venerdì 28 giugno 2013

Cinesinho e la maglia n. 10 della Juve


Lo chiamavano "Cinesinho", anche se era brasiliano. Piccolo di statura, i suoi tratti somatici vagamente orientali ne ispirarono il soprannome. Nato il 28 giugno 1935, proprio oggi avrebbe compiuto settantotto anni. E' mancato il 16 aprile 2011. La Juventus, attraverso il sito ufficiale, lo aveva voluto ricordare con queste parole: "Si è spento sabato, in Brasile, all’età di 76 anni Sidney Colônia Cunha, per tutti Cinesinho. Alla Juve dal ‘65 al ‘68, con i colori bianconeri vinse un indimenticabile scudetto nel 1967, in rimonta sull’Inter all’ultima giornata. Regista offensivo di quella squadra, di grande intelligenza tattica, seppe farsi amare per l’umiltà, la passione e l’impegno che metteva ogni volta che scendeva in campo, fosse un allenamento o un partita".
 
C'è un filo invisibile che lega questo giocatore a Carlos Alberto Tévez, il nuovo acquisto di Madama: la maglia numero dieci della Vecchia Signora. L'argentino venuto da Manchester diventerà il primo calciatore ad indossarla dopo Alessandro Del Piero, bandiera e icona del club torinese. Cinesinho, dal canto suo, fece altrettanto subito dopo la partenza di un certo Omar Sivori.
 
L'addio del "Cabezón" permise ad Heriberto Herrera di avere finalmente a disposizione un centrocampista che potesse adattarsi e seguire ad occhi chiusi il suo calcio fatto di “movimiento”. Cinesinho, ormai trentenne, sposò la causa del tecnico senza remore ed i risultati non tardarono ad arrivare: vinse subito una Coppa Italia (nella finalissima incontrò casualmente ancora l'Inter il 29 agosto 1965) per poi conquistare lo scudetto citato in precedenza. Lasciò il proprio posto al tedesco Helmut Haller dopo tre stagioni per trasferirsi al Lanerossi Vicenza, il quarto e ultimo club italiano dove aveva militato oltre alla Juventus, al Modena e al Catania. 
 
L'allora presidente dei biancorossi Giuseppe Farina ricordò la sua scomparsa con un curioso aneddoto: "Mi dispiace davvero tanto, perché Cinesinho era uno a cui era impossibile non voler bene, un ragazzo d'oro. Aiutava gli altri, non era una prima donna, un vero uomo squadra e di spogliatoio. E poi non bisogna dimenticare che col pallone tra i piedi di sapeva fare. Non gli mancava neanche il senso dell'umorismo. Ricordo cosa mi disse dopo una partita persa 5-0: «Presidente, siamo stati bravi, volevano farci il sesto ma abbiamo resistito». Adesso mi viene da ridere, allora la presi meno bene".
 
Cinesinho disputò l'ultima gara in serie A allo stadio "Comunale" di Torino il 28 maggio 1972, contro la Juventus. Quella domenica la Vecchia Signora si era laureata matematicamente campione d’Italia per la quattordicesima volta. Il Vicenza perse per 2-0, la prima rete bianconera venne realizzata proprio da Haller.
Se non altro il brasiliano ebbe un’ulteriore conferma di aver lasciato Madama in buone mani.

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giovedì 27 giugno 2013

POPSOPHIA 2013

Ricevo e pubblico molto volentieri.
 
POPSOPHIA 2013
EROI E ANTIEROI
DAL 3 AL 7 LUGLIO, ROCCA COSTANZA, PESARO

FILOSOFIA E CALCIO: EROI E ANTIEROI SUL RETTANGOLO VERDE

Dal 3 al 7 luglio 2013 presso Rocca Costanza a Pesaro, torna Popsophia, festival del contemporaneo, l'appuntamento nazionale della filosofia che si trasforma in filosofia popolare, ossia pop filosofia.

