un campionato livellato verso il basso: nonostante dieci sconfitte in 29 giornate, nonostante il cambio di allenatore, nonostante gli infortuni, nonostante…tutto, la Juventus può ancora (la matematica lo permetterebbe) arrivare quarta. Benedetto il rigore di Kharja (Genoa) realizzato al 52° del secondo tempo contro il Palermo: a tre punti di distanza, i rosanero sono ancora raggiungibili. Con i "se" ed i "ma" i perdenti creano una loro storia: quella che poteva essere e non è stata. Analizzando le partite giocate e tutti i punti buttati via in maniera scellerata, ci vuole poco a capire che non era necessaria una Juventus straordinaria per ballare in classifica, ad oggi, tra la terza e la quarta posizione.

Roberto Bettega dice di avere, nella sua testa, l’idea dei nomi che faranno parte della rosa per la prossima stagione. Da vicedirettore generale con responsabilità su tutta l’area sportiva, ad unico referente del mondo bianconero nell’attuale disastrosa situazione: di Alessio Secco si sono perse le tracce; Blanc ha dato segni di vita convocando l’ennesimo CDA (se ne sentiva la mancanza). Non c’erano vittorie che potessero dare fiato a nuovi proclami: meglio stare in silenzio.
Tra il quarto posto a fine campionato (con la possibilità di giocare i preliminari di Champions League), la qualificazione alla prossima Europa League e l’esclusione dalle coppe, ballano milioni di euro. Con quelli (o senza), si farà il mercato. "Chi" lo farà, è il primo (grande) dubbio da risolvere.
Cambiano le carte, ma non il mazziere: Jean Claude Blanc. Dal 2006 questa è la "sua" Juventus, così come nel passato ci sono state (tanto per citarne qualcuna) quelle di Boniperti o della Triade.
Giusto per evidenziare, ancora una volta, uno dei padri di questo progetto mai nato. E per non perdere di vista dove intervenire in primis nella prossima stagione.

Poulsen in campo a Genova al posto di Felipe Melo: l’acquisto più contestato della scorsa stagione non fa rimpiangere quello maggiormente acclamato la scorsa estate. Anzi. L’unico rammarico sono i 25 milioni di euro dispersi in riva all’Arno.
Chimenti in campo causa l’assenza contemporanea di Buffon e Manninger, mentre Pinsoglio rimaneva seduto in panchina: non è una Juventus per giovani. Anche se continuano a vincere a raffica da anni con i pari età. E non importa se il portiere della Primavera bianconera viene reputato un elemento (molto) interessante: meglio andare sull’usato sicuro (…).
Due tra i tanti elementi di discussione della trasferta genovese presi ad esempio per spiegare il complicato (e variegato) mondo bianconero di questi mesi.

Le ripetute sconfitte generano pessimismo, che finisce poi col confondersi con il realismo: una nuova battuta d’arresto (a Napoli) sembra essere alle porte. Se il ritiro anticipato (chiesto dai giocatori) avrà portato beneficio, lo si saprà soltanto dopo l’incontro di stasera.
La stagione è scivolata via da ogni pronostico, un piano inclinato che né l’avvento di Bettega, né l’arrivo di Zaccheroni sono riusciti a raddrizzare. Da squadra "malata" (con Ciro Ferrara) a "convalescente" (con lo stesso tecnico romagnolo), per tornare ad essere nuovamente "malata".
Il fisico non regge: troppi infortuni per la Vecchia Signora. Dentro la testa il problema più grave: quello di una squadra che ha assorbito le debolezze della società, per farle proprie.
Il tifoso non ha fiducia: crede nei risultati, quelli che non ci sono; crede ai fatti, ed è stufo dei proclami.
E spera: che la stagione finisca al più presto; che la dirigenza cambi "in toto"; che la proprietà faccia un passo indietro (o uno in avanti, andandosene); che la Juventus torni a lottare per vincere.
A partire da Napoli, dove si giocano due partite: una, quella che vedrà in campo i bianconeri contro i partenopei; l’altra, quella che si sta svolgendo tra le aule del tribunale.
Dove il tenente colonnello Auricchio non sa dare spiegazioni sulle mancate intercettazioni delle telefonate tra Bergamo e Moratti…

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

mercoledì 24 marzo 2010

O mio bel Ruggero Palombo...

Ruggiero Palombo... Sono quattro anni che ti aspetto al varco...

lunedì 22 marzo 2010

Pioveva. Sul bagnato...

Pioveva, governo (calcistico) ladro.
Abbiamo perso (di nuovo), ma poteva andare peggio: solo nelle ultime partite, il Siena ce ne aveva fatti tre, il Fulham quattro.
All’inizio sembravamo una squadra di calcio. Dopo, siamo tornati la Juventus di Blanc.
C’era Pinsoglio che si sottoponeva ai tiri dei giocatori bianconeri in fase di riscaldamento nell’immediato pre-partita: bel portierino davvero. Naturalmente dovremo aspettare compia la maggiore età calcistica (31 anni) prima di vederlo in campo da titolare.
Mentre Cassano scoccava il tiro del goal, mi stava per partire uno sbadiglio: ma cosa voleva fare da quella distanza e con un “lancio” così?
Quando ho visto cosa ha combinato Chimenti (autore anche di belle prodezze), mi sono dovuto trattenere: stava per partire qualcos’altro...
Cannavaro sembrava un difensore; Poulsen il migliore in campo dei nostri; Zebina insultato dai sostenitori bianconeri per tutta la durata della partita; Marchisio un talento; Iaquinta un lottatore (stanco e fuori condizione); Diego un trottolino amoroso del pallone (che voglia di entrare in campo per toglierlo dai suoi piedi…).
Trovo ancora la forza di scherzare: è il segno della disperazione sportiva che ormai si è impossessata di me.
D’altronde: non dovevamo diventare simpatici e far sorridere?

Gustiamoci due video: quello con le dichiarazioni di Beha riportate dagli amici di GiùLeManiDallaJuve e gli spezzoni (oggi li chiamano “highlights”…) di Saragozza-Barcellona, incontro terminato 4-2 per i blaugrana.
Beh… Godetevi il secondo dei tre goals segnati da Lionel Messi…



sabato 20 marzo 2010

Noi siamo la Juventus. Voi chi siete?

