lunedì 28 aprile 2014

Saeed Al Owairan, il «Maradona del deserto»

 

Ci sono calciatori che nel vedere il colore rosso delle maglie del Belgio si esaltano, tirando fuori dal cilindro colpi assolutamente straordinari. Diego Armando Maradona, ad esempio, aveva punito i Diavoli Rossi nell'edizione dei mondiali tenutasi in Messico nel 1986 realizzando una doppietta decisiva per la conquista della finalissima da parte della sua Argentina. Ma per Maradona, con tutto il dovuto rispetto verso gli altri giocatori, realizzare un goal straordinario non era certo un evento raro.

Quanto era accaduto otto anni più tardi in America, invece, può rendere meglio l'idea del concetto appena espresso. Saeed Al Owairan, il numero dieci della rappresentativa dell'Arabia Saudita, il 29 giugno 1994 si era impadronito del pallone quando ancora si trovava nella metà campo dei sauditi, aveva percorso una settantina di metri evitando come fossero dei birilli tutti gli avversari che gli si erano parati di fronte sino a depositare la sfera nella porta difesa dal belga Preud’homme. Non un portiere qualunque, considerando il suo palmarès e il fatto che al termine di quella manifestazione gli era stato assegnato il premio Jašin destinato ai migliori numeri uno del torneo.

Quella rete fu fondamentale per la storica qualificazione agli ottavi di finale di una nazionale che stava vivendo la sua prima esperienza mondiale. Il cammino si sarebbe poi fermato alla tappa successiva, nonostante l'entusiasmo trasmesso da Jorge Solari, c.t. argentino dei sauditi, quando ancora si trovava nella pancia del “Robert F. Kennedy Memorial Stadium” e descriveva l'emozione appena vissuta: “La nostra è stata una vittoria del calcio latino, poiché ci ispiriamo alle tradizioni del grande Brasile. Negli ottavi contro la Svezia non avremo problemi: ci prepariamo solo per vincere”.

Terminato il mondiale erano iniziati i festeggiamenti riservati ad Al Owairan, che in patria venne omaggiato al pari di una star internazionale: auto lussuose, una villa e una montagna di soldi che il munifico Re Fahd, monarca del paese, ed altri sceicchi che ne avevano seguito l'esempio destinarono a quello che era stato definito “il Maradona del deserto”. L'umiltà mostrata dal giocatore quando ancora si trovava sul suolo americano (“Paragonate il mio goal a una prodezza di Maradona? Troppo onore. Devo ringraziare i miei compagni, abili nell'aprirmi il corridoio giusto”) aveva lasciato spazio agli eccessi di una vita che, ormai, era cambiata rispetto a quella vissuta prima di quell'episodio incredibile.

Re Fahd e il Principe Faisal Bin Fahd, quest'ultimo presidente federale nonché figlio del sultano, erano contrari ad un suo trasferimento in un club al di fuori del paese, così Al Owairan rimase imprigionato nel suo eremo dorato. Prima in senso metaforico, poi nel vero e proprio senso della parola, dato che - in barba alla legge islamica e agli avvertimenti ricevuti in precedenza - nel marzo del 1995 venne beccato all'interno di un locale mentre si rendeva protagonista di alcuni comportamenti non proprio consoni rispetto a quanto stabilito dai dettami della Sharia.

La condanna di tre anni di prigionia, peraltro in condizioni privilegiate rispetto a quelle degli altri detenuti, non fu scontata in pieno: l'Arabia Saudita aveva conquistato nuovamente la qualificazione ad un mondiale di calcio, quello francese del 1998, e per Al Owairan si erano aperte le porte del carcere. Fu il Principe Faisal ad intercedere con il padre per rivederlo correre sui campi di gioco.

La nazionale saudita , intanto, era passata tra le mani di Carlos Alberto Perreira, il tecnico che si era laureato campione con il Brasile nella precedente edizione americana, un vero e proprio giramondo del pallone. Il miracolo, però, non si era ripetuto, né a livello personale né tantomeno di squadra: un pareggio e due sconfitte avevano costretto i sauditi all'immediato rientro a casa.

