mercoledì 29 settembre 2010

Accendiamo una stella

Sono romana e sono juventina. Sono juventina e sono romana.
Decidete voi l’ordine, per me è lo stesso. Sono orgogliosissima di entrambe le cose.
Sono fatta così, mi si riempie il cuore ogni mattina passando vicino al Colosseo, e tifo per una squadra di Torino.
Mi diverte la cinica ironia tipica dei miei concittadini e m’appartiene la lunga storia alle spalle che ci accompagna ogni giorno. Adoro l’abbacchio, la carbonara, i carciofi alla romana. Ma anche la polenta, la cassoeula, la pasta alla norma ed il kebab!
Parlando - qualche volta capita - tronco i verbi e contraggo le preposizioni articolate, uso (molto raramente) “er” al posto di “il” e magari utilizzo parole come “dindarolo” al posto di salvadanaio. Ma poi dico anche occhi “a pampineddra” e non “che stanno per chiudersi”; e “schiscetta” e non “cestino per merenda”.
“Moglie e buoi dei paese tuoi” è, per me, un detto limitante e superato.
Sono fatta così, romana e cosmopolita. Ed al cuore non comando, e quindi sono Juventina.
E sono fiera del testimonial scelto nello spot per il nuovo stadio, ossia il romano dei romani, Giulio Cesare.
Non si indignino i romani.
Non si offendano i torinesi.
Giulio Cesare è la storia, è la leggenda.
La Juventus è la storia, è la leggenda.

E per me questo è già più che sufficiente.
Poi possiamo andare oltre e cercare di esaminare il lavoro del pubblicitario.
Possiamo pensare all’idea del testimonial controverso che fa discutere e, quindi, colpisce l’attenzione dello spettatore. Prendere in considerazione la trasgressione mista a humor dello spot. Analizzare gli studi di mercato su “l’internet per totti” che ormai allegramente entra sia nelle case di Udine che di Caltanissetta. Valutare la trasversalità del tifo bianconero che non può, pertanto, limitarsi ad un unico testimonial piemontese. E, chissà, forse questo è solo il primo capitolo di una lunga saga e non sappiamo da chi altro sarà lanciato il dado.

In realtà non mi interessa, è che, diciamocela tutta, in fondo in fondo da juventina romana vessata, sentire Giulio Cesare pronunciare, con un chiaro accento romanesco: “…Prestateme l'orecchio. Noi qui faremo la storia, perché da oggi e pe’ sempre questo stadio sarà tutto nostro. E ognuno de voi ce potrà scrive er nome suo…. E ora amici, cittadini e tifosi, tutti inzieme pe’ ‘a squadra nostra: Foooorza Juveeee”, è una vera goduria!

Articolo pubblicato su Juvenews.net


Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero

Il Manchester City arabo alla conquista del mondo


Il cammino del Manchester City è sempre stato in salita. Lassù, vicino ai traguardi più prestigiosi, c’erano sempre loro: i rivali dello United, i Diavoli Rossi (Red Devils) con i quali ha dovuto condividere lo spazio nella stessa città sin dalla nascita.
Una storia difficile, quella dei Citizens, scritta ai margini della periferia dell’attuale Premier League, di fatto la competizione calcistica nazionale più seguita al mondo.
L’ultima vittoria in patria risale al 1968, quando il campionato portava ancora il nome di First Division. Trionfarono mettendo la freccia in dirittura d’arrivo, alla penultima tappa di un giro di 42 gare. Con due punti si portarono a casa il loro secondo titolo, che andava a fare il paio con quello conquistato nel lontano 1937. Chi arrivò subito dietro? Il Manchester United, ovviamente. Una doppia gioia per i tifosi della parte storicamente più debole della città. Non certo ai livelli del loro primo successo (in quell’occasione i Red Devils retrocessero in “Second Division”) e comunque destinato a durare poco. Perché? Il 29 maggio 1968, a Londra, si disputò la finale della Coppa dei Campioni tra lo United e il Benfica. Vinsero i primi, per 4-1. “Of course”, come direbbero gli inglesi. Giusto per ribadire chi “comanda”.
Il balzo che il City fece dalla quindicesima posizione del campionato precedente (1966-67) alla prima di quella immediatamente successiva, a distanza di un solo anno, sintetizza alla perfezione il cammino della società nel corso della sua storia ultracentenaria: dalle stalle alle stelle, dalla polvere agli altari, dalle salite più ripide alle discese più confortevoli. Per poi tornare nel dimenticatoio, come se si trattasse di una maledizione impossibile da far scomparire.
Tutto ebbe inizio nel lontano 1880, quando il nome dell’attuale compagine guidata da Roberto Mancini era “St. Marks West Gordon”. Nata nella parte più povera e disastrata della città, assimilò le caratteristiche della realtà che la circondava. Un prologo, forse, di un destino già scritto per i secoli a venire. Sette anni dopo, a seguito di una fusione con un’altra squadra locale, divenne l’”Ardwick A.F.C”, per poi trasformarsi in “Manchester City” - in via definitiva - nel 1894.
L’”Hyde Road” fu il primo stadio dei Citizens, sino a quando non venne sostituito dal mitico “Maine Road” (1923), teatro di tutte le loro sfide. L’attuale “City of Manchester Stadium”, frutto dell’assegnazione dei giochi del Commonwealth a Manchester nel 2002 e poi successivamente preso in gestione dal City, ha ospitato le partite casalinghe della squadra a partire dalla stagione 2003-04.
A completare la bacheca, oltre ai due successi in campionato, ci sono quattro coppe d’Inghilterra (1904, 1934, 1956, 1969), due coppe di Lega (1970, 1976), 3 supercoppe nazionali (la “Community Shield”, nel 1937, 1968, 1972), e una Coppa delle Coppe (1970).
Il punto più basso della sua storia il Manchester City lo toccò nel 1998, allorquando retrocesse nella terza serie del calcio inglese. Ritornò stabilmente nella Premier League soltanto a partire dalla stagione 2002-03.
Nel giugno del 2007 la “UK Sport Investments”, controllata da Thaksin Shinawatra (ex primo ministro thailandese), acquisì la quota di maggioranza del club, affidando la panchina a Sven-Göran Eriksson e consegnandogli una squadra nata da una campagna acquisti importante e onerosa. La prima di una lunga serie, che continua tutt’oggi con la società passata di mano all’”Abu Dhabi Group for Development and Investment” dello sceicco Mansour bin Zayed Sultan Al Nahyan. La proprietà araba si insediò il 1° settembre 2008. Poco più di tre mesi prima, il 21 maggio, il Manchester United aveva vinto la sua terza Champions League, sconfiggendo ai rigori il Chelsea nella finale giocata a Mosca. Un’altra coincidenza negativa. Of course…
Ma ormai la nuova strada era già stata tracciata, qualcosa stava cambiando, e gli orgogliosissimi tifosi dei Citizens se ne erano accorti. Era iniziata una storia diversa, che ora vede gli stessi protagonisti sfidarsi a parti invertite: i poveri che diventano ricchi, il City che si presenta al calciomercato con uno zaino pieno di sterline provenienti dai giacimenti petroliferi del suo sceicco, mentre i Red Devils annaspano nei debiti accumulati dai padroni americani.
Il primo colpo della nuova società fu Robinho, l’attuale calciatore del Milan, tolto dalle mani di Roman Abramovich (il magnate russo proprietario del Chelsea) che – dopo un lungo corteggiamento – era convinto di averlo in pugno. Proprio i rossoneri si videro pervenire, nel gennaio del 2009, un’offerta monstre per l’acquisto di Kakà. Non se ne fece nulla (il brasiliano approdò, in un secondo momento, al Real Madrid), ma questo non divenne certo un ostacolo nella marcia imperiosa di Mansour bin Zayed. Tanto è vero che (circa) un mese dopo si iniziò a vociferare di un’offerta pari a 500 milioni di euro per rilevare il 40% del pacchetto azionario del Milan.
Il suo patrimonio famigliare è stato stimato in circa 670 miliardi di euro, quello del consorzio (nel suo complesso) è difficile da stabilire, tanto è vasta la ricchezza. Tra le varie partecipazioni societarie si registrano anche quelle nella Ferrari (5%), nella Piaggio Aero (35%) e in Mediaset (di cui ha ridotto, pochi mesi fa, la propria quota all'1,873%). Quando il Manchester City venne messo in vendita per i noti problemi giudiziari di Thaksin Shinawatra, la società venne acquistata pagando il doppio dell’allora valutazione di mercato.
Ad oggi lo sceicco ha investito circa 1,2 miliardi di euro nel calcio, e alle recenti dichiarazioni preoccupate del tecnico dei Red Devils, Sir Alex Ferguson, che ha definito i Citizens “kamikaze del mercato”, è arrivata puntuale la risposta di Roberto Mancini: “Tutti i club hanno speso tantissimo, e non mi riferisco agli ultimi quindici anni, bensì all’ultimo triennio. Credo sia normale che per acquistare i migliori giocatori si debba fare qualche sacrificio economico. Rispetto l’opinione di Ferguson ma mi sembra che anche lo United abbia speso tantissimo sul mercato negli ultimi anni, quindi non mi sento di dargli importanza”.
Il calcio, assieme ai cavalli, rappresenta una delle due passioni di Mansour bin Zayed Sultan Al Nahyan.
E’ entrato nel mondo del pallone a piedi uniti, con l’obiettivo di portare la sua squadra in cima al mondo. Sul campo, nel ruolo di attaccante, il City schiera Carlos Alberto Tévez, ex del Manchester United, simbolo della riscossa dei “blu” sui “rossi”.
La freccia è già stata azionata, il sorpasso deve ancora avvenire. Non dovesse verificarsi in questa stagione calcistica, la sensazione è che di questo passo non si dovrà attendere ancora molto tempo. L’imperativo è quello di riprendere a vincere, ripartendo dal titolo del lontano 1968. Con la speranza di non tornare, da un momento all’altro, nuovamente nel dimenticatoio.
Of course…
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A Manchester con lo "spirito Juve"

Quello di Brian Kidd è un nome che a molti appassionati di calcio potrebbe non dire nulla. Invece, nel suo piccolo, è entrato anche lui a far parte della storia della Juventus. Il 15 settembre del 1976, a Manchester, quando ancora il City giocava allo stadio "Maine Road", realizzò la rete decisiva per la vittoria dei Citizens sui bianconeri.