Un foglio bianco, vuoto, da riempire. Le idee che partono dalla testa, ma vengono stravolte quando passano attraverso il cuore. Che piange lacrime di rabbia e disegna uno dei soliti articoli, pieni di livore, voglia di contestazione, richieste di aiuto verso chi non vuole (o non può ancora) ascoltare.
I biglietti per la prossima partita della Vecchia Signora, a Genova, accanto al computer. La voglia di strapparli, gettarli dalla finestra e farla finita. Basta calcio. Basta Juventus. Quella non c’è più. E’ durata 109 anni. Dal 2006 è diventata la "nuova Inter". Nella sua versione da "perdente di successo".

La corsa per rientrare dal lavoro, tra treni, ritardi, traffico ed altri impegni per assistere all’ennesima figuraccia. Unica differenza col passato: stavolta si giocava alle 19.00. Questa mancava. Per le altre ore, compreso quelle al sabato durate la permanenza in serie B, avevamo già dato. Adesso i ceffoni vengono presi anche dall’allenatore che "preferiva Pistone a Roberto Carlos" (Mr. Roy Hodgson) e dal suo Fulham. Da società di calcio a organo di beneficienza calcistica: chiunque può passare, prendere i tre punti (o buttarci fuori da una coppa) e andarsene. Anche senza dire nulla. L’importante, però, è salutarli sempre con il sorriso sulle labbra.

Una società senza cuore, una dirigenza senz’anima, una squadra composta da un gruppo di ragazzini che cercano l’autostima prima della vittoria. Non si possono contestare: anche dagli spalti bisogna tenere un atteggiamento consono al nuovo stile. Se qualcuno prova a fischiarli, si viene mandati a quel paese. Se si accenna a qualche critica, ti viene fatto il dito medio.

Dalla grinta di Furino alle corse rabbiose di Davids, dai baffi di Benetti agli "schizzi" di Tardelli, dai tackle di Deschamps alla zazzera bionda di Nedved, da "Combi-Rosetta-Caligaris" a "Zoff-Gentile-Cabrini", da Boniperti a Scirea, da Sivori a Platini e Zidane, da Trapattoni a Lippi e Capello.
Un foglio bianco che si sta riempiendo. Il cuore che smette di scaricare rabbia e inizia a comporre odi di epiche imprese, di eroi calcistici passati alla storia per vittorie leggendarie. La lista è lunga, una chiavetta USB non basterebbe a conservarle tutte. Le consonanti e le vocali diventano note, la tastiera un pianoforte, per riproporre una musica diventata tradizione. Ma rimasta tale.

Negli sguardi dei giocatori juventini lo sconforto, il non riuscire a fare qualcosa di positivo. La paura di un vero contrasto, la voglia di prendere il pallone (e di non lasciarlo più) rimasta solo nelle intenzioni.
Fa male, se contrapposto allo spirito di chi indossava una maglietta che una volta era un’armatura, quando si aspettava che l’ultimo degli avversari entrasse in campo per chiudere la porta a chiave. E buttarla via. Solo allora la corrida poteva avere inizio. Già dai loro occhi si capiva che sarebbe stata dura: erano la vittima predestinata. Una sola frase: "noi siamo la Juventus. Voi chi siete?". Il pallone tra i piedi come unico obiettivo. Pur di averlo, si prendeva tutto quello che gravitava in zona: gambe, caviglie, stinchi. Le tibie degli avversari, una volta finito di "sbranarli", usate come filo interdentale.

Il silenzio prima delle partite come strumento per conservare la rabbia da sfogare in campo. Leoni, quelli di una volta, contrapposti ai gattini che oggi fanno le fusa ai tifosi. Proclami che nascondono insicurezze, figlie di una proprietà che immagina bastino 50 milioni di euro ogni estate da spendere per zittire quei tifosi nostalgici di una Juventus vincente e antipatica. Una dirigenza senza capo né coda, scelte di mercato insensate figlie di progetti immaginari e condite da consulenze inappropriate. Allenatori su cui scaricare le colpe di fallimenti continui.

Tifosi, milioni di tifosi, che devono tenere duro. Perché finirà: si tratta solo di certificarne la data.
La Vecchia Signora come amante, fidanzata, moglie, confidente, sorella, migliore amica, ragione di vita. Emozioni continue. Sofferenze, anche quando si vince. Momenti della vita di ognuno scanditi da partite, giocatori che vengono visti nascere e poi passare. A volte: a guardare gli incontri dall’ultimo anello, su in cielo. Accanto all’Avvocato. Che non ne dimenticava uno.

Un esercito di sostenitori confuso, guidato da comandanti che non hanno la più pallida idea di dove si trovi la porta per uscire dalla caserma. E non sanno da che parte leggere le mappe. Troppo brutto per essere vero. Infatti: non è vero. Continuerà così sino a quando le persone che lo guidano non cambieranno. E non saranno un Ribery o un Fabregas di turno a modificare lo stato delle cose. Messaggio per gli illusi: chi vuol capire, capisca.

Il foglio bianco è pieno di ricordi, messaggi, siluri, amare constatazioni.
E anche amore. Di un semplice soldato di frontiera, orgoglioso di essere juventino.
Il computer si spegne, l’articolo è stato ormai inserito. I biglietti finiscono nel portafoglio.
Vìa, verso lo stadio Luigi Ferraris. Avanti, incontro alla prossima umiliazione. A testa alta.
Urlando "noi siamo la Juventus. Voi chi siete?".
Rivolto, naturalmente, a chi - attualmente - dirige la truppa bianconera. Prima di mettere gli avversari nel mirino, si guardino i veri nemici. A quelli che sono in casa. Dopo, si penserà ad altro.
Come a far ripartire una storia ferma dal 2006.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

Questa volta, a differenza delle altre, anche su “Tutto Juve.com” ho inserito un video creato da me, lo scorso 21 giugno 2009. Ringrazio la redazione del sito per avermi concesso la possibilità di farlo. Il titolo, manco a dirlo, è “Noi siamo la Juventus”. Spero che stavolta venga visto anche dalle persone che devono fare i bagagli e andarsene. Buona visione

giovedì 18 marzo 2010

Tornatevene a Marrakech...