Nell’ambito di questa terza edizione dal tema “Eroi e antieroi”, giovedì 5 luglio Popsophia torna ad approfondire uno dei filoni di indagine filosofica più avvincenti: il calcio.

Al gioco più amato al mondo vengono dedicati due appuntamenti.

Si parte alle 19, nei sotterranei della Rocca con “Vita da mediano, la metafora del calcio”, un confronto tra il giornalista Massimo Raffaeli e il filosofo Giancristiano Desiderio, coordinati dalla firma del Corriere della Sera, Corrado Ocone.

Alle 21.30, nel cortile, dopo l’introduzione tematica de “Il Punto” del giornalista di La7 Paolo Pagliaro, l’appuntamento è con “La filosofia del campione”. Il filosofo Elio Matassi e il giornalista Amedeo Goria, discutono di calcio in compagnia di un vero campione, José Altafini.


I focus sugli appuntamenti.

Ore 19. Vita da mediano, la metafora del calcio

Nel libro “Il divino pallone. Filosofia dei piedi da Platone a Totti”, l’autore, Giancristiano Desiderio si chiede come mai Sartre amava dire che il calcio è una metafora della vita, Wittgenstein giunse alla svolta del suo pensiero guardando una partita di calcio, Merleau-Ponty spiegava la fenomenologia parlando di calcio. La conclusione a cui giunge è che il calcio si basa sul principio del controllo di palla e del rimetterla in gioco subito dopo. “Controllo e abbandono sono i due principi del calcio e della vita. La filosofia, come gioco della vita, si basa su regole calcistiche: per filosofare bisogna saper mettere la vita in gioco”. Questo meccanismo è il nucleo fondamentale da cui partire per interpretare il calcio non semplicemente come una metafora, ma come “un paradigma cognitivo che con la sua connaturata idea di pluralità dà scacco matto al fenomeno politico più drammatico della Modernità: il totalitarismo. Hitler e Stalin pretesero di controllare tutto e ci riuscirono. Pretesero di controllare anche il pallone. E persero.”

A questa idea eroica del gioco del calcio si contrappone l’intervento di Massimo Raffaeli.

Il suo intervento andrà a delineare tutte le dubbie e discutibili radici che legano il giuoco del calcio alla metafisica dell’eroismo. Raffaeli eserciterà nel suo inedito intervento sul tema, una critica dell’eroismo e parlerà del calcio come “luogo” antieroico. A supporto della sua tesi, l’esperienza letteraria di molti scrittori che hanno parlato del calcio in questi termini.

Ore 21.30. La filosofia del campione

In “Pensare il calcio” il filosofo Elio Matassi sottolinea come la società nel suo complesso e, dunque, anche il calcio, hanno bisogno di cure che prima di essere semplicemente economiche, siano etiche, culturali e dunque filosofiche.

È in questo contesto che si colloca “La filosofia del campione”, una discussione che si avvia a partire dalla considerazione che lega la squadra alla formula hegeliana dello Stato come “das Erste”, ossia primo principio da cui si tenta di concettualizzare il primato della totalità-squadra sulle parti-giocatori. Come spiega il filosofo Elio Matassi infatti “I giocatori vengono prima della squadra di calcio, dal momento che senza i giocatori una squadra non potrebbe neppure esistere, ma se i giocatori (le parti) nel loro gioco non realizzano se stessi all’interno della squadra (la totalità), questa non potrebbe mai essere vincente ed esprimere il suo primato in un gioco irresistibile e avvincente”.  Allo stesso modo mutuando da Kant la formula “La vera creatività è quella che si fonda sulle regole”, spiega Matassi, “L’individualità del fantasista della squadra può cercare soddisfacente interpretazione nel rapporto tra genialità e norma”.