Accadde quando ormai la prima frazione di gioco volgeva al termine, nell’incontro di andata dei trentaduesimi di finale dell'allora Coppa UEFA. A Torino, nella gara di ritorno, Scirea (prima) e Boninsegna (poi) consentirono alla Juventus di passare il turno. Dove la Vecchia Signora riuscì ad eliminare anche l'altra squadra di Manchester, lo United (0-1 e 3-0).

Alla fine di un lungo percorso, e dopo aver già perso due finali (contro il Ferencváros e il Leeds United nella vecchia "Coppa delle Fiere"), finalmente la Juventus conquistò quel trofeo (sconfisse l'Athletic Bilbao), il primo oltre i confini italici a finire nella sua bacheca. Con l'arrivo di Platini, nell'arco di sole tre stagioni si chiuse il cerchio: prima squadra ad aver conquistato tutte le manifestazioni continentali e mondiali, nonostante una partenza in ritardo di qualche anno rispetto alle altri grandi d'Europa. Il successo del 1977 rappresenta un vanto per la società, in quanto venne raggiunto - per la prima volta (anche in questo caso) nel nostro paese - da una rosa composta esclusivamente da giocatori italiani. Una vittoria "made in Italy", quindi. L'unico "straniero" tra tutti i giocatori, tanto per intenderci, era Claudio Gentile, nato a Tripoli.

Luigi Del Neri, prima dell'inizio di questo campionato, aveva preso ad esempio proprio "quella" Juventus nella speranza che la sua nuova creatura possa riuscire un domani, per caratteristiche temperamentali, ad avvicinarsi alla più celebre e vincente formazione della fine degli anni settanta del vecchio secolo. Una squadra che conquistò - sempre in quella stagione - lo scudetto, con il punteggio record di 51 punti (su 60 a disposizione, la vittoria ne valeva due). In seconda posizione arrivò il Torino, campione in carica, distaccato soltanto di una lunghezza. Dal 1975 (Juventus) al 1978 il tricolore non si mosse dal Piemonte: l'anno successivo la formazione allenata da Trapattoni bissò il successo, raggiungendo - così - quota 17 titoli nazionali.

Dietro la classe di Causio e Bettega la difesa, guidata da Scirea, veniva protetta da un centrocampo formato da Furino, Tardelli e Benetti. Spesso, quando si parla del carattere di ferro espresso dalla Juventus nei suoi anni migliori, si prende come esempio quella formidabile linea Maginot di guerrieri del pallone.
"Aggredire" per dominare e per non farsi schiacciare dall'avversario, "colpire" prima di subire: quei giocatori entravano in campo con la rabbia nel corpo, che scaricavano sul prato verde indipendentemente dai rivali di turno e dalla competizione a cui partecipavano.

Nelle parole di Del Neri c'era una sincera ammirazione per una squadra che è stata un punto di riferimento (anche) per molti allenatori. La nuova Juventus dovrebbe abbeverarsi di quello spirito vincente: si tratta di uno degli elementi indispensabili che oggi manca, e che la aiuterebbe a tornare ad essere se stessa nel minor tempo possibile.
I continui alti e bassi cui è soggetta in queste prime gare dell'anno sono simili alle difficoltà che un bambino incontra quando impara a camminare: a volte procede spedito, in altre inciampa su se stesso e cade. In maniera anche goffa. Ma gli altri non si inteneriscono e non aspettano: vanno avanti.

Poco importa stabilire ora quali siano i reali obiettivi della società: contano i fatti. A fine stagione si tireranno le somme. Se Krasic diventerà più forte o decisivo di Nedved, lo si potrà vedere al termine della sua carriera. O, eventualmente, della sua permanenza in maglia bianconera. Dal suo folgorante avvio di stagione sembra possibile ipotizzare l’arrivo a Torino - finalmente - di un giocatore veramente "importante", il primo dopo quanto successo nel 2006. E c'è da esserne soltanto felici. Se poi si scioglierà come neve al sole col il trascorrere del tempo, tutto l’ambiente se ne farà una ragione. Non sarebbe la prima volta.

Nella rosa bianconera la qualità non abbonda, e senza classe difficilmente si vince. E' un anno di "ricostruzione", l'ennesimo, dove non si fa tempo a gioire per essersi aggiudicati un incontro che subito dopo ci si ritrova con tre goals sul groppone come niente fosse. L'imperativo dev'essere quello di riappropriarsi di uno spirito battagliero che possa tornare a far parte del DNA della società. Poi, quando si inizieranno a correggere sia sul campo che in sede di calciomercato (il prossimo gennaio, ad esempio) i difetti della squadra, si potrà alzare l'asticella delle ambizioni.

Prima di giocare nel Manchester City Brian Kidd militò nello United, dove crebbe come uomo e calciatore nelle giovanili dei Red Devils, sino ad arrivare a vincere una Coppa dei Campioni nel 1968. Nel tabellino dei marcatori della vittoriosa finale di Londra contro il Benfica (4-1, il 29 maggio 1968) c'è anche il suo nome.
Attualmente fa parte dello staff di Roberto Mancini, come assistente tecnico. Domani seguirà anche lui la gara nel nuovo "City of Manchester Stadium". La speranza, visto dalla sponda bianconera, è che possa riconoscere sprazzi di combattività tipici di quella Juventus che lui conobbe poco più di trent’anni fa in quella attuale. Vorrebbe dire che la (nuova) strada intrapresa dalla Vecchia Signora potrebbe essere veramente quella giusta. A patto di non illudersi, in quel caso, di essere arrivati a destinazione: ci vorrà del tempo.
Ma da qualche parte bisognerà iniziare, prima o poi.

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domenica 26 settembre 2010

Però, questo Krasic...


La Juve alla ricerca dei tre punti. Poi ci sarà l'Inter...


Una partita in casa (quella con il Cagliari, stasera) e due in trasferta (Manchester City e Inter): alla Juventus mancano tre gare per terminare il primo tour de force stagionale (sette incontri in poco meno di un mese). La vittoria ottenuta a Udine aveva allontanato i fantasmi della scorsa stagione e avvicinato le speranze di veder nascere una Vecchia Signora più simile a se stessa di quanto non lo fosse (mai) stata negli ultimi quattro anni. Pastore e i suoi compagni rosanero hanno immediatamente riportato tutti con i piedi per terra: c’è ancora da lavorare. Parecchio.

E’ un cantiere aperto tanto il nuovo stadio bianconero che sta sorgendo dalle ceneri del vecchio "Delle Alpi" quanto la squadra allenata da Del Neri. L’esordio schock di Bari in campionato ha subito mostrato alla Juventus le difficoltà che incontrerà in questa stagione, almeno sino a quando non diventerà "squadra" in tutti i sensi. Anche nell’equilibrio tra i vari reparti da (man)tenere in campo.

Nonostante tutto potevano bastare soltanto tre punti in più in classifica, quelli che sono venuti meno nelle prime quattro giornate di campionato disputate sino ad ora, per poter raggiungere - nel caso di una vittoria contro il Cagliari - l’Inter in classifica. Ovviamente questo non avrebbe cambiato gli obiettivi e le prospettive a medio termine della società: l’importante è arrivare in zona Champions League a fine anno. Qualsiasi posizione al di sotto di quella, rappresenterà semplicemente un fallimento. Almeno per quello che riguarda questa stagione sportiva.

Il Milan ha a disposizione Ibrahimovic, e te ne accorgi nelle gare come quella giocata ieri pomeriggio dai rossoneri a San Siro contro il Genoa: basta una zampata del suo piedone, ed hai vinto la partita. Alla Roma, nell’anticipo serale, ci è voluto Vucinic, ma alla fine è riuscita a fermare l’Inter. Totti e Del Piero, giocatori simbolo, ormai da anni, di Juventus e Roma: in questo momento la presenza del giallorosso "costringe" Ranieri a tenere in panchina il montenegrino, mentre a Torino - sponda bianconera - le giocate dell’attaccante sono rimaste le uniche a dare un po’ di imprevedibilità alla squadra. Tolto lui, rimangono le folate di Krasic e poco altro. Nell’attesa di scoprire Martinez, di vedere giocare Aquilani con continuità e salutati i "piedi buoni" partiti dalla stessa Torino la scorsa estate verso altri lidi.

Carlos Alberto Tévez stende il Chelsea di Carlo Ancelotti, aggiusta la mira per la gara di giovedì prossimo contro la Juventus e contribuisce a riportare il Manchester City nelle zone alte della Premier League. Sarà dura, contro i Citizens, così come si preannuncia terribilmente difficile la trasferta a Milano contro l’Inter domenica prossima. Delle partite giocate dai bianconeri dall’inizio di questa stagione le più delicate sembrano essere le tre che stanno per arrivare adesso. Quella con il Cagliari, poi, è diventata fondamentale: per i tre punti (diventati indispensabili per allontanarsi dalla zona bassa della classifica), e per ritrovare subito la convinzione nei propri mezzi.