Grygera, Melo e la voglia di una Juve vincente


Dieci minuti di ottimo calcio. Poi: rilassatezza e black out mentale, prima ancora che fisico (il giovedì precedente c’era stato l’incontro di andata con il Fulham). Così con il Siena sono stati buttati via altri due punti, e con essi la possibilità (mancata) di superare il Palermo in classifica e avvicinare la Roma. Quella col fiatone vista in queste ultime giornate di campionato. Ma l’assurdità di quanto si è vissuto domenica con i toscani è rappresentata dalla portata dell’evento: tre goals recuperati in casa dall’ultima in classifica.

"Mi ha sorpreso Grygera. E' davvero forte". Felipe Melo pronunciò queste parole il 12 agosto 2009, davanti a Luca Calamai (giornalista della "Gazzetta dello Sport"), nel corso di un’intervista rilasciata a Tallinn, sede dell’amichevole giocata tra la nazionale estone e quella brasiliana.
Parole che fanno ridere amaro (per non dire piangere) ripensando a quanto accaduto all’Olimpico nel corso dell’ultima giornata di campionato. Il difensore ceco è stato il principale colpevole (ed "esecutore materiale", in occasione del primo goal subito) della rimonta patita dalla Juventus; il centrocampista brasiliano, nel contempo, ha risposto da par suo ai fischi dei tifosi.

Di Grygera non stupiscono gli errori o i limiti tecnici: per i primi, originati anche da improvvise amnesie, ci si era già abituati da tempo (basti pensare al passaggio al palermitano Budan in occasione del secondo goal all’Olimpico il 28 febbraio scorso, giusto per fare un esempio); per i secondi, era bastato un anno di convivenza (il primo trascorso a Torino) per non avere più dubbi in merito. Capita di sbagliare degli acquisti, anche alle migliori dirigenze. Poi, però, bisogna anche porvi rimedio. Senza farsi prendere dalle malinconie (perché si è ceduto Balzaretti? Perché si è bocciato Criscito senza appello?), e con la consapevolezza che quello dei laterali difensivi è (e rimane) un problema irrisolto da quattro anni a questa parte. Dal 2006, naturalmente.

Accolto dai tifosi con un entusiasmo (quasi) superiore a quello del connazionale Diego, l’acquisto di Felipe Melo si è rivelato dopo poco tempo un azzardo della dirigenza juventina: prezzo altissimo, un ruolo che avrebbe dovuto coprire in campo diverso da quello a lui consono (regista invece di mediano). Due ostacoli non facili da superare, anche per un neo titolare della nazionale verdeoro. Critiche su critiche, partita dopo partita: poi, dopo tanto, l’esplosione di rabbia. Le sue prestazioni hanno finito col rivalutare l’acquisto dell’anno precedente di Poulsen: un altro mediano preso per fare il regista. Un altro errore della dirigenza, caduto - in primis - sulle spalle degli stessi calciatori. Che poi, non solo per colpe loro, non riescono a rispondere sul campo. Di questo passo, se qualcosa non cambierà nei vertici societari, la prossima estate un nuovo giocatore (sbagliato) verrà preso dopo averne inseguito un altro con le caratteristiche che sarebbero servite a questa squadra. E finirà, a sua volta, per far rivalutare (per quanto possibile) l’acquisto di Felipe Melo. A meno che, nel frattempo, non abbia già lasciato la Juventus.

E ai tifosi juventini, da quelli che frequentano lo stadio Olimpico a quelli seduti in poltrona davanti alla televisione, da quelli attaccati alla cara vecchia radiolina sino ad arrivare a quelli incollati al monitor di un computer, non rimarrà che ingoiare l’ennesimo boccone amaro, frutto di decisioni sbagliate in partenza cui è difficile poi rimediare in corso d’opera. Litigando anche tra di loro, come già sta accadendo, dimenticandosi di essere tutti fratelli, figli di un unico grande amore. Da chi se la prende con chi contesta allo stadio, non accorgendosi - forse - che all’interno delle quattro mura si dicono anche cose peggiori, a chi lamenta che è facile far danzare le dita sulle tastiere dei computer, senza sopportare gli sforzi di chi è sempre in prima linea per seguire le sorti della squadra.
Molti, tra coloro i quali frequentano gli spalti dell’Olimpico, provengono da località diverse da Torino. C’è chi si carica sulle spalle centinaia di chilometri pur di veder giocare la Juventus, compiendo rinunce anzitutto a livello economico (per non dire di quelle personali) pur di passare una domenica accanto alla squadra del cuore. E se è vero come è vero che anche il pubblico italiano dovrebbe assumere un po’ di quella mentalità sportiva che manca alla nostra cultura, e che certi cori non possono essere giustificati (ma neanche stravolti dai media, in alcuni casi), è pur vero che da chi era abituato a vedere le pennellate di Platini, le veroniche di Zidane o le geometrie di Paulo Sousa o Emerson, ha tutti i motivi per lamentarsi di una squadra che da quattro anni non riesce a fare cinque o sei passaggi di fila nel corso di una partita. Se non in verticale, tra difensori, nell’ambito di una fase di palleggio della partita. Si finisce col discutere, come accade (anche) nelle migliori le famiglie, quando le cose non vanno bene. Nella speranza di poter tornare presto a gioire tutti insieme.

La Juventus di Ciro Ferrara era malata. Questa di Zaccheroni è in convalescenza. Lo era prima della gara con il Siena, lo sarà anche dopo. E’ stata costruita male in estate, e pur avendo a disposizione un undici di base di ottimo livello, i continui infortuni ne hanno minato le certezze prima, e i risultati poi. E non sarà certo un’Europa League (magari) vinta quest’anno a cambiare le valutazioni finali.
Mentre si parla di un allenatore da scegliere (o confermare) per un nuovo - ennesimo - corso, i tifosi chiedono di fare alla svelta. Perché mentre si ascoltano promesse, gli altri comprano, incassano e vincono. Perché le squadre si iniziano a costruire da ora. Così come le dirigenze che devono plasmarle. E chi ha già ampiamente dimostrato di non essere in grado di reggere certe responsabilità, è pregato di prendere la porta e andarsene. Per loro è sempre aperta. Sarebbe il primo vero passo per il ritorno di una Juventus vincente.
Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

mercoledì 17 marzo 2010

Da Calciopoli a Farsopoli


Domani inserirò un nuovo articolo. Questo, invece, è scritto da Francesco Delfino, anche lui redattore di "Tutto Juve.com". Ho deciso di metterlo nel blog per il fatto che mi è piaciuto molto e perchè lo considero un bel resoconto dei resti di quello tsunami che è stato chiamato col nome di "Calciopoli". Ma che ora si sta avvicinando a passi spediti ad essere definito "Farsopoli"...