A tali questioni, si aggiungono le riflessioni su quella che oggi appare come una perdita delle origini etico-eroiche di questo sport. Un dibattito teso tra gioco e riflessione alta nel quale Popsophia prova ad uscire dal cerchio dell’autoreferenzialità filosofica, attraverso la formula di Mourinho, in questo caso riveduta e corretta (con la somma scienza al posto della parola “calcio”), “Chi sa solo di filosofia, non sa nulla di filosofia”. Accanto al filosofo, il giornalista Amedeo Goria, e un vero campione, José Altafini. Anche lui, come Matassi, si sofferma su alcuni allenatori e parla di Mourinho come di “un allenatore che ravviva la sfida”, e che ha fatto tornare l’Inter al periodo d’oro di Helenio Herrera.

Sta a loro definire l’identikit del campione e come il suo agire cambia le dinamiche di gioco e l’approccio etico sul rettangolo verde. 

mercoledì 26 giugno 2013

Tevez alla Juve, aspettando Jovetic


José Alberti, noto agente Fifa e procuratore di diversi calciatori sudamericani, recentemente aveva rivelato che nell’estate del 2009 Carlos Alberto Tévez, all’epoca in forza al Manchester United ed entrato in rotta di collisione con Sir Alex Ferguson, era stato proposto alla Juventus. La trattativa, però, non andò a buon fine: “L’argentino aveva appena rotto con il Manchester United per via di alcune frasi poco carine nei confronti di Ferguson che erano uscite sui tabloid e ho cercato di portarlo in bianconero. L’operazione era allettante, prestito oneroso con diritto di riscatto fissato a 20 milioni di euro, ma Cobolli e Blanc non se la sentirono perché avevano già concluso per Diego e Felipe Melo”. Quelli erano altri tempi, quando i soldi in casa juventina non mancavano ma venivano semplicemente spesi male.

A distanza di quattro anni l’argentino prende finalmente la via di Torino, dando una scossa al calciomercato bianconero e a quello del calcio italiano in generale.
Soltanto la scorsa domenica, tre giorni or sono, il padre di Higuain (un altro giocatore della Nazionale albiceleste) aveva tenuto accese le speranze dei sostenitori del club torinese: “Gonzalo ha un’ottima offerta dalla Juve, oltre che dall’Arsenal. Ma è tutto aperto, tocca al Real Madrid decidere”.

In realtà è stata la Juventus a decidere per il proprio futuro, nel tentativo di adeguare il suo reparto offensivo agli standard di eccellenza tecnica mostrati nelle due ultime stagioni dagli altri settori della rosa. La Vecchia Signora ha aperto infatti trattative su più fronti, sorpassando il Milan in dirittura d’arrivo nelle preferenze dell’Apache e portando a casa un fuoriclasse di assoluto valore. 

L’acquisto di Tévez, quindi, va ad aggiungersi a quello di Fernando Llorente (a parametro zero).
Ascoltando le parole pronunciate dallo stesso Josè Alberti alla redazione di “Tin Napoli” lo scorso 8 giugno, però, sembrerebbe che le sorprese non siano finite qui: “Secondo me questa sessione di mercato sarà una delle più belle. Vi svelo un paio di colpi: Cerci andrà al Milan, perché al giocatore piace la piazza rossonera e alla società piace il giocatore. Cavani andrà via da Napoli e il suo futuro sarà al Chelsea.Un’altra trattativa importante è quella che riguarda Jovetic, il montenegrino andrà alla Juventus così come Tévez”. 
Se le sue previsioni dovessero avverarsi si potrebbe parlare di un altro bel regalo della società bianconera ad Antonio Conte.
Meritato, naturalmente…

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venerdì 21 giugno 2013

Charles: "Juventus vuol dire vittoria"


L'ultima partita ufficiale giocata da John Charles con la maglia della Juventus terminò con una sconfitta per i bianconeri, un modesto 1-0 patito nella finale valida per il terzo posto nell'edizione della Coppa Italia targata 1961/62. L'avversario di quel giorno, incontrato allo stadio "Danilo Martelli", fu il Mantova. Era il 21 giugno 1962, e il gigante gallese concludeva in questo modo una splendida storia d'amore durata cinque stagioni con la Vecchia Signora.