Anche quest’anno il campionato sembra caratterizzato da continui alti e bassi, figli di un equilibrio che nelle ultime stagioni ha rappresentato un peggioramento generale dei valori espressi dalle principali compagini della serie A. Una squadra soltanto, ad oggi, non ha ancora perso una gara: il Cagliari, guarda caso. La Roma, che in estate veniva posizionata dietro le due milanesi nell’ipotetica griglia delle favorite (in attesa dei loro scivoloni), ha già ceduto il passo agli avversari in due occasioni; idem per la "neonata" Juventus. Milan e Inter hanno perso una gara a testa (su cinque a disposizione).

La classifica è ancora corta: i nerazzurri, l’anno scorso, alla quinta giornata, avevano già accumulato tredici punti, tre in più di quest’anno. Con il bonus del derby vinto 4-0.
In testa, assieme a loro, c’era la Juventus.
Classifica che, secondo il pensiero di Del Neri, "in questo momento non ci deve interessare. Abbiamo altri problemi". Uno di questi, è proprio il fatto che mancano dei punti.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

venerdì 24 settembre 2010

giovedì 23 settembre 2010

Avanti sulla strada tracciata da Del Neri

"Se non ci fosse stato il goal preso nel finale sarebbe stato un secondo tempo perfetto, e si è visto il calcio che faremo vedere quest'anno. Dobbiamo solo cancellare i goals presi, ma la strada tracciata è quella giusta"
Così Del Neri analizzò, a caldo, l'incontro tra la Juventus e il Lech Poznan dello scorso giovedì (16 settembre).

Dopo aver regalato il primo tempo agli avversari, proprio a pochi minuti dall'intervallo una rete segnata da Chiellini diede il via alla rimonta bianconera che si sarebbe (poi) concretizzata nella ripresa. Al successivo (splendido) goal del momentaneo vantaggio di Del Piero si aggiunse - però - la realizzazione di Rudnevs, che fissò il risultato sul 3-3 finale.

Artjoms Rudnevs come Sergio Pellissier, l’ultimo giocatore in grado di segnare una tripletta contro la Juventus prima dell’attaccante lettone. Accadde allo stadio Olimpico di Torino, il 5 aprile del 2009. Il risultato finale? 3-3, manco a dirlo. Quella gara segnò "l’inizio della fine" dell’era Ranieri: la giornata precedente i bianconeri vinsero a Roma per 4-1 contro i giallorossi; in quelle successive persero contro il Genoa (3-2) e inanellarono una serie di pareggi (cinque) che portarono all’esonero dell’allenatore romano.

La dichiarazione di Del Neri nell'immediato dopo gara europeo è simile a quella rilasciata il giorno precedente la stessa partita: "nel secondo tempo contro la Samp ho visto un'ottima Juve: questa è la strada giusta".
Anche perchè - sul campo - non era cambiato nulla rispetto alla domenica precedente: sia gli aspetti positivi che quelli negativi della gara contro i blucerchiati si erano ripresentati puntuali il giovedì sera.

Abituato a costruire squadre nel corso della sua lunga carriera, l'allenatore bianconero ha chiaro in testa quello che dovrà essere il risultato finale del proprio lavoro. Le difficoltà che gli si presentano in ogni occasione variano da una società all’altra: diversi sono i calciatori da assemblare, le aspettative che ogni realtà richiede, il minore o maggiore tempo a disposizione per riuscire nel suo intento.

A Torino si è portato dietro la fama e l'etichetta del "dittatore democratico", legato a quel 4-4-2 da far interpretare a giocatori funzionali alla sua idea del calcio. Rigidità negli schemi e nell'applicazione del lavoro settimanale, ma anche umanità. Come quella mostrata con quel bacio a Felipe Melo al momento della sua sostituzione a Udine.

Il cartellino giallo preso dal brasiliano al termine della prima frazione di gioco aveva acceso la lampadina sul rosso: se ne erano accorti i compagni, così come, ovviamente, lo stesso Del Neri.
Una sua eventuale sostituzione subito dopo l'intervallo avrebbe corso il rischio di demotivare un giocatore che vive di stimoli, e fatica a contenere gli eccessi.

Rientrando in campo con la testa "giusta", Melo ha dato ragione alla scelta dell’allenatore, superando - di fatto, sul campo - un esame. Uno dei tanti a cui sapeva di essere sottoposto in questa stagione, che si spera possa essere quella della riscossa. Sua e della Juventus.

Il compito che la società, ad ogni livello, sta portando avanti nel tentativo di ricostruire quanto distrutto dal 2006 ad oggi, presenta difficoltà evidenti a tutti. E' bastata una vittoria convincente per riportare un po’ di serenità, elemento fondamentale per affrontare i prossimi impegni. A questo punto - data la sospensione dello sciopero previsto per questo fine settimana - si andrà avanti senza soste sino al 3 di ottobre, giorno dello scontro con l’Inter.

Chiusa la parentesi friulana, tornano alla memoria altre parole pronunciate dallo stesso Del Neri prima di quella gara: "Quando saremo più attenti e fortunati le cose si assesteranno, ricordandosi però che per la Juve ogni partita sarà sempre una battaglia, ci sarà sempre da dimostrare tutto".

L’esito della partita e l’atteggiamento positivo tenuto in campo dai giocatori ha permesso all’allenatore di variare - finalmente - i contenuti delle sue dichiarazioni.
Avanti sulla strada tracciata da lui, quindi. Sapendo che ci saranno anche momenti di ricadute, tipiche delle squadre "in costruzione".
Ora, però, con tre punti in più in classifica si ragiona meglio.
Basta solo non fermarsi.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

La dedica di questo articolo è scontata quanto sincera

domenica 19 settembre 2010

Sembrava "la" Juventus...


Alla ricerca di una vittoria per smuovere la classifica

Dalle stelle alle stalle: potrebbe presto diventare il nuovo slogan del Milan di Massimiliano Allegri di questo primo scorcio di stagione. Dagli acquisti roboanti delle ultime giornate del calciomercato estivo, con il ritorno in Italia di Ibrahimovic e l’arrivo di Robinho, alle prime (inaspettate) stecche in campionato. Nel mezzo, due reti dello svedese nell’esordio dei rossoneri in Champions League contro l’Auxerre. Dopo l’anticipo giocato ieri sera il Catania torna in Sicilia con un pareggio prezioso (1-1), mentre il Milan perde altri due punti, da sommare ai tre lasciati a Cesena nella prima trasferta stagionale.

Dovrebbero essere proprio i rossoneri i principali rivali dell'Inter in serie A, quest'anno: in fase di rodaggio continuano a dare l’idea di una squadra con molti solisti ma poco equilibrio. E con diverse lacune del recente passato ancora presenti. Certo, se la musica delle prime due giornate (e poco più) del campionato dovesse continuare ad essere questa, al tavolo dei possibili vincitori ci sarebbe spazio per altre compagini, compresa la Roma del Ranieri "furioso". Quello che risponde a tono alle presunte dichiarazioni di Totti contro di lui, e che assicura di avere un gruppo "con la palle". Fosse così sarebbe già tanto, almeno rispetto alla sua precedente esperienza alla Juventus. Dove guidò una squadra così variabile e volubile da essere definita - da lui stesso - un "camaleonte solido".

Sinisa Mihajlovic, dopo la sconfitta della Fiorentina contro il Lecce, lo aveva detto: "vedo giocatori molli, li prenderò a calci nel sedere". Eccolo servito: al termine della disfatta interna di ieri pomeriggio contro la Lazio (1-2, dopo essere passati in vantaggio grazie alla rete segnata su rigore da Ljajic), sono stati proprio i tifosi viola ad invitarlo a procedere in tal senso. Inutile, poi, il tentativo del tecnico di fare marcia indietro nei momenti immediatamente successivi alla gara ("è soltanto colpa mia"): il danno era già stato fatto.
Un José Mourinho capovolto: tanto l’allenatore portoghese protegge i suoi calciatori da tutto e da tutti e mette il proprio ego di fronte al mondo intero, quanto il serbo è riuscito - ora, a Firenze - ad ottenere il consenso dei propri sostenitori, mandando alla berlina i giocatori viola. Principali colpevoli, agli occhi della tifoseria, di quel solitario punticino in classifica dopo tre giornate di campionato.

Che poi è anche il punto di partenza della nuova Juventus di Del Neri. Quella che inizia a giocare le partite solo dopo i primi quarantacinque minuti, che dovrebbe avere il punto di forza nella difesa e che invece - ad oggi - è diventata il suo punto debole, che dovrebbe dominare le fasce invece di soffrire proprio in quelle zone del campo.

Un punto dopo due partite è poco, per una grande squadra rinnovata figlia di una società nuova di zecca. E’ "niente" se ti chiami Juventus. Con i "se" ed i "ma", con le richieste di fiducia e di tempo di cui poter disporre per assemblare - pezzo su pezzo - la sua nuova creatura, con l’atteggiamento ancora timido di alcuni giocatori e via discorrendo, puoi spostare l’asticella delle aspettative di qualche giorno. Forse anche di qualche mese. Ma se stasera la classifica bianconera non mostrerà qualche novità, l’atmosfera diventerà pesante.

In campionato, dopo la gara di oggi pomeriggio, la Juventus disputerà le prossime due partite in casa (Palermo e Cagliari) ed una in trasferta (l’Inter), per chiudere, così, questo primo tour de force stagionale.
Udinese, Palermo, Cagliari e Inter: lo scorso anno, tra andata e ritorno, su otto gare giocate contro queste squadre e 24 punti a disposizione, la Vecchia Signora riuscì a racimolarne soltanto 9.

L’ultima disastrosa stagione bianconera non deve certo essere presa come punto di riferimento, ma piuttosto come monito per l’avvenire. Se poi si riuscisse a passare, con il trascorrere delle giornate, dalle stalle alle stelle, sarebbe il massimo.
L’unica preoccupazione, per ora, rimane quella di non rimanere fermi ad un punto.