In principio fu Calciopoli, autentica rivoluzione copernicana del calcio italiano, in grado di ridare etica e giustizia a un calcio malato, sotto la scure dei forcaioli assetati di giustizia, nemmeno troppo appagati da una retrocessione e dallo smantellamento della squadra più titolata d’Italia. Dalle udienze del processo penale a carico di Moggi e degli altri imputati del presunto scandalo del calcio italiano, sommessi spunti di riflessione emergono dai banchi degli stessi testimoni dell’accusa. Il colonnello Auricchio, a capo del nucleo investigativo che condusse le indagini, incalzato dai legali degli imputati, descrive i metodi investigativi adottati durante l’inchiesta da cui sono maturati i faldoni trasmessi alla procura sportiva per i successivi procedimenti disciplinari. Una sequela di non so, suppongo, non ricordo, in cui gli elementi a sostegno del sospetto e della direzione in cui indigare erano i titoli di alcuni giornali più che i fatti addebitabili, la menzione di presunzioni di estraneità ai fatti nei confronti di altre squadre del calcio italiano e tanto altro ancora. Tutti elementi che impongono una serie di valutazioni, non tanto sulla bontà dell’attività investigativa, sulla quale già si potrebbe ampiamente discutere. Ciò che viene prepotentemente all’occhio della critica è la memoria di alcuni comportamenti per così dire ambigui della stessa società Juventus.
Esisteva davvero quell’insormontabile difficoltà a smontare ab origine quelle stesse accuse che oggi sembrano cadere clamorosamente o che perlomeno escono parecchio ridimensionate? Era davvero necessario ammettere una colpevolezza di cui gli stessi accusatori paiono adesso poco convinti? Interrogativi che sanno di retorica certo, ma che oggi come ieri tornano d’attualità nel mare del lassismo di una società sempre prodiga d’iniziative quando si tratta di operare sul piano del marketing e dell’accaparramento d’introiti, quanto assente sul piano della tutela mediatica e non da ultimo processuale.
E’ notizia di oggi che nel nuovo stadio bianconero ci sarà spazio per un museo della gloriosa storia bianconera, spazio in cui contenere senza soluzione di continuità prestigiose vittorie e dolci ricordi. Il plenipotenziario Blanc pone l’accento sull'importanza di un brand che cresce e di un amore bianconero da coltivare nella nuova casa, e ha modo di evidenziare come la crescita del calcio italiano passi anche dalle vittorie delle rivali tanto da non negare di aver tifato Inter contro il Chelsea. Alle dichiarazioni del francese fanno da pendant le imprese della formazione nerazzurra di Mourinho, la quale non avrà un museo a San Siro, ma vivrà di ricordi forse un po’ più nitidi. Mentre i cavalli di battaglia della dirigenza bianconera, dal nuovo stadio al fair play finanziario, sembrano temi ad ampissimo respiro e lungi dal soddisfare nell'immediato la passione ela voglia di vittorie dei tifosi nell’immediato , da altre parti si celebra l’essenza del calcio, la tecnica, l’esistenza di campioni veri.
Poco importa se una trattenuta su Ivanovic diventa regolare o non rilevante o se gli investimenti producano indebitamento, mettendo a repentaglio l'equilibrio finanziario di un club. Il calcio vive di un proprio contesto dimensionale e storico in cui anche i comportamenti più discutibili possono essere legittimati dalla consuetudine. Questo è oggi e questo era ieri, con l'unica variante impazzita di quell'estate in cui tutto divenne illecito e tutto risolvibile mediante la condanna aprioristica della Juventus. Quel che conta è la vittoria, anche a costo di arrivarci con investimenti folli e con poco stile. Non può essere un demerito per gli uomini di Moratti, poiché nel calcio il secondo spesso è l’ultimo dei primi. Se la Juve oggi ha un museo, non vorremmo che esso si tramutasse in contenitore di cere in cui deporre il calco del famigerato piede del retropassaggio di Grygera o un monumento alle sfuriate di Felipe Melo.
Se di ricordi e di vittorie vogliamo parlare siamo fermi ai tempi della Juventus che fu, figlia di una storia che qualcuno ha voluto riscrivere e che oggi qualcuno, con la forza dei pochi che ci hanno sempre creduto, sta provando a rivisitare con serenità nelle aule di giustizia di Napoli. Non siamo ancora nel campo delle assoluzioni e del revisionismo storico definitivo, tuttavia sarebbe il caso che qualcuno, ove ancor di più sia chiamato all’uopo da prestigiosi incarichi istituzionali come la Presidenza della Juventus, iniziasse a riflettere sulla necessità di avocare a se il prestigio e la gloria di vittorie infangate che oggi sembrano poter essere clamorosamente ripulite.

sabato 13 marzo 2010

Verso il quarto posto con le bocche cucite


La zuccata di Legrottaglie, il missile di Zebina, il flipper di Trezeguet (forse con l’involontaria sponda di Salihamidzic): tre goals, tre indizi che fanno una prova. La Juventus è più forte del Fulham: lo si sapeva, ma visto e considerato che tutte le "regole non scritte" del mondo bianconero sono state stravolte in quella che sino a poco tempo fa aveva i contorni di una delle annate più disgraziate della storia juventina, era necessaria una verifica sul campo.
Senza il tiro (sbilenco) di Etuhu, deviato involontariamente da Legrottaglie (sempre lui), la pratica della qualificazione ai quarti di finale di Europa League poteva considerarsi conclusa ancor prima di imbarcarsi per l’Inghilterra per giocare la gara di ritorno.
Ora qualche pensiero rimane. Così come la consapevolezza che il peggio è alle spalle, ma la completa guarigione ancora non è avvenuta.
Deluso Mr. Hodgson, allenatore del Fulham, per non essere riuscito ad accontentare Massimo Moratti che - nelle ore precedenti l’incontro - gli aveva augurato di disputare una grandissima partita. Alla faccia del tifo degli italiani per le squadre italiane in Europa: lo vorrebbe lo spirito sportivo, lo richiede il ranking UEFA, non lo fa (quasi) mai nessuno. Fuori anche Fiorentina e Milan: rimangono Inter e Juventus (seppur in competizioni diverse). Sempre loro. Per ora…