In quel periodo Charles conquistò tre scudetti, due coppe nazionali e un titolo di capocannoniere (con 28 reti, nel primo anno in Italia), mettendo a segno tanti, tantissimi goal. Nel nostro paese sarebbe potuto sbarcare anche prima del 1957, visto che lo avevano adocchiato Lazio, Milan e Inter. Oltre, ovviamente, ad altri club blasonati del vasto panorama europeo.

Ad attenderlo sotto la Mole per dargli il benvenuto c'era Giampiero Boniperti, il nuovo compagno di squadra che di lì a breve sarebbe diventato anche uno degli amici più cari. In poco tempo Charles si era fatto conoscere nel nostro paese con l'appellativo di "gigante buono", dato che univa ad una stazza fisica imponente un carattere dolce ed una correttezza esemplare. Niente a che vedere con l'altro elemento del magico trio formato con lo stesso Boniperti, vale a dire quell'Omar Sivori che il giovanissimo Umberto Agnelli (all'epoca aveva solo ventidue anni) acquistò nella stessa sessione di calciomercato.

I tre divertirono e si divertirono insieme sui campi di calcio sino a quando Madama finì col perderne i pezzi uno alla volta. Dopo che nel 1961 Boniperti aveva abbandonato la Juventus (ed il calcio), infatti, era arrivata la volta di Charles, che l'anno successivo aveva fatto ritorno al Leeds United. Per la Vecchia Signora fu realmente difficile costruire nuovamente una macchina da reti e spettacolo così ben assemblata, anche se nell’estate del 1962 aveva puntato i fari su due campioni brasiliani di assoluto valore: Amarildo e Garrincha.

Nessuna delle trattative appena citate andò in porto, anche perché il Brasile aveva deciso di porre un veto ai trasferimenti dei suoi calciatori in terra straniera. Per rendere praticabile questa strada era sua intenzione far eleggere alcuni neocampioni del mondo come deputati nelle elezioni che si sarebbero tenute nel successivo mese di ottobre. La Juventus dovette quindi cambiare obiettivi, abbassando le pretese.
 
Prima di aprire altri cicli vittoriosi Madama avrebbe dovuto attendere diversi anni. La figura di John Charles, il "gigante buono", assieme a quelle degli altri compagni di scorribande rimasero impresse nei sogni dei sostenitori juventini a lungo. Così come, è doveroso ricordarlo, il giocatore gallese conservò un bellissimo ricordo dell’esperienza bianconera: “La Juventus vuole dire vittoria. Ecco il modo più semplice per spiegare la Juve, l'ho detto tante volte in Inghilterra quando mi chiedevano di raccontare il mio periodo italiano e io non avevo tanta voglia di parlare. È semplice, dicevo, alla Juventus si vince”.
Giampiero Boniperti, in questo senso, era riuscito ad insegnare qualcosa di importante al suo vecchio amico.

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sabato 15 giugno 2013

Laudrup, la classe che non tramonta

Oggi compie quarantanove anni Michael Laudrup, stella del calcio danese nel periodo compreso tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Arrivato giovanissimo in Italia e parcheggiato alla Lazio dalla Juventus bonipertiana, dopo due campionati disputati nella capitale si era poi trasferito sotto la Mole. Zbigniew Boniek, nel frattempo, aveva compiuto il percorso contrario, spostandosi dalla Torino bianconera alla Roma, liberando – di fatto – l’ultimo posto disponibile per il tesseramento di un calciatore straniero secondo le regole vigenti all’epoca nel nostro paese.