Negli occhi dei tifosi, nonostante tutto, era rimasta ancora impressa quella rete straordinaria messa a segno dal “Maradona del deserto” quattro anni prima. Ai taccuini di un inviato del “The New York Times”, a distanza di tempo, lo stesso Saeed Al Owairan aveva poi confessato un piccolo segreto: “Quel goal per me si rivelò essere un’arma a doppio taglio e, se da un lato fu meraviglioso, dall’altro fu tremendo perché finii costantemente sotto la luce dei riflettori”.

Articolo pubblicato su Lettera43

venerdì 25 aprile 2014

Juve, passa da Torino il futuro europeo


Il futuro europeo di Madama ora passerà inevitabilmente da quanto accadrà sul prato verde dello “Juventus Stadium”. Era già stato deciso che il prossimo 14 maggio vi si sarebbe disputata la finalissima dell'Europa League, di conseguenza tra poco meno di una settimana proprio su quel terreno la Vecchia Signora dovrà sudarsi l'accesso alla gara decisiva della manifestazione.

Il giorno stesso in cui la Juventus aveva conquistato il primo scudetto dell'era-Conte, il giornalista e scrittore Maurizio Crosetti descrisse con queste parole l'impianto torinese: “Il dodicesimo giocatore non scende in campo perché "è" il campo. E' una tana di cemento e cristallo, è il primo stadio di proprietà in Italia e l'ha costruito la Juve. Assai probabile che il dodicesimo giocatore abbia portato punti in classifica. Impossibile quantificarli, ma ci sono di sicuro. Ed è certo che la Juve sia imbattuta anche per via della sua tana, la sua casa riconquistata insieme all'identità di sé. Una visione tra passato e futuro, perché un campo e uno stadio sono appartenenza, e insieme sono sviluppo. Sono soldi”.

Può darsi che l'aria di casa, l'affetto e la vicinanza dei suoi tifosi restituiscano alla Juventus quelle sicurezze che in Europa spesso smarrisce. Salvo ritrovarle quando i giochi sono ormai fatti. L'elenco delle occasioni perse o comunque non colte al volo inizia ad allungarsi pericolosamente e tra queste – sia chiaro – non vanno certo annoverate le sconfitte patite per mano del Bayern Monaco nella scorsa stagione. Ma gli approcci titubanti al cospetto dei vari Nordsjælland, Copenaghen e Galatasaray si ripropongono con una frequenza sempre maggiore nel momento stesso in cui la Vecchia Signora abbandona il Belpaese per iniziare qualche campagna d'Europa.

Le reti subite dai bianconeri all'Estádio da Luz erano evitabili, così come il bellissimo goal di Tevez poteva non restare un caso isolato a se stesso, se soltanto qualche suo compagno avesse avuto una mira migliore. Per carità, nulla è compromesso, la finale è ancora a portata di mano. Ma l'Europa non è l'Italia, se sbagli spesso manca il tempo per rimediare. La sconfitta con il Benfica ricorda una volta in più quanto sarebbe importante per la Juventus vincere l'Europa League, in modo da ritrovare la sicurezza e l'autostima indispensabili per poter riprendere a pensare in grande. Non è soltanto una questione di uomini, ma anche di “testa”. L'Atletico Madrid attuale semifinalista della Champions League (che ultimamente è riuscito ad aggiudicarsi qualche trofeo... ) è la prova lampante di questo concetto. 

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martedì 22 aprile 2014

Juve, cessioni per ritornare grande



Vendere per ricostruire, vincere per continuare a vincere. Attorno a Madama ormai non si parla d'altro. L'ipotesi di qualche cessione eccellente a fine stagione in casa bianconera (quella di Pogba su tutte) viene considerata dagli organi di stampa tanto un possibile toccasana per le casse del club quanto uno strumento indispensabile per poter realizzare nuovi acquisti di spessore. L'idea di sollevare sotto il cielo di Torino l'Europa League, poi, solletica non poco la Vecchia Signora impegnata alla ricerca di quella visibilità continentale che le manca ormai da troppo tempo.