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giovedì 16 settembre 2010

Chiellini e Del Piero non bastano: la "banda del buco" pareggia ancora

Almeno in Europa League, quest’anno, la Juventus vinceva.
Ad essere pignoli: nell’anticamera di quella manifestazione. Tra il terzo turno dei preliminari e lo spareggio: quattro vittorie su quattro, in casa come in trasferta, a Dublino come a Modena, Graz e Torino.
Proprio Dublino ospiterà la finalissima, in programma il prossimo 18 maggio. Ma con una squadra che non regala certezze, ma soltanto amnesie in campo miste a fiammate d’orgoglio, non si possono fare programmi a lunga scadenza. Anche perché, ad oggi, non converrebbe. Meglio vivere alla giornata.

Del Neri lo aveva detto, nella conferenza stampa che anticipava la gara di stasera: “Il Lech Poznan è una squadra temibile, da rispettare”. Ma sembrava la più classica tra le dichiarazioni di un allenatore che ha il timore di un calo di concentrazione da parte dei suoi calciatori, in un momento in cui quelli - di certo - non mancano. Invece...

Stilic è la mente, Rudnevs il braccio e l’esecutore materiale di una tripletta che consente ai polacchi di riportare il punteggio finale del tabellone esattamente dove si era fermato domenica scorsa, al termine della gara contro la Sampdoria: 3-3. Gli uomini non sono gli stessi, il film della partita regala la sensazione di una proiezione già vista: primo tempo negativo dei bianconeri, reazione nella ripresa, rete subita quando la gara sembrava ormai conclusa.

Il 4-4-2 di Del Neri è fisso, la parte variabile è legata agli uomini che scendono in campo: in mezzo, a formare la diga davanti alla difesa, è stata scelta la coppia Sissoko-Felipe Melo. Che tra di loro agiscono in perfetta sincronia: quando uno avanza, l’altro lo segue. Lasciando scoperta la retroguardia.

Sotto di due goals, è Chiellini a riportare la situazione in parità, spingendosi nei territori dove le punte ancora non riescono ad essere incisive e decisive. La prima tra le sue due reti ha un’importanza particolare: segnata quando il primo tempo era agli sgoccioli, ha permesso alla squadra di andare negli spogliatoi con lo svantaggio dimezzato. Il modo migliore per cercare di ribaltare il risultato nella ripresa.

Dove finalmente la Juventus decide di giocare: gli esterni a centrocampo sono più vicini ai centrali, i due nel mezzo si dividono i compiti, la squadra sembra più equilibrata. La partita viene riportata sul binario di un giusto equilibrio, sino a quando Del Piero non decide di tirare fuori uno dei tanti conigli dal suo cilindro, esplodendo un sinistro da una trentina di metri che porta la Juventus in vantaggio. Il problema è che poi, dall’altra parte del campo, Rudnevs lo imita alla perfezione.

Via Camoranesi, Giovinco dirottato a Parma (dove ha ritrovato Candreva), Diego spedito in Germania tra le braccia di Dieter Hoeness (che si è tenuto stretto Dzeko), Martinez – guarito dai primi malanni fisici della stagione – che adesso dovrà giustificare la spesa e la fiducia riposta in dosi massicce da parte della società nei suoi confronti: ad oggi, l’unico membro della tribù dei piedi buoni che sembra parlare la stessa lingua di Del Piero è Krasic. Dove non arriva la classe, il serbo aggiunge la corsa e l’impegno.
Ma è poco, troppo poco. Soprattutto se nell’interpretazione delle partite da parte della squadra vengono a mancare “quantità” e “intensità”.

Ben venga Aquilani, nella speranza che torni ad essere il giocatore ammirato a Roma.
E pensare che proprio ieri Carlos Alberto Tévez, l’attaccante del Manchester City prossimo avversario della Vecchia Signora in Europa League, aveva detto che per lui “la Juventus è la favorita del girone, una grande avversaria e per questo non dobbiamo perdere un colpo. I bianconeri finiranno al primo posto, qualsiasi altra classifica sarebbe una sorpresa”.
Questa volta annunciata.

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Tre passi

Sappiate inoltre che io, come tutti voi, sono in vigile attesa di conoscere le decisioni definitive della giustizia sportiva che dovrà dimostrare, di essere uguale per tutti in qualsiasi momento storico. Ecco perché farò sempre sentire la voce della Juventus in FIGC, in Lega Calcio e in ogni altra sede”.
Con queste parole Andrea Agnelli rassicurò i tifosi riguardo alla partita che la Juve sta tutt’ora giocando non in campo, bensì nelle aule dei tribunali.
E oggi un primo piccolo risultato è stato raggiunto, la FIGC ha acquisito tutte le registrazioni telefoniche inerenti il procedimento su calciopoli. Parliamo di 228 cd, 170 mila telefonate!
Si proprio quelle che “piacesse o meno non esistevano”.

Ovviamente, a questo punto, il primo passo che ci aspettiamo dalla FIGC è la revoca dello scudetto assegnato all’Inter. Scudetto assegnato per “motivi etici” alla squadra, che non solo ha eluso le regole falsificando un passaporto per permettere ad un suo giocatore extracomunitario di giocare, ma che comunque “ha telefonato”!
In ogni modo, una volta ascoltate le telefonate (e per questo ci auguriamo di non dover attendere le calende greche) ci aspettiamo finalmente una giusta sentenza.
Niente giustizia sommaria, o vendetta, solamente una giusta sentenza.
Certo, lo so che invece debbo aspettarmi l’arrivo di tonnellate e tonnellate di sabbia e prescrizioni a gogò. Però non voglio subito, cinicamente, far scomparire quel piccolissimo barlume di speranza che la notizia dell’acquisizione ha riacceso.

Il secondo passo, dipenderà dai risultati di una vera inchiesta.
Le telefonate dell’allora presidente dell’Inter, Facchetti, con i suoi “4-4-4”, e i “…lì non devono fare sorteggi..” non appaiono poi così diverse da quelle di Moggi. Anzi!!!
E quindi tre sono i possibili scenari.
1) L’inchiesta stabilisce che Facchetti era un burlone, e quelle telefonate le ha fatte solo per scherzo, mentre il tono di Moggi è ben più minaccioso, e allora il processo del 2006 ha fatto il suo onesto lavoro. (!)
2) Quelle telefonate – tutte - erano in realtà, non solo usuali, ma anche consentite e quindi non esisteva per nessuno alcuna violazione. Allora si pretendono sia la restituzione degli scudetti 28 e 29, che, come minimo (ma solo come minimo), le scuse ufficiali.
3) Quelle telefonate – tutte - benché non “illeciti” (che non sono mai stati provati), erano comunque “cattive abitudini” e vanno sanzionate. Quindi la Juventus ha già pagato e che ora paghi chi non fu punito a tempo debito. (Ma qui - sob! - ritorniamo alle prescrizioni a cui accennavo prima!).

Tranne nel caso che il risultato fosse quello del punto 1, indipendentemente dal “tutti innocenti” o “tutti colpevoli” ci sarebbe un ulteriore passo da fare.
Ed è proprio qui che voglio arrivare, perché questa è la domanda che tutti ci siamo fatti.
“Chi e perché ha deciso che le uniche telefonate da prendere in considerazione fossero quelle di Moggi e Giraudo?”
Se effettivamente Facchetti era solo un buontempone, è ovvio, e giusto, che le sue telefonate non siano state “attenzionate” e l’impegno si sia profuso nella ricerca del vero colpevole.(!) Ma se, invece, anche l’allora presidente dell’Inter ed altri suoi colleghi avevano la brutta abitudine di telefonare, chi e perché ha deciso di non considerare le loro conversazioni?
Complotto o semplice incapacità? Macchinazione od errore? Inganno od inettitudine?
Non ha importanza, chi ha ordito o sbagliato paghi.
Perché qualcuno che ha ordito o sbagliato c’è sicuramente stato.

Articolo pubblicato su Juvenews.net


Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero

mercoledì 15 settembre 2010

L'obiettivo della nuova Juve? Battere il Lech Poznan

Ora non resta che giocare, e vedere cosa accadrà.
Dopo aver vivisezionato e analizzato l'incontro con la Sampdoria sotto tutti gli aspetti, adesso dalla Juventus si attendono miglioramenti già dalla prossima gara in Europa League di domani contro il Lech Poznan.
Senza Aquilani e Quagliarella, (molto) probabilmente con il rientro di Iaquinta, sicuramente con l’utilizzo del turnover tra i giocatori.

Si aspettava l'inizio dell'ormai famoso tour de force per poter sviluppare nuovi argomenti di discussione: dopo i fuochi d'artificio (mancati) del calciomercato estivo e la settimana di sosta per gli impegni delle nazionali, ci si ritrova adesso con un'atmosfera anestetizzata dal pareggio casalingo in campionato e da quel solitario punticino in classifica che fa "poco" Juve e "molto" strano. Oltre che paura.

L'impegno contro i polacchi è imminente, perdere non piace a nessuno, quella di vincere è un'abitudine da recuperare al più presto, l’importante - però - è non scordare che soltanto attraverso un piazzamento finale (in serie A) che consenta di partecipare alla prossima Champions League si possono ottenere i finanziamenti indispensabili a (ri)costuire una squadra altamente competitiva.

I giorni scorsi si è fatto un gran parlare del (probabilissimo) ritorno di Pavel Nedved in seno alla società, nella veste di dirigente. Al di là di ogni considerazione sull’effettivo ruolo che potrebbe/dovrebbe andare a ricoprire, sono moltissimi gli aneddoti che lo riguardano scaturiti durante il periodo che - da giocatore - ha trascorso all’interno dell’ambiente bianconero.

