lunedì 30 luglio 2012

Passarella, i raccattapalle e i "rischi del mestiere"


"Ho avuto due colloqui telefonici con Passarella, non comprendo il suo gesto, ma ho deciso comunque di rinunciare a qualsiasi azione penale. Mi ha spiegato tutto. Questa faccenda terminerà semplicemente con un abbraccio". Con queste parole Ivo Piana, il padre del giovane raccattapalle Maurizio, aveva virtualmente "chiuso" l'increscioso episodio accaduto allo stadio "L. Ferraris" di Genova l'8 marzo 1987.

Riavvolgiamo il nastro: Sampdoria-Inter, gara valevole per la sesta giornata del girone di ritorno del campionato di serie A 1986/87. Nei minuti finali dell'incontro (vinto dai blucerchiati per 3-1) Maurizio Piana, sedicenne raccattapalle presente a bordo campo, aveva rallentato le operazioni di ripresa del gioco quel tanto che era bastato a scatenare una reazione violenta da parte di Daniel Alberto Passarella, che lo colpì con un calcio alla gamba destra. Visitato immediatamente negli spogliatoi dal medico dei padroni di casa e successivamente all'ospedale "San Martino", gli era stata diagnosticata una ferita lacero-contusa, con una prognosi di dieci giorni.

Il fortissimo difensore argentino, in forza alla Beneamata da pochi mesi dopo aver disputato la sua migliore stagione alla Fiorentina (condita da ben undici gol realizzati), non era nuovo a simili comportamenti: quattro anni prima, il 10 aprile 1983, aveva preso parte ad una rissa con il massaggiatore del Verona. Poi, in ordine sparso: gomitata al granata Danova (20 marzo 1983, a Torino), pedata a Bonacina (nella gara contro l'Atalanta del 4 gennaio 1987), testata a Edinho (nella partita contro l'Udinese del 26 settembre 1982).

Il caso vuole che l'arbitro degli ultimi tre incontri citati fosse Maurizio Mattei, lo stesso del match tra i nerazzurri e la Sampdoria del marzo 1987. In quell'occasione, però, il direttore di gara non aveva notato l'incidente occorso al giovane raccattapalle. A segnalarlo, nel referto, aveva pensato uno dei guardalinee, consentendo così al giudice sportivo di comminare la sanzione di sei giornate di squalifica (poi ridotta a cinque) al giocatore. L'Inter - dal canto suo - aveva deciso di non presentare alcun ricorso e di multare il proprio tesserato, "girando" la somma al ragazzo sotto forma di "borsa di studio". Ivo Piana, non appena ricevuto la notizia, dichiarò subito di volerla devolvere in beneficienza.

Passarella, diventato oggetto di pesantissime critiche, si era chiuso in religioso silenzio. Rimase fedele al proprio atteggiamento anche di fronte ai giornalisti e ai fotografi presenti qualche giorno dopo a Genova, sotto l'abitazione del ragazzo, per immortalare l'incontro tra i due. In quell'occasione, infatti, si era limitato ad affermare: "Se volevate la mia versione, dovevate chiedermela prima".

Il presidente nerazzurro Ernesto Pellegrini, sollecitato in continuazione sull'argomento, alla fine era sbottato: "Cosa posso fare di più dopo il suo pentimento? Devo forse sparargli?". Il rapporto tra l'Inter e il calciatore era durato ancora per una stagione, dopodiché Passarella aveva preso la strada del ritorno a casa (al River Plate, il club che ha segnato la sua vita professionistica e del quale è tutt'ora presidente).

Maurizio Piana, invece, si è aggiunto all'elenco dei raccattapalle passati alla storia del calcio grazie ad episodi che li hanno visti protagonisti per un giorno. Domenico Citeroni era uno dei capostipiti del genere: ad Ascoli, nel lontano 1975, aveva respinto con il piede un pallone calciato dal bolognese Savoldi quando ormai aveva già varcato la soglia della porta bianconera.