Giocatore dotato di un talento cristallino e uomo serio, di lui Michel Platini aveva detto: “Laudrup? È il miglior giocatore del mondo. In allenamento”. Incisivo come è sempre stato solito fare con le sue battute fulminanti, “Le Roi” era riuscito a sintetizzare in pochissime parole pregi e difetti di Laudrup. Alla Juventus il danese aveva vissuto l’ultimo splendido anno del primo ciclo trapattoniano, salutando Madama dopo aver giocato per lei nelle tre difficili stagioni successive. In Spagna, prima a Barcellona e successivamente al Real Madrid, finalmente la sua classe era riuscita a manifestarsi in tutta la grandezza. La timidezza aveva lasciato spazio alla maturità di un ragazzo diventato ormai uomo. Dopo la veloce appendice in Giappone (Vissel Kobe), nell’Ajax aveva disputato la sua ultima, eccezionale annata come calciatore.

Con la maglia della Danimarca, pur avendo lasciato una traccia importante del suo passaggio, non aveva partecipato alla vittoriosa spedizione in Svezia nell’Europeo del 1992 a causa delle divergenze insorte con l’allora selezionatore Richard Møller Nielsen. Proprio nella nazionale danese aveva iniziato la nuova carriera da allenatore, come vice del C.T. Morten Olsen.

Proseguì successivamente la propria strada in solitudine guidando diversi club: Brøndby, Getafe, Spartak Mosca, Maiorca e Swansea City. Le vittorie, più o meno prestigiose, non mancarono anche nella seconda parte della sua carriera calcistica. Proprio nel corso dell’ultima esperienza nella società gallese ottenne uno storico successo nella Coppa di Lega inglese che lo portò agli onori della cronaca, tanto che anche il danaroso Paris Saint-Germain ha pensato a lui per la successione del partente Carlo Ancelotti.

Una curiosità: il 13 novembre del 2006 Michael Laudrup ottenne il riconoscimento di miglior giocatore danese di tutti i tempi. Ricevette il premio, nella cerimonia svoltasi a Copenaghen, dalle mani di un suo ex-compagno di squadra.
Il suo nome? Michel Platini. Naturalmente.

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sabato 8 giugno 2013

Giampiero Boniperti e il primo goal in bianconero




In quel lontano 8 giugno 1947 l’allenatore della Juventus si chiamava Renato Cesarini, mentre Giampiero Boniperti era un ragazzino alle prime armi. Esattamente sessantasei anni fa lo stesso Boniperti mise a segno la sua prima rete in serie A con la maglia della Juventus. Accadde allo stadio “Luigi Ferraris” di Genova, nella gara disputata dai bianconeri contro la Sampdoria di Gian Battista Rebuffo.

L’Italia calcistica all’epoca viveva sotto la dittatura del Grande Torino, guidato in campo da Valentino Mazzola, capocannoniere del torneo con ventinove goals all’attivo. I granata si apprestavano a conquistare il terzo scudetto consecutivo, quello che attualmente è diventato il sogno ricorrente di Madama.

Nella manifestazione che aveva visto la rinascita del Modena (i gialloblù si classificarono infatti al terzo posto) stava quindi nascendo una stella di valore assoluto. Al termine dei novanta minuti di gioco Boniperti confessò candidamente le emozioni vissute nel pomeriggio genovese: “Prima di vestire la maglia bianconera io non avevo visto che poche gare di Serie B, a Novara, e non conoscevo i grandi campioni. Li ho visti ed ammirati allo “Stadio Comunale”. La mia prima partita (contro il Milan, ndr), lo so, fu un fiasco: non vedevo la palla, non capivo più nulla. Mi fischiarono e mi sentii perduto… A Genova, invece, ho giocato con disinvoltura. Ora sono, nel calcio, agli esami di riparazione e, come studente, a quelli per ottenere il diploma di geometra. Poi, se li supererò entrambi, spero di diventare un buon giocatore e, fra quattro anni, un... dottore in scienze commerciali”.