Preso a caso dall’album dei ricordi: nel corso di un allenamento a Vinovo, verso la metà del mese di marzo del 2008, andò in escandescenza per non essere riuscito a raggiungere un cross del compagno di squadra Sissoko. Se ne uscì dal campo, infuriato, gettando la maglietta a terra, per dirigersi verso gli spogliatoi.
Una volta sbollita la rabbia rilasciò questa dichiarazione: "Sono fatto così, non mi piace perdere neanche in allenamento, ormai il mio carattere è questo ed è troppo tardi per cambiarlo. Però ho sempre pagato per i miei sbagli".

Quando sei alla Juventus esistono soltanto due verbi: partecipare e vincere.
In silenzio. Perchè sono i fatti che devono parlare.
Con le parole non vinci le partite. Anzi: rischi di illudere, o dare adito a (facili) polemiche.

Meglio lasciar perdere discorsi su "progetti" o "rinnovamenti": è una squadra nuova, con i problemi tipici di chi indossa un nuovo vestito senza avere preso tutte le misure. Solo provandolo ci si accorge dei punti dove è necessario intervenire. Anzi: dove si dovrà intervenire. Niente di strano: è ovvio che quando si parla di una società come quella bianconera, nel bene così come nel male, tutto assume proporzioni esagerate. Quello che le è capitato nel recente passato (da 2006 in poi) ha contribuito ad elevare la tensione che accompagna qualsiasi episodio che la riguarda all’ennesima potenza.

L’obiettivo della Juventus di oggi? Battere il Lech Poznan.
Quello di venerdì? Portare a casa i primi 3 punti da Udine nella prossima gara di campionato.

Conquistare lo scudetto? Arrivare secondi o terzi?
No: vincere le partite nel sottopassaggio che conduce al campo, prima ancora di iniziarle.
Vorrebbe dire che la Vecchia Signora è veramente tornata.

In questi giorni ci si sta perdendo nel guardarsi la punta dei piedi, quando invece occorrerebbe fissare negli occhi l’avversario di turno e provare ad imporsi il maggior numero di volte possibile. Senza pensieri. E parole.

Lo meriterebbero i tifosi. Non solo i venti-venticinquemila che vanno allo stadio, ma anche quei milioni che sono quattro anni che aspettano di riavere indietro i loro titoli. E la loro squadra.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

domenica 12 settembre 2010

Sei goals per un punto

Nonostante il calo degli abbonamenti, lo stadio Olimpico si riempie in occasione della gara con la Sampdoria. E’ l’esordio a Torino della Juventus in questo campionato, c’è curiosità per vederla dal vivo e voglia di conoscere i nuovi arrivati. Tra loro manca Aquilani, in panchina.

Del Neri ripropone esattamente l’undici iniziale della sconfitta di Bari. Di Carlo è costretto a rinunciare a Pazzini e Guberti, ma preferisce non cambiare il modulo utilizzato nelle sue prime gare a Genova: 4-3-1-2, con Koman dietro le due punte Pozzi e Cassano. Proprio il barese si sistema largo sulla sinistra, guidando, da quella posizione, tutte le manovre blucerchiate.

La Juventus è lenta, macchinosa; la Sampdoria pungente. Proprio sui piedi di Cassano capita la prima vera occasione della gara: cross di Semioli, appoggio di Dessena, l’attaccante “schiaccia” la palla d’esterno senza creare pericoli. Del Piero risponde poco dopo, dribblando avversari e ignorando Quagliarella, libero, per concludere la propria azione con un tiro fuori porta.

Ma è la Sampdoria ad essere più pericolosa, grazie alle invenzioni del barese e ad un’ingenuità di Felipe Melo, che scivola a centrocampo, perdendo palla, e lasciando lo spazio a Palombo per lanciare Pozzi in profondità: fermato da Storari quando ormai erano uno di fronte all’altro. Situazione simile e identico risultato, con Cassano protagonista, qualche minuto dopo.

Krasic è isolato sulla destra (tranne qualche minuto in cui ha fatto inversione di fascia con Pepe), Marchisio è avulso dal gioco. Il centrocampo bianconero, nonostante la superiorità numerica e il disagio di Koman nel ricoprire il ruolo di Guberti, soffre. Appare naturale l’arrivo del primo goal della Sampdoria, con il solito Cassano a smistare dalla fascia sinistra al centro, dove Pozzi tira a botta sicura: 1-0.
I fantasmi del recente passato, primi avversari della nuova Juventus di Del Neri, sembrano tornare. E’ Marchisio, dopo aver ricevuto un assist di testa di Krasic, ad allontanarli: botta (rabbiosa) di destro, e pareggio.

Chi era rimasto alla periferia della partita, ora entra in gioco: a inizio ripresa, su cross dello stesso serbo, segna Pepe (azione confusa sulla linea di porta) dopo un “quasi” autogoal di Gastaldello. Cresce la Juventus, grazie anche alle incursioni di Krasic. Ma è Cassano, sempre lui, a dettare, questa volta, un passaggio di ritorno a Palombo: tiro ad occhi chiusi e 2-2. Dopo aver rimontato e superato la Sampdoria, ora sono i bianconeri a farsi raggiungere.

Inizia la girandola delle sostituzioni, e visto che le fasce difensive della Juventus sono il suo punto debole, mentre Cassano continua a maramaldeggiare dalle parti di Motta, Di Carlo inserisce Marilungo, che fa altrettanto con De Ceglie sull’altro lato. Accerchiati, i bianconeri si ritraggono. Giusto il tempo di segnare con Quagliarella (ribattuta sotto porta su palo di Pepe), che Pozzi - ancora lui - infila di testa il 3-3 finale. Poi, solo un tentativo, verso il termine della gara, di Iaquinta (subentrato a Krasic), sventato da Curci.

Esattamente ventotto anni fa, il 12 settembre 1982, la Juventus perdeva per l’ultima volta la partita di apertura del campionato, prima della recente sconfitta di Bari. Capitò proprio contro la Sampdoria, a Genova, dove la rete segnata da Mauro Ferroni regalò l’1-0 ai blucerchiati. Si trattò dell’unica marcatura di tutta la carriera del difensore in serie A. Quella gara bagnò l’esordio in Italia Michel Platini.
Undici anni dopo, nello stesso giorno, toccò a Del Piero, a Torino, contro il Foggia.

Questo 12 settembre, molto probabilmente, non passerà alla storia. C’è stato l’esordio in bianconero di Aquilani, talmente breve da ricordarne soltanto il numero di maglia. Quattro goals subiti nelle prime due partite di campionato, un punto su sei disponibili. Si ricominciava da zero, sotto tutti i punti di vista. Un pareggio ha spostato di poco la valutazione di questa squadra: tanto era un cantiere prima, in fase di calciomercato estivo, quanto lo è adesso, che il campionato è ormai iniziato.

Si giocherà nuovamente giovedì sera, in Europa League, sempre all’Olimpico, contro il Lech Poznan. Per poi andare a Udine domenica prossima. Ci sarà da soffrire: questa squadra ancora non ha un’identità, e non offre garanzie. In campionato qualche risultato imprevisto simile a quelli degli anticipi di ieri sera del Milan e della Roma potrebbero permetterle di rimanere agganciata al treno delle prime. Ma si tratta di casualità: poi inizieranno a vincere.
Sarebbe l’ora che iniziasse a farlo anche la Juventus.

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Si riparte da zero. Con Del Piero

Il Milan aveva a disposizione 942 goals per vincere a Cesena. Tanti sono quelli segnati in carriera dai suoi cinque attaccanti in rosa: Ronaldinho, Robinho, Filippo Inzaghi, Pato e Ibrahimovic. Alla fine non ne è arrivato neanche uno, lasciando - in compenso - spazio (e spazi) al "vecchio" Bogdani e al "nuovo" Giaccherini. Il Cesena, con questo successo, si posiziona temporaneamente in cima alla classifica: un bel biglietto da visita dopo 19 anni di lontananza dalla serie A.
E’ stata la vittoria del gioco sui giocatori, della sostanza sull’immagine, dell’equilibrio (in campo) sull’allegria (tattica). Senza Nesta i rossoneri faticano troppo, con Ibrahimovic e la squadra allungata in campo corrono il rischio di appropriarsi dello schema prediletto della prima Inter di Mourinho: "palla a Ibra e pedalare".

Eto’o gioca ancora lontano dalla porta avversaria, ma alla fine diventa più incisivo di Milito. Un successo di "rigore", quello dell’Inter sull’Udinese, anche se il goal decisivo arriva proprio da una respinta di Handanovic su un tiro dagli undici metri del camerunense, da lui poi corretto in rete. Inizia il tormentone del cambio di modulo, per evitare allo steso attaccante di rincorrere gli avversari e permettergli di essere inseguito. Si parla del rombo a centrocampo: alla Juve ne sanno qualcosa. Assente Thiago Motta, dentro Mariga e Biabiany, fuori Pandev, la musica cambia. E l’assenza di Maicon si fa sentire…

La Roma voleva Burdisso a tutti i costi? Eccolo: poco più di venti minuti di gioco, espulsione (follìa pura) e giallorossi in dieci uomini per quasi tutta la partita. Claudio Ranieri lo aveva detto: "Lotteremo per la Champions, non per il titolo". Un modo per mettere le mani avanti e togliere un po’ di responsabilità alla squadra (e a se stesso). Cinque goals i giallorossi li avevano già subiti poco meno di un mese fa, in quell’amichevole contro l’Olimpiakos scelta come preparazione in vista dell’imminente finale di Supercoppa Italiana contro l’Inter. Dopo la disfatta di ieri sera a Cagliari, alla Roma rimane un punto in due giornate (il pareggio interno contro il Cesena): meglio dell’anno scorso (due sconfitte e dimissioni presentate da Luciano Spalletti), ma poco in relazione ai reali obiettivi della società.