Fulvio Collovati, diventato poi famoso come calciatore, qualche anno addietro aveva raccontato la sua personale esperienza: "A dodici anni ero raccattapalle a San Siro e un addetto della società ci raccomandava di accelerare il gioco se il Milan era in svantaggio o di rallentarlo in caso contrario. Ma tutto era fatto in senso bonario, mica ci chiedevano di essere scorretti: eravamo bambini, come quelli di adesso. Ho bellissimi ricordi: facevo il raccattapalle a Rivera, poi finii col giocarci insieme quattro anni e con lui vinsi lo scudetto della stella".
A lui, comunque, non era mai capitato di dover fronteggiare "rischi del mestiere" simili a quello capitato a Piana.
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lunedì 23 luglio 2012

Paolo Mantovani e la Sampd'oro


Dedicato alla memoria di mio nonno Osvaldo. Uno dei primi sampdoriani d'Italia.

Con la conquista dello scudetto da parte del Verona di Osvaldo Bagnoli ci si aspettava che le sorprese della stagione calcistica 1984/85 fossero ormai finite. All'appello, però, mancava ancora la doppia finale di coppa Italia, che avrebbe opposto la giovane Sampdoria di Eugenio Bersellini (società nata il 1° agosto 1946) al più blasonato Milan guidato dal veterano Nils Liedholm.

Nella gara di andata, disputata il 30 giugno 1985, i blucerchiati erano riusciti a sbancare "San Siro" vincendo per 1-0 grazie alla rete messa a segno dallo scozzese Graeme Souness, uno che di successi se ne intendeva: con la maglia del Liverpool, in precedenza, aveva fatto incetta di trofei, tra i quali spiccavano cinque scudetti e tre Coppe dei Campioni.

In previsione del match di ritorno i liguri avrebbero dovuto ovviare alle assenze dell'inglese Trevor Francis (uno dei pupilli del presidente Paolo Mantovani, nonché capocannoniere della manifestazione con nove reti all'attivo) e Roberto Galia. Per sostituire quest'ultimo la scelta era caduta su Renica (difensore ormai prossimo al trasferimento al Napoli), mentre sul fronte offensivo era stato deciso di puntare su Roberto Mancini come spalla del confermatissimo Gianluca Vialli.

Per il talentuoso calciatore originario di Jesi si trattava di un'importante occasione da sfruttare per mettersi in vetrina e guadagnare una conferma per l'anno venturo: "Questa Sampdoria può decollare e non accetterei di essere ceduto in prestito perché sarebbe segno di sfiducia da parte di chi mi 'affitta'. Sono disposto a lottare, con gli altri tre, per una maglia da titolare. Lo dirò al presidente Mantovani".

Conservata l'imbattibilità sino all'ultimo atto del torneo, ai padroni di casa per conquistare il primo trofeo della propria storia non restava altro da fare se non mantenere il vantaggio maturato nell'incontro precedente. Invece di mostrare un atteggiamento attendista, però, la Sampdoria aveva preferito imporre alla gara un ritmo altissimo, costringendo l'avversario sulla difensiva. Il gol del vantaggio, arrivato al 41' grazie ad un penalty concesso dall'arbitro Agnolin per un contatto tra Battistini e Vialli, era stato realizzato proprio da Mancini.

Al 61' era spettato a Vialli il compito di chiudere definitivamente i giochi, eludendo il controllo di due rossoneri all'interno della loro area di rigore per poi trafiggere Terraneo. A nulla era valsa la successiva rete di Virdis: la Sampdoria si aggiudicava meritatamente la Coppa Italia, diventando così la terza società ligure ad entrare nell’albo d’oro del trofeo dopo Vado (1922) e Genoa (1937). Bersellini, dal canto suo, aveva eguagliato lo stesso Liedholm e Nereo Rocco nella speciale classifica degli allenatori più titolati del torneo (tre per ognuno di loro), riuscendo oltretutto a farsi perdonare la retrocessione nella serie cadetta relativa al campionato 1976/77.