Il siluro di Robben (talento e muscoli cristallini) rende vani i goals di Vargas e Jovetic. Ma le colpe, per il popolo viola, rimangono di Platini (presidente UEFA) e Ovrebo, l’arbitro che nella gara di andata (in Germania) convalidò la rete in netto fuorigioco di Klose. Goal, poi, risultato decisivo per la qualificazione al turno successivo.
Per la cronaca: si tratta anche dello stesso fischietto che non vide una marcatura in fuorigioco di Plasil nel pareggio interno tra Juventus e Bordeaux (15 settembre 2009). Era la prima partita del gironcino, ma non si protestò così tanto: lo stile-simpatia, introdotto quattro anni fa nel quartier generale bianconero, lo impediva. Larghi sorrisi e avanti: verso la prossima sconfitta.

Eliminato il Milan: i quattro ceffoni di mercoledì sera si sono uniti ai tre della gara di andata. Addio Europa, senza recriminazioni alcune: le assenze di Nesta e Pato non bastano a giustificare queste figure.
Sconfitte che si uniscono a quelle del recente passato, e che coinvolgono il calcio italiano in generale, in lento declino in attesa di una ripresa (ad oggi) non ancora prevista. Meno introiti, mancanza di programmazioni a lunga scadenza, troppo interesse verso la spartizione dei soldi rimasti, poco impegno verso la costruzione di stadi di proprietà,… E Calciopoli. Voluta? Ecco il conto.
L’eliminazione del "gigante" Real Madrid non deve trarre in inganno: in rosa ci sono sempre fior di campioni e il futuro è già disegnato. Uscita precoce in coppa, Liga difficile da vincere (c’è sempre un certo Barcellona "in casa" con cui competere): si tratta soltanto di aspettare il "manico" giusto, l’uomo che potrà riportare quell’equilibrio in campo che in passato diede un certo Fabio Capello. Potrebbe trattarsi di Mourinho, se la proprietà spagnola non ascolterà le voci dei tifosi (che ancora terrebbero Pellegrini). Ma ci sono più di 250 milioni di euro di investimenti (in una sola estate) da far fruttare. Al più presto. Più quelli che verranno spesi in futuro.

Tonfo dell’Inter in campionato. Nell’anticipo (dell’anticipo) del venerdì, Mascara e il suo cucchiaio cucinano un recupero che annulla la rete iniziale di Milito. Isterica contro la Sampdoria prima della gara di andata contro il Chelsea, stralunata al "Massimino" prima di quella del ritorno allo "Stamford Bridge". Mentre Balotelli inizia a preparare il suo addio facendosi assistere da Mino Raiola (il procuratore di Ibrahimovic), il Milan intravede la possibilità di portarsi a -1 dai nerazzurri (in caso di vittoria nel posticipo serale contro il Chievo). Ma la perdita di Nesta è più grave della battuta d’arresto degli uomini di Mourihno: si trattava di una delle due (sole) travi sulle quali si basava la difesa di un Milan votato all’offensiva per necessità. Ora rimarrà al solo (e bravo) Thiago Silva il compito di fronteggiare, aiutato dal compagno di turno, l’urto degli attacchi avversari. In una squadra troppo sbilanciata per vincere un campionato che vede solitamente primeggiare la più regolare.

Alla Juventus uno dei compiti all’apparenza più facili: il Siena in casa, ultimo in classifica. Squadra che il 9 gennaio, contro l’Inter al Meazza, giocò una grande partita. Persa, poi, per 4-3. Nella stessa giornata in cui la Juventus cedette per 3-0 all’Olimpico contro il Milan, quasi alla fine del periodo-Ferrara. Formazione, quindi, da prendere con le molle. Ora che la porta avversaria non sembra più essere grande come una piccola fessura, ma torna ad assomigliare ad un bersaglio da centrare con maggiore regolarità, un calo di concentrazione potrebbe diventare letale per le rinnovate ambizioni della squadra di Zaccheroni.
Ambizioni che, se confermate dai risultati, potrebbero convincere la proprietà ad investire cifre importanti nella prossima finestra del mercato estivo: si parla di un importo che oscilla tra i 50 e gli 80 milioni di euro. Indispensabili, per chi si deve sedere a trattare con le altre società per acquisti importanti.
Inutili, se dati in mano alle persone sbagliate. Ci pensi, John Elkann, se sarà ancora lui a tenere in mano le redini della Juventus.
Sino a quel momento: bocche cucite. Vale per tutti. Inutile parlare del terzo posto in classifica: ad oggi, quella, vede i bianconeri in quinta posizione. Giusto per non dimenticare.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

venerdì 12 marzo 2010

Indovina la partita


Fiorentina-Bayern Monaco
Juventus-Fulham
Catania-Inter

mercoledì 10 marzo 2010

La Juve tra Zaccheroni, Candreva e... Mr. Hodgson



"Zaccheroni ha un contratto fino a giugno, ma saremmo felici se ci mettesse in difficoltà: è ancora tutto da decidere". Così parlò Roberto Bettega il 18 febbraio scorso, all’alba della partita di andata dei sedicesimi di finale di Europa League tra Ajax e Juventus, in programma ad Amsterdam.
Hiddink e Benitez le scelte più prestigiose per il dopo-Ferrara; Roberto Mancini un’illusione (onerosa e fantasiosa) durata lo spazio di pochi giorni; quello con Claudio Gentile il vero ballottaggio che, una volta vinto, consegnò ad Alberto Zaccheroni una delle panchine più ambite del mondo.
Il ruolo? Traghettatore. Una via di mezzo tra allenatore e psicologo; una posizione dove le responsabilità non mancano, ma dove gli errori hanno comunque un "inizio" precedente rispetto al tuo arrivo; come impegno l’obiettivo di salvare il salvabile, portando la barca a destinazione con il minor danno possibile.
Poi: una stretta di mano, un "grazie" e un "arrivederci". Forse.