Inizia così il "tour de force" delle squadre italiane impegnate sia in campionato che nelle coppe europee. Che poi, a seguito della clamorosa protesta dei giocatori in merito agli ormai famosi "otto punti della discordia" con la Lega di Serie A, rischia di diventare meno pesante del previsto. E’ già stato proclamato uno sciopero per la quinta giornata, quella che si dividerà tra il 25 e il 26 settembre, prima ancora che le rispettive parti si possano sedere al tavolo della trattative (salvo imprevisti, accadrà domani). Un nuovo modo di impostare le trattative sindacali: comunque vada, noi non giocheremo. A nessuno piace essere trattato come un "oggetto".
Neanche ai tifosi, a onore del vero. Che più passano gli anni e più vengono considerati come dei "polli" da spennare. O, più semplicemente, dei "polli". Quando saranno loro a protestare, ai calciatori rimarrà ben poco da dire (e da fare).

Gli alti e i bassi delle milanesi e della Roma potrebbero aiutare la Juventus ad inserirsi nel gruppone delle contendenti. Si parte dalla sconfitta di Bari, e da quello "zero" in classifica da rimuovere al più presto.
Il calciomercato estivo è finito, le basi sulle quali Del Neri e la società dovranno lavorare da ora in avanti sono state gettate. Pazzini oggi (forse), Di Natale domenica prossima: i bianconeri, privi - almeno all’inizio - delle due punte di peso (Iaquinta partirà dalla panchina, Amauri è ancora indisponibile), affronteranno nell’arco di una settimana due degli obiettivi (reali o meno) mancati per rinforzare il proprio reparto offensivo.

E mentre si parla con sempre più insistenza di un ritorno di Pavel Nedved alla Juventus con incarichi dirigenziali (ti aspettiamo), Del Piero - in campo - festeggia il 17° anniversario del suo esordio in serie A.
Attraverso le pagine del suo sito personale lo stesso attaccante ha elencato i diciassette motivi per celebrare questo "compleanno": uno più bello dell’altro, tutti in grado di regalare emozioni ai tifosi.
Il numero "7" (per i ventinove scudetti) ricorda "l’altro" campionato, quello che ripartirà il 1° di ottobre a Napoli con la riapertura delle udienze del processo penale. Dove riprenderà la rincorsa a riappropriarsi dei due titoli tolti.
Grazie, Capitano.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

giovedì 9 settembre 2010

La Juve tra vecchi progetti e nuovi rinnovamenti

"Abbiamo riportato nei tempi previsti la squadra alla massima competitività, nazionale e internazionale. In questi ultimi anni solo un'altra squadra ha fatto meglio di noi, ma con una logica economica diversa".
Era il 14 febbraio 2010, il giorno dedicato agli innamorati, quando Jean Claude Blanc pronunciò queste parole.

A (ri)leggerle ora, a distanza di mesi, verrebbe da pensare ad una Juventus finalmente alla conclusione di quel percorso di rinascita iniziato dalle ceneri del terremoto del 2006.
Invece si stava parlando di una squadra eliminata di fatto dalla Champions League, retrocessa nell’Europa League dove avrebbe ancora dovuto giocare l’andata dei sedicesimi di finale contro l’Ajax e che era riuscita ad ottenere 8 punti nelle ultime quattro giornate in serie A, dopo la recente vittoria in casa del Bologna (tanta roba, visto quello che sarebbe accaduto da quel momento in avanti).

Ciro Ferrara era stato esonerato da pochi giorni, nonostante le dichiarazioni dello stesso Blanc del 1° dicembre 2009 dopo la sconfitta esterna a Cagliari ("Ferrara non rischia nulla, sta lavorando bene e ha tutta la nostra fiducia. L'esito delle due prossime partite non cambierà nulla, andiamo avanti con il nostro progetto. Ciro ha grandi capacità ed è un gran lavoratore, ha con lui uno staff di qualità").

Al termine dello scorso campionato altre cinque squadre, assieme all’Inter, fecero meglio della Juventus.

Ci voleva pazienza, per vedere finalmente compiuta l’idea di calcio (in)sostenibile del francese.
La stessa parola usata più volte da Claudio Ranieri ai tempi della sua permanenza in bianconero. Come, ad esempio, nella dichiarazione che rilasciò in occasione del pareggio (0-0) ottenuto a Genova contro la Sampdoria nell’anticipo della 5° giornata del campionato 2008-09: "Ma se raccontassi che siamo venuti a Genova senza pensare ai tre punti non direi la verità. È andata male, pazienza, sorrideremo un'altra volta". Nella partita diventata famosa per altre affermazioni: "Non ho messo Giovinco perché avevo paura della spinta offensiva di Pieri".

Oppure in quelle pronunciate dallo stesso allenatore dopo la sconfitta interna contro la Lazio in coppa Italia, nel corso di quella stagione. Una disfatta che determinò l’uscita dei bianconeri dalla competizione: "Volevamo andare in finale, non ci siamo riusciti,...Pazienza". A cui seguirono altre frasi diventate (anch’esse) celebri: "I nostri tifosi sono il nostro popolo e il popolo è sovrano".

Non si possono imputare al nuovo Presidente Andrea Agnelli e alla sua dirigenza (tutta meno uno…) gli errori del recente passato bianconero. Su quelli, e "con" quelli, hanno dovuto lavorare in questi primi mesi. Si attendeva il termine del calciomercato estivo per stilare un bilancio dell’operato in quella sede: oltre all’unanime delusione per il mancato arrivo di (almeno) un campione sotto la Mole, la tifoseria si è "divisa" tra pessimisti, ottimisti e realisti. Consci, in larghissima maggioranza, che lo scudetto, per quest’anno, è "roba d’altri".

E’ sparita, o quasi, la parola "progetto", sostituita dal termine "rinnovamento". Che, come dice Giuseppe Marotta, "è un processo più lento rispetto a una rivoluzione". L’unico ritornello, che non cambia, è che "ci vuole pazienza".
Quella che viene chiesta ai tifosi, nuovamente. E che, ad oggi, hanno avuto in dosi massicce.

Al ritorno in serie A (dopo l’inferno della B), si decise di puntare su un centrocampo guidato da Tiago e Almiron (per finire con Cristiano Zanetti e Sissoko). Se sul portoghese non vale la pena dilungarsi, sull’argentino è giusto ricordare le sue prime parole pronunciate a Torino ("Forse non sono ancora pienamente maturo per una squadra come la Juve") per capire la differenza tra "indossare" la maglia della Juventus e "portarla": sono due cose diverse.

Nonostante gli errori della campagna acquisti, alla fine la Vecchia Signora si classificò al terzo posto. Accettato di buon grado, in larga parte, perché i tifosi avevano capito le difficoltà nelle quali si trovava ad operare la (precedente) società. La scorsa estate, invece, nel tentativo di migliorare e rendere competitiva la squadra, si finì col distruggere tutto. La gestione degli eventi in corso d’opera, poi, fecero venire alla luce le debolezze interne della dirigenza. Ma quello è un altro discorso.

Si può sbagliare, e il campo dirà - come al solito, come sempre - la verità, ma l’impressione è quella di essere tornati di nuovo "all’anno zero", più o meno come accadde nei momenti successivi al ritorno in serie A. Con qualche campione in meno e con una Vecchia Signora più simile ad una Signorina ai primi passi in attesa di diventare grande, verso la quale i tifosi devono portare pazienza. E infinito amore. Quello che non è mai mancato: l'ennesima riprova la si può avere guardando come si sta iniziando a riempire lo stadio Olimpico per la prossima gara interna con la Sampdoria di domenica.

Lo si è capito: ci vuole pazienza. Ormai si può anche smettere di dirlo. Adesso spazio alle partite, alle sette gare in poco meno di un mese. E che siano i fatti a parlare, d’ora in poi.

Ha detto bene due giorni fa David Trezeguet, uno che a Torino sarà sempre di casa: "Nel calcio il passato è importante. Nella Juve è quasi tutto".
Il problema è che, ancora, non si trova un collegamento tra tutto quello che c’era nel 2006 e la realtà odierna. Fatta eccezione per qualche giocatore.
Ma è ancora poco. Troppo poco.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com


Comunicazione (per gli amici): nella giornata di domani, per motivi personali, non sarò reperibile. Tornerò online sabato (sera). A presto

mercoledì 8 settembre 2010

La frittata era già fatta

Ho visto Luciano Moggi a SportItalia.
Ha parlato, come era lecito aspettarsi, del mercato della Juve.
Per sommi capi volevo far notare un paio di cose che mi hanno colpito.
Prima di tutto ha difeso Andrea Agnelli, rimarcando una voce che già girava da giorni sul web, quella cioè che Marotta e Delneri non siano una sua scelta. Erano già stati messi sotto contratto prima del suo arrivo.
La seconda, già risputa, è che non ha condiviso l’operato del nuovo DG bianconero.
Quella della Juve è una rifondazione, ha affermato, e con una rifondazione occorrono 3 anni per tornare a grandi livelli. Quindi non si comprano tutti insieme 11 nuovi mediocri giocatori, ma si comprano 3 ottimi giocatori ogni anno, ed in 3 anni si ha uno squadrone.