Nel giro di poche stagioni (prese in mano le redini del club nel mese di giugno del 1979) Paolo Mantovani era riuscito quindi a trasformare la Sampdoria in Sampd'oro: dai gemelli del gol blucerchiati (Vialli e Mancini, appunto) al trionfo in Coppa delle Coppe (1990), passando per la conquista di uno scudetto (1990/91) ed una Supercoppa Italiana (1991) sino ad arrivare alla finalissima di Coppa dei Campioni mancata d'un soffio a Londra contro il Barcellona di Johan Cruijff (1992), la lungimirante programmazione dell’imprenditore romano aveva - quindi - prodotto i risultati sperati.

Il totale delle coppe Italia vinte salirà poi a quattro, l'ultima delle quali (1994) conquistata con lo svedese Sven-Göran Eriksson in panchina ed Enrico Mantovani, il figlio, al timone del club. Lui era mancato il 14 ottobre 1993, lasciando in eredità una gestione societaria difficilmente ripetibile, tanto per i fatti attinenti al campo di gioco quanto per quelli esterni al rettangolo verde.

Dopo l'addio di Bersellini e prima dell'arrivo di Eriksson la guida blucerchiata era stata affidata a Vujadin Boskov, un maestro di calcio al quale sono legati i più grandi successi blucerchiati.
"L'unica cosa di cui non sono pentito, nella mia vita, è di essere diventato presidente della Sampdoria", amava ripetere Paolo Mantovani. La bontà del suo lavoro aveva confermato quelle parole.

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martedì 10 luglio 2012

Deschamps, un "capitano" vincente per la Francia


"Diventare ct della nazionale di calcio francese, era scritto nel più profondo del mio cuore''. E ancora: "Se non riuscirò a portare la Francia ai Mondiali, lascerò il mio posto". Parole e musica di Didier Deschamps, "Didì" per quei tifosi juventini che lo hanno potuto ammirare nel quinquennio della sua permanenza sotto la Mole dal 1994 al 1999.

All'epoca dell'approdo a Torino era un campione già affermato, ma ancora affamato di vittorie. Proveniva dall'Olympique Marsiglia, dove aveva alzato la Champions League battendo il Milan di Fabio Capello, uno squadrone che in Italia dettava legge da anni. A prima vista, data la corporatura minuta, faceva tenerezza; in campo (e negli spogliatoi), invece, mostrava la sua vera natura: quella di un "piccolo gigante".

All'interno del rettangolo di gioco si piazzava davanti alla difesa, per smaltire il traffico e dirigere le operazioni. La migliore descrizione delle sue caratteristiche l'aveva fornita proprio lui all'alba dell'esperienza bianconera come calciatore: "Non mi piace barare. Allora: non sono un fuoriclasse e neppure il giocatore che fa la differenza. Ma a centrocampo garantisco quantità e qualità. Uno di quelli di cui in genere si dice che non si fa notare, ma se c'è si sente".

Fece incetta di trofei, conquistando il mondo, oltre l'Europa, con la maglia juventina addosso. Marcello Lippi lo vedeva come un allenatore in campo. Assieme a Gianluca Vialli (il leader riconosciuto del primo gruppo a disposizione del tecnico viareggino) lo coccolarono ai tempi in cui - infortunato - era stato acquistato da Madama ma ancora non era riuscito a dimostrare il suo valore. A dimostrazione di un carattere che certo non gli manca aveva poi discusso animatamente tanto con il primo ("È vero, io e l'allenatore abbiamo litigato, ma non ci siamo presi a botte. Solo che non doveva mettermi in panchina senza dirmelo: l'ho saputo da altri, così non si fa") quanto con il secondo ("Ho sbagliato a scegliere il Chelsea: il calcio inglese non fa per me. E, poi, Gianluca è cambiato: non è più l' uomo che conoscevo"). Dopo Francia, Italia e Inghilterra aveva chiuso col calcio giocato in Spagna, al Valencia.