In più, come se non bastasse, c'è ancora un piccolo alone di mistero che aleggia intorno al futuro di Antonio Conte. Sembra strano, ma si sta parlando dei fatti di cronaca di una società che si appresta a conquistare il terzo scudetto consecutivo ed a disputare la semifinale di andata di una competizione europea.

Di strano, però, non c'è nulla, soprattutto se si pensa a dove vuol tornare la Juventus: in cima all'Europa e al mondo. Durante un suo intervento nel corso di un seminario sugli sport di squadra organizzato dal Coni, tenutosi nel mese di aprile del 2010, Marcello Lippi – tecnico pluridecorato di Madama ed ex c.t. della nazionale azzurra - aveva "separato" i grandi calciatori in campioni e fuoriclasse: “I primi sono dei solisti, dei galli nel pollaio, che hanno grandi doti ma che non fanno nulla per migliorare e mettono in mostra le proprie qualità solo in poche occasioni. Sono primedonne che non si mettono a disposizione del gruppo, non aiutano la squadra. I secondi, invece, hanno il talento, non solo tra i piedi, e lo mettono al servizio del collettivo. Hanno grandi qualità in campo e fuori, incarnano i valori della leadership. Di questi giocatori più se ne hanno e meglio è”.

Non è un caso se la Juventus ha raggiunto certi risultati quando tra le sue fila militavano giocatori di uno spessore umano, oltre che tecnico, fuori dal comune. Due di questi, Zinedine Zidane ed Edgar Davids, sono i protagonisti di un aneddoto che il fuoriclasse francese aveva confessato al mensile calcistico 'So Foot' la scorsa estate: "Non è una leggenda la storia che vuole che io mettessi un cappellaccio da pescatore per andare a giocare con gli immigrati, anche se l'ho fatto soltanto un paio di volte. A spingermi era il mio compagno di squadra Edgar Davids. Lui ci andava matto, lo faceva molto spesso: prendeva la macchina e quando vedeva qualcuno giocare in un parcheggio si fermava per aggregarsi. Mi diceva sempre: 'E' per loro che dobbiamo giocare, sono queste le partite importanti'. E io gli dicevo: 'Ok, ma abbiamo gli allenamenti, apparteniamo a un club di alto livello, non possiamo rischiare di infortunarci'. Allo stesso tempo, però, lo ammiravo, perché era in grado di fare delle cose del genere".

Ha ragione Giuseppe Marotta nel sostenere che “la nostra società è una di quelle che compra e non vende”, ma di fronte ad un'offerta irrinunciabile per qualche suo gioiello, però, non è detto alcune certezze della dirigenza non possano vacillare. Soprattutto guardando la carta d'identità di alcuni fuoriclasse bianconeri e la necessità di sostituirli con altri dello stesso livello. “Di questi giocatori più se ne hanno e meglio è”, sosteneva, come visto, Lippi. E se la liquidità manca (o, comunque, non è disponibile), all'orizzonte non si intravedono molte altre soluzioni. 

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sabato 12 aprile 2014

La Juventus a Udine per vincere e chiudere il discorso scudetto


La grande bellezza del calcio europeo, in questa settimana che sta volgendo al termine, si è potuta ammirare sia in Champions League che nella sorella minore, l'Europa League. Poi, ovviamente, i fuochi d'artificio più spettacolari sono stati riservati alle serate di martedì e mercoledì, quando i primi otto club del continente hanno dato vita a scontri di rara intensità e densi di emozioni.

Caduto il Barcellona, per un soffio il Real Madrid non ha lasciato le penne a Dortmund, laddove i ragazzi terribili di Klopp hanno sfiorato l'impresa di eliminare gli spagnoli. “Questa partita va messa su un dvd da regalare a tutte le squadre che perdono all'andata e che sembrano senza speranza, per dimostrare che c'è sempre, in ogni occasione, qualcosa da rivedere”. Così il tecnico dei gialloneri è riuscito a fotografare l'istantanea di una gara che rimarrà a lungo impressa nella memoria dei tedeschi.