Il solo fatto che al "traghettatore" venisse concessa la possibilità, a parole, di potersi giocare qualche chance per la conferma nella stagione successiva (la prossima) alla guida della Juventus (da "allenatore"), venne visto come un altro, ulteriore segno di ridimensionamento della Vecchia Signora. Come se non fossero bastate una stagione disastrosa nata da un’idea estiva che aveva comunque sollecitato qualche fantasia, le promesse mancate e le continue incertezze sul futuro della società prima ancora che della squadra. Il primo tassello da sistemare, quello dell’allenatore, dava l’idea di una scelta dettata da una volontà di (ulteriore) ridimensionamento. Invece…

Buonsenso, esperienza, concretezza, ricerca di nuove soluzioni adatte alla squadra piuttosto che agli schemi prediletti, sprazzi di gioco in un deserto arido da mesi, risultati: in poco meno di un mese, molto (quasi tutto) è cambiato. La certificazione della bontà della scelta compiuta è rappresentata dalle dichiarazioni in difesa della "sua" Juventus, in relazione alle recenti polemiche sugli arbitraggi. Quelle che rappresentano la regola: prima del 2006 e dopo. In pratica: da sempre. Con una differenza: prima c’era chi la sapeva proteggere.

Prandelli, Gasperini, Allegri, Giampaolo, (ancora) Benitez,…. Nomi che vanno e vengono, una scelta da compiere in funzione di un’idea vincente.
Scelta che non potrà basarsi sul banale "non ha mai vinto prima" oppure "ha parlato male della Juventus".
Se questo fosse stato il metro di valutazione applicato nel passato, in bianconero non sarebbero mai arrivati tre dei più grandi allenatori della storia del calcio: Giovanni Trapattoni, Marcello Lippi, Fabio Capello.
Tra chi "non era nessuno" (come mister) prima di approdare a Torino, a chi si scagliava con forza contro i "gesuiti" che non "avrebbe mai allenato".
La forza di una società vincente è rappresentata dalla scelta di un gruppo dirigenziale funzionale all’unico obiettivo posto: vincere. Il fallimento della Juventus attuale è frutto proprio degli errori compiuti in questo senso.
Nel perseguire gli scopi vanno poi individuati i giusti protagonisti, tra i quali l’allenatore. Solo chi ha "veramente" competenza è in grado di scegliere la persona adatta (sia dal punto di vista umano che tecnico) a questo compito, a cui consegnare una fuoriserie: perché con una macchina di piccola cilindrata non si va da nessuna parte. Chiunque si trovi alla sua guida.
Scelta che, comunque, potrebbe anche portare alla conferma dello stesso Zaccheroni: di diritto (acquisito) giustamente entrato nella rosa dei candidati.

"E’ lui l’uomo giusto per uscire dalla crisi". Non appena la trattativa per l’acquisto di Antonio Candreva si concluse, le prime parole che Roberto Bettega (ancora lui) spese per il giovane talento furono queste.
Ci si trovava quasi al termine dell’era-Ferrara, e non si poteva intervenire in maniera massiccia sul mercato: per la difficoltà nell’acquistare giocatori in quel momento della stagione; perché l’allenatore sarebbe cambiato a breve; perché di soldi ne erano già stati spesi l’estate prima; perché c’era un bilancio sano da rendere splendido in vista dell’introduzione prossima-futura del famoso "fair play finanziario". Quello che era nei progetti (e nei sogni) di Jean Claude Blanc, nelle promesse di Platini e che rimane tuttora nelle convinzioni dei gestori del sito della Juventus (guardate che non partirà prima del 2015… Almeno…).
Tra Paolucci (tornato a Torino) e Lanzafame per l’attacco, la scelta migliore poteva essere… Immobile. Il "giovane" Ariaudo, con tutta probabilità, avrebbe meritato più fiducia del "vecchio" Cannavaro. Ekdal, a centrocampo, (forse) sarebbe servito da subito. Poi, però, arrivò lui: Antonio Candreva. Dopo le prime titubanze, pian pianino ha iniziato a prendere confidenza con i compagni e l’ambiente, sino a diventare un elemento importante. Si tratta di uno dei pochi giocatori in grado di unire la quantità alla qualità, concedendo allo stesso Zaccheroni la possibilità di inserirlo in ruoli diversi, cambiando - così - più volte il "vestito" della Vecchia Signora.

Che adesso ripartirà giovedì, per un cammino europeo che inizia a destare i primi interessi: la fame di vittorie, bruscamente interrotta nel 2006, è tanta. Ripartire con una Europa League può essere il giusto viatico per riprendere confidenza con l’unica lingua conosciuta dalle parti di Torino: quella della vittoria.
Avversario il Fulham, allenato da una vecchia conoscenza del calcio nostrano: Mr. Roy Hodgson. L’uomo per cui "Pistone era meglio di Roberto Carlos". Un "promemoria", l’ennesima riprova che gli scudetti - prima di Calciopoli - si vincevano e si perdevano sul campo. Altro che storie…

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

martedì 9 marzo 2010

Ciao Tonino (Carino da Ascoli)



ANCONA, 8 marzo - È morto stasera ad Ancona, nella sua abitazione, il giornalista Rai, Tonino Carino. Carino, 65 anni, era nato a Offida, in provincia di Ascoli Piceno. E all'Ascoli Calcio e alla squadra portata in auge da Costantino Rozzi, è legato il suo nome, grazie anche al tormentone «Tonino Carino da Ascoli» che ripeteva ogni volta quando faceva le sue telecronache delle partite a 90/o minuto. Carino aveva cominciato la sua carriera al Corriere Adriatico, poi era entrato in Rai, nella sede regionale di Ancona, dove era stato anche caporedattore dal 1991 al 2002. Di recente era andato in pensione, ma aveva continuato ad essere ospite di trasmissioni sportive come 'Quelli che il calcio'. Carino, che lascia la moglie e due figli, Riccardo e Daria, era malato da tempo.
(Fonte: Tuttosport)


Ciao Tonino.
Chi non ha vissuto "quel" calcio non può e non potrà mai capire quanto manca "quel" 90° minuto a noi appassionati. E quanta voglia avremmo di riabbracciare "quei" protagonisti delle nostre domeniche.
Salutaci Paolo Valenti

sabato 6 marzo 2010

Per una volta...