Come allenatore ha percorso la stessa strada intrapresa da calciatore: quella della vittoria. Conclusa l'esperienza al Monaco (dove aveva compiuto un mezzo miracolo sfiorando la Champions League nel 2004, perdendola nella finalissima contro il Porto di José Mourinho) ha guidato la Juventus al ritorno in serie A dopo il terremoto di Calciopoli. L'aveva lasciata (con tanto di rimpianti) per divergenze con l'allora gruppo dirigenziale capitanato da Jean Claude Blanc quando mancavano due giornate al termine del campionato cadetto, per poi fare ritorno a Marsiglia. Lì, tanto per cambiare, ha conquistato sei trofei in tre stagioni.

Adesso l'aspetta l'avventura alla guida della nazionale del suo paese, proprio lui che aveva alzato - da capitano - la coppa del Mondo il 12 luglio 1998, a Parigi. Due anni dopo, per la cronaca e la storia, era arrivato il turno dell'Europeo. Faceva parte di un gruppo di giocatori straordinari, dove tra gli elementi di spicco figurava il compagno di squadra - anche in bianconero - Zinedine Zidane.

Con la maglia dei Bleus ha accumulato 103 presenze, la prima delle quali avvenne grazie alla convocazione di Michel Platini, altra leggenda del calcio francese. Dopo l'ultima apparizione non riservò parole al miele per l'attuale presidente dell'UEFA: "Non capisco come mai Platini continui a sostenere che non sono un grande calciatore. Affari suoi, comunque".

All'inizio della carriera da allenatore gli erano sfuggiti, in un colpo solo, tanto il Chelsea di Abramovich quanto la Juventus del dopo Lippi (bis), così come era capitato con la stessa Francia, negli istanti in cui la sua Federazione era dubbiosa se rinnovare o meno il mandato a Raymond Domenech (2008). Il 15 agosto, in occasione dell'amichevole programmata contro l'Uruguay, potrà cominciare quel cammino che ha sempre desiderato.

Le prime parole da lui pronunciate, oltre a quelle citate in precedenza, sono state: "I giocatori non hanno più diritto all'errore".
Ripensando alla sua carriera, è facile immaginare che non stia scherzando.

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domenica 8 luglio 2012

Sotto la pioggia Detari fa divertire Ancona

"Il mio segreto? Ad Ancona gioco sempre, dunque mi diverto. Meglio qui che far panchina in una grande". Era felice, Lajos Detari, quel pomeriggio del 6 dicembre 1992. Con una doppietta personale, condita da una prestazione superba, aveva steso l'Inter guidata da Osvaldo Bagnoli nella gara valevole per la dodicesima giornata del campionato di serie A.

I nerazzurri si erano presentati nel piccolo stadio marchigiano (nuovo, con una montagnola al posto di una curva) convinti di fare bottino pieno per riuscire a tenere il passo del Diavolo tritatutto (e “vinci tutto”) di Fabio Capello. Ernesto Pellegrini, l'allora presidente della Beneamata, lo aveva esplicitamente dichiarato negli istanti precedenti l'incontro: "Il Milan? Lo riprendiamo, lo riprendiamo". Accompagnando il concetto con un più prudente "Chi segna per primo vince".

In effetti le cose andarono proprio così: al 19' di gioco l'ungherese aveva approfittato di un’incertezza a centrocampo dei nerazzurri per impadronirsi del pallone, difenderlo evitando il rientro di un avversario e poi calciarlo con violenza all'incrocio dei pali della porta difesa da Zenga. Il quale, vittima di un altro disimpegno errato di un compagno (Riccardo Ferri, nello specifico) si era ritrovato qualche minuto dopo a dover recuperare la sfera ferma in una pozza d'acqua formatasi ai limiti dell’area di rigore prima che diventasse preda di Agostini, punta dei padroni di casa. Il risultato fu un impatto tra i due, con la conseguente espulsione del portiere della nazionale.