Ed in Europa League sembra proprio che ci si stato chi ha preso alla lettera le sue parole. A questo proposito basta guardare, infatti, alle rimonte di Siviglia e Valencia: i primi, sconfitti per 1-0 dal Porto nella gara d'andata, hanno ribaltato il risultato vincendo per 4-1 il match di ritorno; i secondi, invece, sono passati da uno 0-3 contro gli svizzeri del Basilea ad un rotondo 5-0 casalingo. Adesso si ritroveranno entrambi in semifinale, mentre nell'altra parte del tabellone Juventus e Benfica si contenderanno l'ultimo pass per la finalissima in programma a Torino il prossimo 14 maggio.

Nonostante la battuta rilasciata da Pirlo ad un giornalista nei momenti successivi il sorteggio (“Il Benfica? Mi dispiace per loro...”), Madama farebbe bene a non sottovalutare i portoghesi: nella finale della stessa competizione disputata lo scorso anno ad Amsterdam, contro il Chelsea di Benitez, c'erano proprio loro.

Il centrocampista della nazionale ha aperto la strada alla recente vittoria dei bianconeri contro il Lione con un'altra perla su punizione. Se trovare altri complimenti per il fuoriclasse di Brescia diventa sempre più difficile, per spiegare meglio la ripetitività delle sue prodezze possono venire in soccorso le parole rimaste impresse sul libro “Giochiamo ancora”, scritto da Alessandro del Piero con l'aiuto del giornalista Maurizio Crosetti: “Il talento cresce, migliora, va protetto e non invecchia. Maradona lo avrà per sempre: se tirasse una punizione, anche a ottant'anni metterà la palla all'incrocio. Siamo noi a invecchiare, il nostro corpo, non la classe”.

A Udine, prossima tappa del cammino in serie A della Vecchia Signora, in caso di vittoria esterna della Juventus i giochi per lo scudetto potrebbero dichiararsi chiusi. Sarebbe meglio per lei, quindi, tirare fuori tutte le energie necessarie per espugnare quel campo. Anche perché per tenere il passo del Benfica durante (almeno) centottanta minuti ne serviranno parecchie...

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sabato 5 aprile 2014

Juventus, esigenza di rinnovo

 
Sulle pagine dell'odierna edizione della “Gazzetta dello Sport” Antonio Di Rosa, che oltre ad essere l'attuale direttore dell'agenzia d'informazione “LaPresse” in passato ha anche guidato la “rosea”, in un editoriale da lui scritto solleva un dubbio non privo di fondamenta sulla Juventus che verrà: “In prospettiva può essere la squadra di giovedì sera quella che può aspirare a competere con Real, Bayern e le altre grandi della Champions League? La risposta è netta: no. Per salire i gradini dell'ambizione e alzare il tiro sui grandi obiettivi ci vuole ben altro”.
 
Premesso che il Chelsea vincitore della massima competizione europea nel 2012, pilotato dall'accoppiata Andrè Villas Boas (sino a marzo di quell'anno) e Roberto Di Matteo, aveva dimostrato una volta di più che il calcio non è una scienza esatta, le osservazioni del giornalista toccano comunque alcuni punti chiave di quella che dovrà essere la programmazione del proprio futuro in casa bianconera.
 
L'età di alcuni giocatori che avanza, l'impiego di moduli tattici alternativi all'attuale 3-5-2 e più consoni ad un calcio diverso da quello praticato in Italia, il progressivo rafforzamento delle principali rivali anche in serie A sono tutte componenti che potrebbero far giungere il management juventino di fronte ad un bivio: continuare con l'attuale gruppo, aggiungendo – quindi - qualche pedina all'attuale scacchiere a disposizione di Conte, oppure ridisegnare la rosa, considerando questa stagione come l'ultima di un eccezionale triennio?
 
In ambito sportivo, e non solo, il tema naturalmente non è nuovo. A conti fatti l'Inter del 2010, toccato uno dei punti più alti della propria storia, avrebbe avuto bisogno di un restyling per restare ad altissimi livelli, soprattutto in vista di una crisi annunciata del settore economico che avrebbe poi toccato anche le sue casse societarie.
 