Cesare Prandelli tra Felipe Melo e il richiamo della Juve


Interrotto il cammino intrapreso con Zaccheroni, la Juventus deve rialzarsi e riprendere a vincere. Da subito. Perché se è vero che l’andatura di chi occupa le posizioni della parte medio-alta della classifica non è spedita come quella di chi la comanda, è altrettanto vero che le altre squadre non possono più aspettare i bianconeri: nonostante le 9 sconfitte accumulate sotto la guida dei due mister (8 con Ferrara), la Juventus è ancora in corsa per il quarto posto. A patto che la smetta di fare passi falsi. A cominciare da Firenze.

Dove si ritroveranno di fronte (dopo la gara del girone di andata) Felipe Melo e Prandelli. Questa volta in Toscana. Nella città che ha accolto il brasiliano lo scorso anno (accompagnandolo nel suo praticantato nel campionato italiano) e che ha adottato l’allenatore, stringendosi attorno a lui nel momento più difficile della sua vita extra-calcistica.
"No, consigli non ne voglio dare. Vi dico però che noi l'anno scorso avevamo creato un gioco che per Melo era possibile: non è un regista, ha visione ma non abbastanza. E così avevamo creato meccanismi di gioco facendolo giocare come mezzo destro del 4-2-3-1, con movimenti delle ali che facilitavano il suo gioco". Queste le opinioni espresse da Prandelli, lo scorso fine novembre, in merito al difficile ambientamento di Felipe Melo a Torino. Consigli (a Ferrara) non ne voleva dare, ma le sue indicazioni non sarebbero dovute passare inosservate: ecco come ci si comporta quando si vuol far rendere al massimo un calciatore. Lo si inserisce negli schemi di una squadra e, se non dovesse rendere al meglio, ci si interroga sui "perché". Prima di bocciarlo e cederlo a prezzo di saldo. Titolare nel Brasile, guidato da un Ct (Dunga) che - in alcuni frangenti - si rivede in quel giocatore. Venduto dai viola ad un prezzo altissimo (si tratta pur sempre di un mediano), tuttora ricercato da grandi squadre europee. Lasciato tra le braccia di chi cercava un regista e si è trovato un altro tipo di centrocampista: normale, per chi non è in grado di distinguere il prato verde del torneo di Wimbledon da quello del terreno di gioco dello stadio Olimpico.

Cremonese e Atalanta, prima di fare il grande salto verso la Juventus: così nacque (e maturò) il Prandelli calciatore. Quello che arrivò nella Torino dei fine anni settanta era un calciatore duttile come lo sarebbe diventato da allenatore. In panchina, effettivamente, trascorse la gran parte delle stagioni in maglia bianconera. Davanti a sé il Trap, dal quale aspettava un segnale per andare a riscaldarsi. Ed entrare quando la storia della partita, in buona parte, era già stata scritta: si trattava di mettere la firma o cambiarne il finale. Centrocampista, difensore: buono all’uso. Di quella adattabilità alle diverse situazioni ne ha fatto tesoro per la carriera successiva.
Tornato all’Atalanta, appese - dopo pochi anni - le scarpette al chiodo, chiudendo - di fatto - la sua prima vita dentro il mondo del calcio. Dopo aver raccolto scudetti (3) e coppe (Campioni, delle Coppe, Supercoppa Europea e Italia), il tutto con la maglia bianconera addosso.

Iniziò ad allenare a Bergamo, nel settore giovanile: un torneo di Viareggio, vinto nel 1993, fu il trampolino di lancio per il calcio professionistico. Lecce, Verona (1° in serie B nel 1999), Venezia e Parma. Qui continuò il suo lavoro sui giovani, forze fresche che dovevano sostituire quei campioni (Cannavaro, Thuram, Buffon, Crespo, Veron, Chiesa, …) che - poco alla volta - stavano abbandonando quella che era considerata, da anni, un’isola (calcistica) felice. Due volte al quinto posto, con gli attacchi prolifici di Mutu e Adriano (18 e 15 reti) e con Gilardino (23 goals), rimasto orfano del brasiliano passato a metà stagione all’Inter (Mutu si accasò al Chelsea).

Dopo, il salto alla Roma. Nel 2004. E la scelta di vita: abbandonare il calcio per stare accanto alla moglie gravemente malata. Non iniziò neanche il campionato alla guida dei giallorossi: l’altro, il suo, era più importante. Senza ombra di dubbio. L’anno successivo il ritorno in panchina, a Firenze. Da quel momento in poi, è storia attuale: dal Toni capocannoniere del 2006 (31 reti) al ritorno di Mutu, dal lancio di Montolivo all’addio a Pazzini, dall’arrivo di Jovetic al rilancio di Gilardino ai riconoscimenti personali del mondo del calcio per il suo lavoro. Tutto sempre puntando sui giovani, seguendo un progetto (vero) disegnato dai Della Valle e messo in pratica da Pantaleo Corvino. L’approdo in Champions League, il richiamo della Juventus: leggero nell’ottobre 2008 (primo vero periodo di crisi di Claudio Ranieri), più intenso l’anno successivo (arrivò Ciro Ferrara), forte e chiaro oggi.
Una scelta di vita da compiere. Un’altra, senza Manuela. Nel dicembre del 2007 lasciò Cesare a portare avanti la crescita dei due figli. Giovani, anche loro. Come quelli che hanno caratterizzato la vita calcistica di Prandelli. Tre strade: continuare in viola, approdare nella nazionale maggiore, tornare alla Juventus.

A Torino, trent’anni dopo, con Bettega alle porte della città ad aspettarlo, se la Juventus tornerà ad essere la Vecchia Signora. Con un altro proprietario ed altri dirigenti in grado di ricostruirla come quando lui era in panchina, ad aspettare un segnale dal Trap.
Ora che si è rifatta bella dopo le Olimpiadi invernali del 2006 e che si sta mettendo il trucco per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (2011), il capoluogo piemontese ha perso il gioiello più luminoso da esporre: la Juventus. Questione di tempo, tornerà.
Piazza San Carlo è pronta ad essere inondata di tifosi bianconeri, come una volta.
Con Cesare alla guida dei bianconeri, magari.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