La reazione dell'Inter allo svantaggio e all'inferiorità numerica era sfociata in due occasioni capitate a Davide Fontolan e Matthias Sammer e neutralizzate da Micillo, estremo difensore dell'Ancona. Nel secondo tempo, invece, finì per arrendersi gradualmente all'entusiasmo dei locali, sotto una pioggia battente che aveva ridotto il terreno di gioco ai limiti della praticabilità. Di fronte alla sconfitta maturata la tesi difensiva di Pellegrini si era basata proprio su questo particolare: "Non ho nulla da rimproverare ai ragazzi, come si fa a giocare bene su quel campo?".

Nicola Berti, centrocampista dei nerazzurri, la pensava diversamente: "Il fondo del campo è buono, su un altro terreno con quella pioggia non si sarebbe potuto giocare. Qui soltanto acqua che sprizzava ad ogni contatto. Ma non è che ci abbia decisamente danneggiato. I tre gol sono scaturiti da tre nostri errori".

Detto del primo, al 29' della ripresa era toccato a Sammer lanciare involontariamente il contropiede degli avversari: da un cross di Lorenzini la sfera era arrivata al solito Detari, che con un forte destro aveva poi trafitto Abate. Quando mancavano pochi minuti dalla fine dell'incontro il magiaro, ricevuto l'ennesimo regalo da parte della retroguardia interista (stavolta ad opera di Antonio Paganin), aveva dribblato tutti gli uomini che si era trovato davanti sino al momento in cui non era stato steso da un avversario. La palla, arrivata sui piedi di Lupo, veniva comodamente spinta a rete per il terzo goal, quello che chiuse definitivamente la partita.

L'aver iniziato il proprio percorso calcistico nella Honved di Budapest, laddove era esploso il leggendario Ferenc Puskas, aveva fatto presagire per Detari un futuro pieno di successi. In realtà la sua carriera diventò presto un girovagare di campionati, nazioni e squadre, non sempre di primissimo piano. Partì dall’Ungheria, per muoversi in Germania, Grecia, Italia (Bologna, Ancona), ancora Ungheria, Italia (Genoa), Svizzera, Austria, di nuovo Ungheria, Austria e Slovacchia. Poco prima di appendere le scarpette al chiodo aveva tentato un’esperienza come allenatore in Romania.

Rimasto nell'ambiente proprio come tecnico, ha conservato un buon ricordo della serie A ("E' completa: oltre alla tecnica c’è molta tattica. Mi piace l’idea che si studi l’avversario per non farlo giocare e poi colpirlo nel suo punto debole. E' stimolante per un allenatore"). Accostato a più riprese a società blasonate, sfiorò la Juventus - una di queste - dopo averne indossato la maglia nel corso di una tournée negli Stati Uniti.

Il talento non gli mancava certamente, come ammise con sportività Giuseppe Prisco dopo quella sconfitta patita dalla sua Inter: "L'Ancona? Bravo, determinato, ha meritato senza dubbio alcuno. Poi quel Detari. E' un campione vero, ha classe da vendere".
L’avesse utilizzata con maggiore costanza, magari non avrebbe avuto difficoltà nel trovare il compratore che aveva sempre sognato.

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sabato 7 luglio 2012

Ricomincia il massacro

Il fine settimana a livello di calciomercato rappresenta un momento di pausa, in quanto solitamente nel week end non si concludono affari importanti. Perciò, poiché i giornali devono vendere come tutti i giorni (ed anche di più visto che il tifoso in spiaggia o magari sul terrazzo o nel giardino di casa vuole leggere il suo bel quotidiano ma anche dare un’occhiata ai siti sportivi), diventa necessario sparare qualche notizia che faccia clamore per destare l’interesse di tutti. E quale argomento desta maggiore interesse ed esaltazione nei tifosi di tutte le squadre italiane? Le polemiche, le critiche e gli attacchi alla Juventus. 

Ne è un esempio il Corriere dello Sport di oggi, dove in prima pagina, sia sul quotidiano che sulla homepage, campeggia il titolone “Conte tiene in ansia la Juve”, a cui segue un articolo, vergognoso, dove si da per certa la squalifica di Antonio Conte, ipotizzando due scenari diversi: il primo prevede una squalifica leggera per omessa denuncia, tre o quattro mesi, il secondo invece una squalifica di almeno un anno (strano che non parli di radiazione, ma penso che sia questione di giorni), con conseguente cambio di allenatore già deciso da Elkann, il quale avrebbe da tempo suggerito ad Andrea Agnelli di pensare a chi mettere al posto di Antonio Conte. 