Terminato lo straordinario ciclo di Arrigo Sacchi al Milan, il Diavolo puntò su un nuovo tecnico (Fabio Capello) per continuare a mietere successi in Italia e in Europa. Quando si trovavano al timone della Juventus, Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Roberto Bettega furono i materiali esecutori della volontà del club torinese sul “vincere spendendo quello che si produceva”. L'esempio più lampante, in questo ambito, resta la cessione di Christian Vieri all'Atletico Madrid. Pochi giorni prima l'Avvocato Agnelli aveva rassicurato tutti: “Moggi mi ha detto che Vieri resta”. Infatti...
 
L'articolo di Antonio Di Rosa termina con una convinzione che sa di profezia: “Vincere non è una garanzia per continuare a vincere. Se non si rinnova, si resta indietro”.
La stagione, però, non è ancora finita. A questo punto è giusto che entri in campo anche un po' di scaramanzia...
 
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martedì 1 aprile 2014

Juve in calo, ma la stagione non è finita


L'ultima occasione nella quale il Napoli aveva battuto la Juventus in campionato tra le mura amiche, prima della scorsa domenica, risaliva al 9 gennaio 2011. Edinson Cavani aveva infatti schiaffeggiato per ben tre volte la Vecchia Signora, portandosi a casa il pallone della gara e mandando in visibilio il pubblico del “San Paolo”. Adesso è stata la volta di Callejon e Mertens, gli acquisti pagati proprio con il ricavato della cessione del fortissimo attaccante uruguaiano al Paris Saint-Germain, a piegare Madama.

Quanto ci ha messo di suo la Juventus in questa sconfitta? E' realmente così stanca, incerottata, sazia di vittorie in serie A e con la testa rivolta soltanto al prossimo impegno di Europa League contro il Lione? L'esito di una sola gara può mettere in dubbio la legittimità di una differenza in classifica tra gli uomini di Conte e quelli di Benitez che attualmente è pari a diciassette punti?

Durante il girone d'andata era stata la Juventus ad infliggere una sonora sconfitta al Napoli. Nelle ore immediatamente successive a quell'incontro Corrado Ferlaino, ex presidente della società partenopea, aveva preso le distanze dai disfattisti: Non si può giudicare una squadra da una sola partita, bisogna guardare tutto il campionato. Anche la Juventus a Firenze ha avuto un quarto d’ora disastroso. Sicuramente la gara di ieri del Napoli non è stata bella ma non bisogna farne un dramma”.

A distanza di poco più di quattro mesi le parti si sono rovesciate. Nell'arco di questo spazio temporale ancora la Fiorentina, inconsciamente, ha rappresentato un crocevia importante della stagione juventina. Il disfattismo maturato a Torino nel bel mezzo degli incontri europei di andata e ritorno tra bianconeri e viola era stato poi cancellato dal passaggio di turno degli uomini di Conte.

Un comprensibile calo fisico e mentale di Madama era preventivabile. Il singolo, più che il gruppo o il gioco, ha aiutato la Vecchia Signora ad uscire fuori dai momenti difficili da qualche partita a questa parte. Sino a quando è stato possibile. Ma se Reina esce dallo stadio con i guanti ancora puliti, allora parlare di serata storta non ha senso, così come di un periodo di flessione.

Con ogni probabilità c'è un intero spartito da rivedere, per riprendere a suonare la stessa musica ascoltata dagli avversari in questi ultimi anni. E qui spetta al direttore d'orchestra, Conte, uno dei principali artefici della rinascita bianconera nel dopo-Calciopoli, entrare in gioco. Per impartire un cambio di marcia, quell'imprevedibilità che possa consentire ai suoi uomini di tirare fuori le forze necessarie per affrontare al meglio gli ultimi impegni della stagione. Anche a costo di mettere in discussione quelle idee di gioco, le sue, che sembrano ormai scolpite nella pietra. 

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