Lungi da me l’idea di criticare Big Luciano.
Anzi, gli do tutte le ragioni.
Non è che voglia fare l’aziendalista (come va di moda dire in questo periodo) però il discorso di Moggi è perfetto teoricamente.
Per quello che riguarda la pratica, un dubbio mi rimane.
Credo, si vocifera (e Roma è assai distante da Vinovo, perciò prendete il tutto con beneficio di inventario) che lo spogliatoio della Juve fosse un po’… turbolento.
Quindi, forse, Marotta non doveva solo decidere quali giocatori inserire nella rosa, ma rifarla quella rosa, visto che si è trovato davanti alla necessità di smantellare un gruppo che non era più squadra.
Se, … così si dice…, un giocatore tenta di picchiare un allenatore, se alcuni fanno gruppo a se stante, se il rispetto per i ruoli viene a mancare, se il menefreghismo ha il sopravvento sulla professionalità….forse non basta riportare la disciplina, forse in molti – per il bene della squadra – devono necessariamente cambiare aria.
Altrimenti non riesco a spiegarmi alcune cose.
Faccio un solo esempio : Trezeguet.
Siamo agli ultimissimi giorni di mercato, la famosa punta centrale tanto attesa ancora non è arrivata, il titolare è infortunato, e Marotta cosa fa? Cede l’unico possibile sostituto. Un grandissimo giocatore all’ultimo anno di contratto (badate bene!), ma soprattutto pagandogli una cospicua buonuscita (3 milioni?), con l’idea comunque di sobbarcarsi il costo del prestito e dello stipendio di un altro mediocre attaccante da tenere solo per un anno. Non c’è neppure la convenienza economica in questa operazione!
Quindi la cessione di Trezeguet, non sembra una scelta tecnica ma disciplinare.
Come dire “A costo di rimetterci, preferiamo fare a meno di te”.
E probabilmente quello del francese non è un caso isolato.
Moggi parla come uno che è abituato a tenere sotto controllo lo spogliatoio, ma Marotta è arrivato solo ora, quando la frittata era già fatta.

Articolo pubblicato su Juvenews.net


Questo articolo è di Roberta. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Una signora in bianconero

domenica 5 settembre 2010

Dopo la sosta, per la Juve inizia il tour de force

Una domenica, calcisticamente parlando, "vuota". La classica giornata che il tifoso bianconero deve riempire con tanti "sì" a tutti gli impegni che gli si presentano. Perché poi, a partire dal 12 settembre in avanti, inizia un periodo di fuoco della durata di poco meno di un mese che non consentirà più pause: sette gare, da quella interna di domenica prossima al 3 di ottobre, divise tra campionato ed Europa League. Finale con il "botto": giovedì 30 settembre a Manchester contro il City di Roberto Mancini (e Mario Balotelli), tre giorni dopo al "Meazza" di Milano al cospetto dell’Inter di Rafael Benitez.

Poi è prevista la sosta per gli impegni della nazionale italiana contro l’Irlanda del Nord (8 ottobre) e la Serbia (il 12).

Conquistata attraverso il superamento del terzo turno dei preliminari e dello spareggio la possibilità di disputare l’Europa League, in quella competizione la Juventus riprenderà a giocare, con frequenza, il giovedì. Due giorni pieni di riposo si sono dimostrati, anche lo scorso anno, pochi per smaltire le fatiche (fisiche e psicologiche) di quelle gare. E la domenica, questi sintomi, finiscono spesso per farsi sentire.

La caratura della competizione non sarà quella della Champions League (il Manchester City, comunque, è diventata una squadra di rango), ma la sostanza non cambia.
Ai bianconeri capiterà, dal 16 settembre al 16 dicembre (dalla prima all’ultima gara del gironcino della manifestazione europea) cinque volte su sei di disputare incontri in quel giorno: nel corso della quinta giornata, infatti, le gare verranno divise in due tronconi, e la Juventus andrà in Polonia (contro il Lech Poznan) il mercoledì 1° dicembre.

Come se non bastasse, neanche il tempo di tirare un piccolo sospiro di sollievo ed ecco uscire gli orari degli anticipi e dei posticipi del campionato di serie A, dove - in occasione del turno infrasettimanale previsto per il prossimo mercoledì 22 settembre - alla Vecchia Signora è stato riservato un trattamento speciale: quello di giocare la sera successiva. Il giovedì, appunto. Nel posticipo. E non si tratta di una casualità: anche lo scorso anno, nella corso della quinta giornata e con le gare previste per il mercoledì 23 settembre, i bianconeri scesero in campo la sera dopo, a Marassi, contro il Genoa.

Si trattò di una delle prestazioni più convincenti dell’anno, anche se terminò 2-2.
Dopo quattro vittorie iniziali, di cui due in trasferta a Roma (3-1 contro i giallorossi e 2-0 con la Lazio), si fermò in Liguria la marcia degli uomini (ancora) di Ciro Ferrara. Dove non arrivarono i ragazzi di Gasperini ci pensò Saccani, l’arbitro della gara, annullando (almeno) un goal regolare ai bianconeri.

Per la Juventus segnarono Iaquinta e Trezeguet. Il francese, ora, non c’è più (au revoir, David. E grazie di tutto); sull’italiano sono riposte le speranze di un recupero fisico che gli permetta di aggiungere quel "peso" nel reparto offensivo diventato più che mai carente di chilogrammi in questo momento. A causa dell’assenza di Amauri e di quell’acquisto "mancato" (di cui molto si discute ancora) nel corso della sessione di calciomercato estivo appena conclusa.

Tra i papabili, per quel ruolo, c’era Giampaolo Pazzini. Che la Vecchia Signora si troverà di fronte proprio in occasione della prossima gara casalinga contro la Sampdoria. Da quel momento in poi le parole spese sino ad ora non serviranno più a nulla: conteranno i tre punti, solo ed esclusivamente quelli. Troppo brutta la Juventus di Bari per essere vera, troppe le novità da amalgamare per il nuovo allenatore.

Non è bastato (e difficilmente poteva essere altrimenti) iniziare il ritiro estivo prima degli altri e giocare quattro gare ufficiali per preparare a puntino la squadra prima dell’inizio del campionato. Lo Shamrock Rovers, inoltre, era decisamente inferiore allo Sturm Graz, che - a sua volta - non valeva il Bari. E la squadra di Del Neri vista allo stadio "San Nicola", per ora, rimane un cantiere aperto. Anche dopo la chiusura del mercato.

Domenico Criscito, calciatore del Genoa, sabato 4 settembre 2010: "La Juventus? Non è più quella di qualche anno fa, ma io personalmente ho fatto questa scelta col cuore, qui sono cresciuto e spero di rimanere ancora per tanto tempo".

Lo stesso giocatore, ospite della nella videochat del sito "Gazzetta.it" lo scorso 26 aprile: "La mia è una comproprietà libera tra Genoa e Juve, sta alle società decidere. A me farebbe piacere tornare in bianconero e giocarmi le mie carte. Nessuno si aspettava una stagione così deludente della Juve, ma penso che si riprenderà al più presto. Ma anche a Genova sto bene e quindi le due destinazioni sono gradite. Diventare una bandiera del Genoa? Mi potrebbe attirare perché è una delle più gloriose e vecchie società d'Italia. Il Milan o l'Inter? Mi piacerebbe, ma ripeto: al Genoa sto bene e ho una comproprietà con la Juve. Così come il Napoli: sarebbe bello tornare a casa e giocare al San Paolo con 70 mila spettatori. Mete estere? Mi potrebbero interessare Barcellona o Real Madrid".

Diceva Erich Fromm: "l'incertezza è la condizione perfetta per incitare l'uomo a scoprire le proprie possibilità".
Forse il senso delle parole di Criscito era proprio questo.
E nessuno l’ha capito.

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

venerdì 3 settembre 2010

Del Bosque, Scirea e la differenza tra classe e stile


"Il suo dolore, la nostra sofferenza, è servita a relativizzare i problemi, a capire che in fondo la vita ha altre priorità, altri ostacoli, altri doveri. E oggi siamo felici, Alvaro lo è e così i suoi fratelli".

Alvaro è un ragazzo quattordicenne, affetto da sindrome down, con un cognome "importante": Del Bosque. E' il figlio del tecnico della nazionale spagnola campione del mondo, il terzogenito a cui il padre aveva sempre negato il permesso di accompagnarlo negli spogliatoi della Roja. Era riuscito, con la sua insistenza, ad ottenere una promessa: nel caso in cui i risultati dell'avventura sudafricana fossero stati positivi, sarebbe potuto salire sull'autobus dei festeggiamenti con i suoi eroi. E così è stato: alla gioia per il trionfo si è unita la commozione di un paese intero per una festa particolare, genuina, di stampo familiare.

Vicente Del Bosque non è stato tifoso del Real Madrid sin da piccolo: prima di arrivarci, era sostenitore dell'Athletic di Bilbao. Poi, a diciassette anni, cominciò la sua nuova vita, proprio con i Blancos. Giocatore prima, allenatore poi. Una vita da vincente, in campo come sulla panchina.

Ma la sua non è la classica figura da "uomo copertina": non ha il fascino di un Lippi (del recente passato) o la capacità mediatica di un Mourinho. Lui è l'antidivo per eccellenza, l'uomo troppo normale per trovarsi a proprio agio in un mondo del calcio dove l'immagine conta (ormai sempre) più della sostanza, in cui quello che hai fatto sino a cinque minuti prima è già diventato storia.

Trentacinque anni a Madrid, in molti trofei esposti nella bacheca di quella società è presente il suo nome: cinque campionati vinti e quattro coppe di Spagna da calciatore; due campionati, due coppe dei Campioni, una coppa Intercontinentale, una supercoppa Uefa, una supercoppa di Spagna come allenatore.

Giocò, giovane, come centrocampista davanti alla difesa: da quell'esperienza imparò a dosare le parole come i passaggi che faceva in campo, a non lamentarsi mai, a correre e lavorare sodo. Per gli altri, per un risultato. Vestì la maglia della sua nazionale per 18 volte, senza immaginare che in futuro l'avrebbe poi allenata.

Perchè per lui esisteva solo il Real Madrid. Quello che perse, da un momento all'altro, perchè "non portava bene la cravatta". Non era l'uomo adatto a guidare la squadra dei galacticos, non aveva lo "charme" giusto, anche se se si trattava di un vincente: Florentino Pérez lo liquidò in quel modo, con poche parole, espressioni di una mania di grandezza di chi non capisce che i successi si costruiscono nel tempo, con il (piccolo) lavoro quotidiano.
Lo lasciò così, su due piedi, senza alcun dubbio e nessun rimpianto. In quel momento: perchè dopo arrivarono, tutti insieme.