Nello stesso articolo si aggiunge che a rischio squalifica sarebbero anche Bonucci, Pepe, Quagliarella e Buffon. Il massacro è  ricominciato!!

 Questo articolo è di Danny67. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Un Bianconero a Roma

mercoledì 4 luglio 2012

Euro 2012: L'Italia non è pronta a vincere


Prima del fischio d'inizio della finalissima contro la Spagna Cesare Prandelli aveva riassunto la sua esperienza da commissario tecnico degli azzurri in una breve riflessione: "Quando ho preso la Nazionale due anni fa volevo soprattutto far innamorare la gente, farle ritrovare l’entusiasmo per l’Italia. E in questo senso abbiamo centrato l’obiettivo". Ultimati i novanta minuti di gioco ha lasciato Kiev con una profezia: "Vincere l'Europeo avrebbe fatto bene, ma avrebbe tolto l'equilibrio a qualcuno: non siamo ancora pronti a vincere, quando lo saremo vinceremo e rivinceremo ancora, senza alti e bassi né disagi".

Dall'esordio contro le Furie Rosse (10 giugno) sino all'atto conclusivo della manifestazione (1° luglio) sono trascorsi ventidue giorni, il tempo necessario per far decollare la squadra in mezzo a mille difficoltà per poi vederla atterrare in prossimità del traguardo esausta e priva di forze. Da subito si sono perse le tracce di alcuni tra i convocati da Prandelli, dato che la strategia scelta è stata quella di vivere alla giornata fino a quando i risultati minimi da raggiungere (Spagna, Croazia e Irlanda nel girone) e le bellissime prestazioni offerte (Inghilterra e Germania) lo hanno consentito.

Fallita la spedizione in Sudafrica due estati or sono sembrava palese che l'Italia non avrebbe recitato un ruolo di primo piano nel panorama calcistico per diversi anni. L'atmosfera era diventata simile a quella già vissuta nel periodo immediatamente successivo al campionato del mondo disputato in Germania Ovest nel 1974 (all'epoca del "vaffa" di Chinaglia a Valcareggi per la sostituzione decisa durante la gara vinta contro Haiti, per intenderci). Nel corso del tempo, allora come oggi, si era deciso di puntare su un blocco di giocatori provenienti da un unico club (la Juventus) completandolo e rinforzandolo con l'apporto di altri elementi di valore assoluto presenti in serie A. In Argentina (1978) arrivarono i primi segnali di risveglio, in Spagna (1982) - dopo il deludente Europeo ospitato nel 1980 - venne conquistato il terzo alloro mondiale.

"Non siamo ancora pronti a vincere", sostiene Prandelli. Il concetto, se allargato anche alla sua figura, può essere condivisibile. La Roja campione di tutto ha dimostrato che per "vincere e rivincere" sono necessarie esperienza, competenza, una sana programmazione e la fortuna di poter gestire un gruppo di calciatori dall'elevato spessore tecnico. Non sempre, però, la somma di tutti questi valori garantisce il successo: la Germania di Joachim Löw, in tal senso, ne è un chiaro esempio.

Stretta nella morsa dell'indifferenza generale (delle società e del pubblico, una volta tolti i maxischermi dalle piazze) adesso l'Italia proverà a conquistare l'accesso ai prossimi mondiali che si terranno in Brasile nel 2014. Ridurre l'avventura degli azzurri in questo Europeo alla sola disfatta patita in finale (0-4) sarebbe ingeneroso nei confronti dei progressi mostrati nell'intero arco del torneo. Esiste una base concreta sulla quale lavorare per il prossimo futuro. La strada da intraprendere per tornare a sollevare un trofeo, però, sarà lunga.
Convincersi del contrario potrebbe rivelarsi un errore imperdonabile.

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