Dopo l’esordio contro i rossoneri era stato lo stesso giocatore a chiedere di restare ancora per un po’ di tempo in mezzo alle riserve. Non si sentiva pronto per il grande salto nel calcio che conta. Il goal messo a segno contro la Sampdoria (palla facilmente depositata in rete dopo un bel servizio di Sentimenti III) lo aveva finalmente sbloccato. Tanto che a pochi minuti dalla fine dell’incontro ne segnò un altro, il 3-0 conclusivo con il quale la Vecchia Signora espugnò Genova.

La carriera e il corso degli eventi lo portarono a spostare di qualche metro il raggio d’azione sul rettangolo di gioco, come spiegò lui stesso nel libro “Una vita a testa alta” scritto con Enrica Speroni: “John (Charles, ndr) era un giocatore straordinario ed andava d’accordo con tutti, era impossibile non volergli bene. Lui ed Omar sono arrivati nel 1957. Con loro due davanti, dopo otto anni da centravanti, io sono arretrato stabilmente e felicemente a mezzala. Mezzala di regia, un ruolo che mi sono inventato. Sivori faceva la mezzala di punta, Charles era un magnifico centravanti ed io le mie battaglie in area di rigore le avevo già fatte. Allora non c’era la TV. Tutti guardavano la palla ed in area, lontano dal pallone, volavano colpi spesso proibiti. Quante botte ho preso là in mezzo”.

Da calciatore a dirigente, per poi finire come presidente. La sua vita professionale, interamente dedicata alla Juventus, gli consentì di vivere il mondo del calcio quasi a trecentossessanta gradi. Nel maggio del 1975, dopo aver conquistato il sedicesimo tricolore della storia bianconera, dichiarò: “Quando parlo con un giocatore so quale linguaggio adoperare, so come la pensa, so cosa mi dirà... basta guardarlo negli occhi, perché ho vissuto gli stessi momenti, le stesse sofferenze, le sue stesse gioie... conosco benissimo la sua psicologia. Ciò mi dà un grande aiuto… Io dico questo: è molto meglio fare il giocatore che il presidente. Prima di tutto. Poi credo che bisogna aver dentro qualcosa per raggiungere questo posto. E' un pò come un capufficio che diventa dirigente nella stessa azienda dove lavora. Non è vero? Cioè, voglio dire, ci sono dei grandissimi giocatori che, probabilmente, non potrebbero mai diventare dei tecnici. Eppure di calcio ne capiscono moltissimo. Ci sono invece dei giocatori non eccelsi che, potenzialmente, sono dei grandi tecnici. Se uno, poi, ha le qualità per fare il presidente e, in più, ha giocato anche al calcio... beh... allora, meglio ancora... credo che sia una esperienza eccezionale”.

Proprio come quella vissuta da lui.

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lunedì 3 giugno 2013

Un'altra estate difficile sul mercato?



Questo articolo è di Danny67. Tutti gli altri, li puoi trovare nella sua rubrica Un Bianconero a Roma

Fin da prima che si concludesse il campionato di Serie A, con il trionfo della Juventus per il secondo anno consecutivo, gli incontri tanto discussi e già programmati da tempo tra Antonio Conte e la dirigenza bianconera hanno permesso a tutti di intuire che il mercato della Juventus, anche in questa estate, che stenta ad arrivare dal punto di vista climatico, non sarebbe stato molto semplice. Si discute spesso tra tifosi, addetti ai lavori, giornalisti su quale sia l’effettivo budget di cui la Vecchia Signora dispone per rinforzare il proprio organico allo scopo di confermarsi ancora in Italia, per la terza volta in tre anni, ma anche per cercare di dare l’assalto al trofeo più prestigioso d’Europa, ed in effetti nessuno sembra sappia dare una risposta precisa. 