giovedì 4 marzo 2010

Brady, Baggio, Del Piero e la rivalità con i viola

"Contro il Palermo sarà dura... La società mi ha chiesto di portare la squadra nei primi quattro posti". Queste sono soltanto alcune delle dichiarazioni che Alberto Zaccheroni ha rilasciato nella giornata di sabato scorso. Prima, cioè, dell’incontro con il Palermo.
L’input della società, facilmente intuibile leggendo tra le righe, è quello di "arrivare almeno quarti". Non è più tempo di parlare di progetti, di 5 anni indispensabili (o necessari) per tornare ai livelli dell’ultima "vera" Juventus… Almeno il quarto posto in classifica a fine anno: con quello, Zaccheroni avrà salvato il salvabile. Non sarà una eventuale Europa League alzata ad Amburgo a cambiare le carte in tavola. Quella nata dalle ceneri di Calciopoli non è (ancora) la Juventus: si è passati da una società che si autofinanziava e vinceva, ad una che finanzia (molto) ma non vince; dalla competenza all’inesperienza; dalle trovate geniali agli errori più banali; dagli acquisti a sorpresa e tenuti nascosti sino all’ultimo, agli interessamenti e alle trattative sbandierate ai quattro venti. Ma queste cose sono evidenti da tempo: qualsiasi risultato fosse scaturito dall’incontro con i rosanero, non avrebbe comunque modificato lo stato delle cose.
Si è persa l’occasione per staccare il Palermo in classifica, approfittare dei passi falsi di Genoa, Sampdoria e Cagliari e del pareggio in extremis del Napoli. Per i più ottimisti: anche di recuperare due punti sulla Roma, portandosi a meno 7. Ora, invece, arriva il difficile: nella situazione complicata di dover sbagliare il meno possibile, i bianconeri devono affrontare la delicata trasferta di Firenze.

Fiorentina e Juventus: due squadre divise da una rivalità storica, una delle tante che accompagnano la leggenda bianconera. Naturale, per chi è forte, potente e vincente: altro che simpatia.
Negli ultimi trent’anni sono state diverse le occasioni, cariche di tensioni, nelle quali le strade delle due società si sono incrociate. Le polemiche, di conseguenza, non sono mai mancate. Soltanto in una di queste, però, sono arrivate a contendersi uno scudetto sino alla fine. Capitò nella stagione 1981-82.

In quell’annata la Juventus vinse al fotofinish un torneo avvincente, allora a 16 squadre. Quarantasei punti a quarantacinque, quando la vittoria ne assegnava due (e non tre) come adesso. In panchina Trapattoni, mago della corsa a tappe: in casa si costruiva gli scudetti, per difenderli poi in trasferta. Era il torneo delle sei vittorie bianconere consecutive a inizio campionato, che sembravano il prologo di una passerella trionfale. Invece preannunciarono un campionato più difficile del previsto. Si infortunò Bettega (addio mondiali in Spagna). Era la Juventus dei Zoff-Gentile-Cabrini, della classe umana e calcistica di Scirea, del cuore di Furino (e Bonini), degli "schizzi"di Tardelli, dei goals di Virdis e Galderisi. Una macchina capace di segnare 48 goals in 30 partite, subendone solo 14. Era la stagione in cui - per la prima volta - comparvero sulle maglie i nomi degli sponsor, della seconda retrocessione del Milan in serie B (stavolta per demeriti sportivi), del grave infortunio di Giancarlo Antognoni (a causa del durissimo scontro con il portiere genoano Martina) e del rientro di Paolo Rossi dopo la squalifica dello scandalo del calcio scommesse.
Il 16 maggio del 1982 le due contendenti si presentarono a pari punti nell’ultima giornata di campionato: 44 a testa. Il menù del giorno diceva: Cagliari-Fiorentina, Catanzaro-Juventus. Il delitto perfetto avvenne nella seconda frazione di gioco, dove ai viola venne annullato un goal di Graziani, mentre - a Catanzaro - l’arbitro Pieri ne assegnò una per la Juventus. Goal, gioco, set, match: scudetto cucito sulle maglie bianconere, seconda stella. Polemiche a volontà a Firenze: in testa ai contestatori, manco a dirlo, Franco Zeffirelli (querelato da Boniperti per la famosa frase: "Ho visto Boniperti mangiare noccioline in tribuna, sembrava un mafioso americano" ). Dietro a quella Juve, c’era anche l’avvocato Agnelli: "Zeffirelli? È un grande regista. Ma quando parla di calcio non lo sto nemmeno a sentire".

L’ultimo marcatore bianconero di quel campionato fu William "Liam" Brady. Giocò a Torino per due stagioni (1980-81 e 1981-82, scudetti in entrambi i casi). Nonostante sapesse di dover abbandonare la Juventus per far posto a Michel Platini (che con Boniek andò a formare la coppia dei due stranieri "acquistabili" all’epoca per squadra), si fece carico dell’onere (prima ancora che onore) di calciare il rigore decisivo a Catanzaro. Cabrini o Paolo Rossi: avrebbe potuto tirare uno dei due. Invece andò lui. Con il rischio di sbagliare e non poter più rimediare all’errore. Un signore: dentro e fuori dal campo.

La (doppia) finale della coppa UEFA del 1990 vinta dai bianconeri (il ritorno si giocò nel campo neutro di Avellino); il (contestatissimo) passaggio di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus nell’estate immediatamente successiva; il ritorno del Divin Codino in Toscana e il famoso rifiuto a calciare il rigore contro la sua ex-squadra il 6 aprile del 1991; la vittoria dei viola a Firenze con goal di Batistuta che di testa approfittò di una incomprensione tra Peruzzi e Tudor nel dicembre del 1998; la vittoria dei bianconeri in trasferta nel primo anno di Lippi per 4-1 (lì, Baggio, il rigore lo tirò), nel giorno dell’addio dal campo ad Andrea Fortunato; la vittoria della Juventus a Firenze del 4 dicembre del 2005, con Camoranesi che esultò dalla bandierina del calcio d’angolo, prendendola e utilizzandola come fosse una chitarra, dopo aver realizzato la rete decisiva…
Nel bel mezzo, a Torino (nell’ormai ex-stadio Delle Alpi), il favoloso goal vincente di Del Piero il 4 dicembre del 1994. In un incontro dove Vialli si caricò sulle spalle la squadra, trasmettendo la sua grinta da leader ai compagni per una incredibile rimonta. Del Piero aggiunse il tocco di classe finale.
Sono trascorsi (quasi) 16 anni, e Alessandro è ancora lì.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com