Una carriera intera trascorsa in un club amato volatilizzata in pochi attimi. In che modo reagì? Con il suo stile: in silenzio. Aveva perso il fratello, vittima di una malattia che non riuscì a sconfiggere: erano altre le dure battaglie da affrontare. Questa, seppur dolorosa, poteva essere vinta. Come? Con il lavoro, sempre e comunque. Anche se in quel momento non c'era più: "Sono un disoccupato privilegiato, ma mi hanno ferito. Il lavoro è nella natura dell' uomo, non so che fare ora".

Dopo un'infelice esperienza nel Beşiktaş (2004) tornò in Spagna. Rifiutò l'incarico di guidare la nazionale messicana, per accettare quello di sedere sulla panchina del suo paese. Nel momento più difficile, verrebbe da dire: proprio quando - finalmente - aveva iniziato a vincere (l’Europeo del 2008, dopo quello del 1964). Doveva sostituire Luis Aragonès, e puntare al bersaglio grosso, quel mondiale mai raggiunto da una squadra che adesso iniziava a prendere coscienza delle proprie possibilità.

Tensioni e aspettative, delusioni e paura di non farcela, critiche feroci: si trovò solo, contro tutto e tutti. Compreso quello stesso commissario tecnico del quale aveva appena preso il posto, timoroso che qualcuno potesse subito far passare in secondo piano quanto ottenuto da lui. Come si comportò Del Bosque? Da signore: stette in silenzio, si mise in difesa dei suoi ragazzi, così come da giocatore proteggeva i compagni difensori. Non rispose, se non con i risultati. Dispensò serenità, miscelando un gruppo composto più da giocatori del Barcellona (l’antica rivale) che non del Real Madrid. Ha finito con unire - per qualche momento - un paese nel nome di una vittoria che è già passata, lei sì, alla storia. Non poteva essere altrimenti, per un vincente come lui.

Pensi alla figura di Del Bosque, leggi le dichiarazioni al vetriolo di alcuni ex calciatori bianconeri di questi giorni, e capisci le differenze tra il concetto di classe (intesa come capacità individuali) e quello di stile, nello sport così come nella vita di tutti i giorni. Che è fatta - anche, purtroppo - di difficoltà, di percorsi in salita, di ingiustizie. Ci sono modi diversi di affrontarle, superarle, assimilarle, raccontarle a chi ti sta intorno.

C'è chi, in quei momenti, è più o meno dotato di capacità di resistenza, e non crede che il tempo sia galantuomo e il campo un giudice supremo. E' sempre più numeroso il partito di coloro i quali pensano di poter sistemare le proprie pendenze alzando la voce o attaccando per primi, per paura - forse - che gli altri possano smascherarli.

Ci sono - invece - uomini che hanno carattere, sono sicuri di se stessi, fanno della serietà e della serenità i loro punti di forza, e non hanno mai la necessità di discutere animatamente: i loro silenzi rendono inutili qualsiasi parola. Non sentono il bisogno di vendicarsi con qualcuno: vincono. Semplicemente.
Perchè il loro modo di affrontare la vita li fa partire da 1-0 ogni qualvolta mettono il piede a terra dopo essersi alzati dal letto la mattina.

I giocatori passano, le squadre rimangono. Così come le leggende.
Gaetano Scirea, del quale oggi si commemora l’anniversario della sua scomparsa, è una di quelle. Il suo ricordo non morirà mai, così come i suoi insegnamenti.
Prima o poi certe lezioni le imparerà anche chi non ha ancora chiara la differenza tra classe e stile.
Forse.

Ps: ciao Gai

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

giovedì 2 settembre 2010

Ci manchi Gaetano. Sempre di più...


Per una volta non inserisco il mio video su Scirea.
Ho trovato questo bellissimo speciale di Sky, mandato in onda lo scorso anno.
Buona visione a tutti

Ps: Gaetano, mi manchi...





mercoledì 1 settembre 2010

La "Gazzetta Sportiva" e quella frase di Ibrahimovic


E’ tornato in Italia da poco, così come per poco tempo ne era rimasto lontano: Zlatan Ibrahimovic è diventato un giocatore del Milan, e lo sarà – al netto di nuovi mal di pancia – per i prossimi quattro anni.
Riappare a Milano, dove è stato di casa per tre stagioni nella parte nerazzurra della città, ospite di quella squadra della quale era stato “tifoso sin da piccolo”.
Ritorna in serie A dopo averla lasciata da padrone incontrastato: cinque scudetti in cinque anni, due con la Juventus e tre con l’Inter.
Da Torino a Milano, un cambio di maglia che ha finito col rappresentare il passaggio di consegne tra chi dominava e chi ha “preso in mano” le redini del calcio italiano: bianconerazzurro, un colpo al cuore per chi ha visto distruggere la propria squadra e ha dovuto subire l’onta del suo trasferimento agli storici avversari.
Pronti a divorare una tavola piena di scudetti, senza che nessuno (o quasi) potesse opporre resistenza.
Nell’attesa che le principali rivali si riprendessero dal terremoto iniziato nel maggio del 2006.
Fisico da gigante, piedi da ballerino del pallone: con le sue scarpe numero 47 ha alternato i dribbling a movenze da taekwondo. Cresciuto in un sobborgo di Malmö, è rimasto - negli anni - fedele soltanto a se stesso. Non esistono maglie che gli si attacchino così tanto al corpo da entrargli nel cuore: è stato così anche a Barcellona, dove pure aveva esordito – alla sua presentazione - con un bacio sulla casacca blaugrana.
Luciano Moggi lo portò a Torino, consegnandolo nelle mani di un Fabio Capello che sapeva già di poter disporre di un cavallo di razza.
All’Inter, in suo onore, si creò lo schema “palla a Ibra e pedalare”. Quando si capì che fuori dall’Italia non avrebbe portato vittorie, stufi dei suoi continui mal di pancia si decisero a scambiarlo con Eto’o, con l’aggiunta di un conguaglio (a loro favore) così cospicuo da poter permettere il rinforzo della squadra in ogni reparto.
Il resto, è storia recente.
“Bentornato al ragazzo che - leggenda vuole - si presentò negli spogliatoi della Juve squadrando i senatori bianconeri con occhi torvi: “Io sono Zlatan. Voi chi cazzo siete?”
Queste sono alcune tra le righe scritte da Andrea Monti, direttore della “Gazzetta dello Sport”, nell’editoriale pubblicato nella prima pagina del numero domenicale (la ”Sportiva”) del 29 agosto, dal titolo “Il Mago e il Cavaliere”.
Un personale “bentornato” in Italia al giocatore.
Svedese che - come vuole la leggenda - pronunciò veramente quelle frasi. Ma all’interno di un altro spogliatoio: quello dell’Ajax. Lo scrisse anche Sebastiano Vernazza, proprio sulle pagine della rosea, il 18 luglio del 2009.
Correva l’anno 2001 quando venne acquistato dalla squadra olandese per una cifra intorno ai 9 milioni di euro (in assoluto l’investimento più oneroso per un club che i campioni se li è spesso costruiti in casa), ed il giocatore si presentò nel luogo sacro di ogni squadra di calcio pronunciando quelle parole.
Buffon, Trezeguet, Del Piero, Thuram… Difficile che lo svedese potesse soltanto pensare di fare una cosa simile a Torino nel 2004 (anno del suo acquisto). Se i campioni presenti tra le fila bianconere gli avessero snocciolato le vittorie e i riconoscimenti ottenuti nelle rispettive carriere sino a quel momento…
Continua l’editoriale di Andrea Monti: “Sette anni dopo non è cambiato di una virgola anche se ora non ha più alcuna necessità di presentarsi: campione universale, di tutti e di nessuno”.
Sette anni fa, nel 2003, Ibrahimovic si apprestava ad iniziare la sua ultima stagione in Olanda.
L’attaccante sarebbe già dovuto già passare al Milan nel 2006, ha solo rimandato l’appuntamento. Con il suo arrivo, molto probabilmente, i rossoneri avranno qualche possibilità di contendere lo scudetto all’Inter sino in fondo al campionato. Vada come deve andare: tanto da Milano, a quanto sembra (ad oggi), il tricolore non si sposterà.
Comprensibile la gioia e l’emozione di chi dirige un quotidiano proprio di quella città. Sentimenti che, a volte, portano anche a commettere qualche piccolo sbaglio.
Naturalmente i lettori non hanno mancato di segnalare l’errore al direttore. La sua risposta? Vedi la foto...
Per la verità, anch’io avevo in mente la stessa circostanza. Poi sono andato a controllare nel posto sbagliato, ho corretto il testo e, con ogni probabilità, ho finito per darvi un’informazione non corretta. La maggioranza dei siti e delle fonti, infatti, propende per l’Ajax. Tuttavia, gli amanti della mitologia zlataniana sanno che esiste un’altra possibilità. In un’intervista a Max di tre anni fa, gli fu chiesto: “E’ vero che quando entri per la prima volta nello spogliatoio di una nuova squadra sei solito dire ai compagni quella frase?”. Lui rispose con una risata satanica. Dunque, potrebbe trattarsi di una leggenda metropolitana. Oppure di una battuta utilizzata anche negli spogliatoi bianconeri, interisti e blaugrana. Chissà… Nel caso l’episodio si ripetesse, pregherei i giocatori milanisti di farmelo sapere. Privatamente e, visto il carattere di Ibra, con garanzia di anonimato”.
Rimane ancora un mistero il “perché” sia stata scelta proprio la Juventus come squadra per questa citazione. Visto il numero di fonti (compreso un articolo pubblicato in precedenza dallo stesso quotidiano) che propendevano per l’Ajax. E come mai non siano stati indicati altri club tra quelli nei quali lo svedese ha militato.
Come l’Inter, per esempio.

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