La mia opinione è che, nonostante la società abbia raggiunto praticamente il pareggio di bilancio ed economicamente stia messa abbastanza bene, non ci sia un ampio spazio di manovra per gli acquisti di mercato e che più che ad un grosso colpo si punti a due-tre acquisti di ottimo livello, raggiungibili con un minimo di investimento ma anche con qualche cessione. In sostanza credo che nella famigerata riunione in sede abbia prevalso la linea Agnelli. Mi spiego meglio, precisando che questa è una mia personalissima ricostruzione dei fatti e, pertanto, contestabilissima da chiunque: Conte avrebbe voluto immediatamente la costruzione di una corazzata, con un ricambio notevole di elementi (sostituendone qualcuno che forse in questi due anni potrebbe veramente aver dato tutto) per tentare fin dal prossimo anno l’assalto alla Champions, non tanto per vincerla obbligatoriamente subito, ma almeno per sentirsi in grado di avere delle chances concrete di giocarsela fino in fondo. 

Andrea Agnelli dal canto suo, credo volesse e voglia rinforzare la squadra, ma in modo più graduale, prevedendo cioè la costruzione della corazzata desiderata dal mister leccese in due o tre anni, senza causare ulteriori buchi nel bilancio e dando, nel frattempo, la possibilità all’asset Juventus di crescere autonomamente ed in maniera il più indipendente possibile dal suo azionista principale. Conte, convinto dalle concrete promesse di Andrea (e dico concrete perché è probabile che Agnelli abbia illustrato nei particolari ed in modo del tutto convincente e serio tutto ciò che intende fare per far crescere in modo esponenziale la Juventus), credo abbia accettato la sfida, decidendo di lavorare e di muoversi in sintonia con il Presidente. Ora però c’è da dire un’altra cosa. 

Tutto questo potrebbe funzionare alla perfezione se non fosse che, ad oggi, come negli anni passati, sembra che Beppe Marotta abbia notevoli difficoltà a muoversi sul mercato. Innanzitutto c'è il problema delle cessioni; ci sono elementi come Felipe Melo, Ziegler e Martinez che sono ancora sotto contratto con la Juventus che non riesce a venderli, non guadagnando nulla dalle loro cessioni ed, allo stesso tempo, continua a sopportarne i pesanti ingaggi. Tutto ciò porta via preziose risorse economiche alla società. 

Il secondo problema sono proprio gli acquisti. Non sappiamo quali voci di mercato siano autentiche e quali invece siano frutto di illazioni giornalistiche, però sembra alquanto probabile che la Juventus voglia Jovetic ed Higuain. Bene, la Fiorentina per Jovetic vuole 30 milioni, la Juve offre soldi e diversi calciatori in contropartita. A prescindere dal fatto che io mai cederei Marrone ai viola, perché è un giovane che ha prospettive più che rosee, se la Fiorentina non cederà, e ciò è molto probabile, l’affare non si farà perché la Juventus non intende investire 30 milioni per acquistare un solo calciatore. Marotta si affida al lavoro dell’agente del montenegrino e lascia parlare quest’ultimo con la società dei Della Valle, ma ciò non credo porterà a nulla. Per Higuain c’è il medesimo problema. Il prezzo è lo stesso. La volontà del giocatore potrebbe avere un peso nella trattativa ma se non si agisce rapidamente una società disposta ad offrire di più, sia al Real che al calciatore, non tarderà ad arrivare. 

Queste trattative sembrano ricalcare in tutto e per tutto quelle di Dzeko, Aguero e Van Persie che si sono concretizzate in un nulla di fatto dopo che, per tutta l’estate, sembravano ad un passo dalla conclusione. Ovviamente, venendo dalla vittoria di due scudetti consecutivi, in qualità di tifosi juventini non possiamo lamentarci più di tanto, ma, ad ogni modo, la domanda che mi pongo oggi è questa? Qual è il problema? I soldi? Un qualcosa di misterioso che impedisce alla Juventus di portare a termine le operazioni di mercato migliori? Oppure la scarsa abilità a muoversi nel difficile mondo del calciomercato e l’eccessivo attendismo da parte di chi queste operazioni dovrebbe portarle a termine nel migliore dei modi?