domenica 11 maggio 2014

Laureano Ruiz, il maestro del tiqui-taca

Al tramonto dell'incredibile sconfitta casalinga del Bayern Monaco contro il Real Madrid nella recente semifinale di Champions League, in molti hanno celebrato la fine dell'ormai celebre tiqui-taca. Quello di origine catalana, s'intende, perché l'idea di sfruttare una fitta rete di passaggi per mantenere il controllo pallone tra i propri piedi, piuttosto che andarlo a recuperare in mezzo a quelli degli avversari, è vecchia quanto il football.

E' proprio in quella terra che questo stile di gioco negli ultimi anni è stato utilizzato a livelli intensissimi, quasi esasperanti, con risultati indubbiamente vincenti. Trasportato in Germania da Josep Guardiola ha subito invece un tracollo in termini di popolarità proprio in fondo al torneo continentale più importante, dopo che la conquista del campionato tedesco per il Bayern Monaco si era rivelata una pura formalità.

In quell'occasione la “Gazzetta dello Sport” aveva nuovamente portato alle luci della ribalta Laureano Ruiz, ovvero la persona che anni fa trapiantò questa filosofia calcistica a Barcellona. La storia racconta che alla guida di una squadra di ragazzini sovvenzionata da un marchio di birra nel lontano 1972 aveva umiliato i pari età blaugrana. Apriti cielo: il presidente Agustì Montal andò su tutte le furie, per poi tesserare quell'allenatore che – dopo qualche colloquio – era apparso al suo nuovo ambiente come un visionario.

Contro ogni previsione i successi arrivarono in serie, uno dietro l'altro, per un club che a livello giovanile stentava non poco. Strano a dirsi, guardando la realtà attuale, ma è proprio grazie all'importanza data a quel ramo societario da Ruiz se adesso il Barcellona può vantarsi della bontà di quel settore di fronte al mondo intero.

Nato nel 1937, il credo di Laureano Ruiz era basto sul possesso di palla, su un sistema tattico comune a tutte le squadre (il 3-4-3) e su un regime di allenamento che mescolava l'aspetto fisico al controllo tecnico del pallone. Una volta disse: “Mi ricordo di un allenatore che proibì l'utilizzo della palla in allenamento, perché così il giorno dopo i suoi giocatori avrebbero avuto più voglia ad usarla... un'aberrazione!”. Così come era inconcepibile, per lui, che l'attitudine al football dovesse dipendere dall'altezza dei calciatori: “Dicevano che il calcio era solo per giocatori alti e forti. Grande errore. Nel corso degli anni è stato dimostrato che questo non è sempre vero, ma allora non c'era modo di farlo capire alla gente”.

Ruiz aveva trapiantato il seme che negli anni è poi germogliato grazie al lavoro, tra gli altri, dei vari Michels, Cruijff, Guardiola e del compianto Vilanova. Il 25 novembre 2012, fuori casa contro il Levante, il Barcellona aveva giocato con tutta la formazione prodotta dalla scuola del club, la celebre “Masia”. Era accaduto nel momento stesso in cui Dani Alves si era infortunato, dopo 14 minuti di gioco, per venire sostituito da Martin Montoya. A fine gara Xavi aveva ricordato che 'Van Gaal (ex allenatore del Barca, ndr) disse una volta che il suo sogno era vedere in campo insieme 11 giocatori usciti dall'accademia, e oggi questo è diventato realtà'.

In realtà quello era stato anche il sogno di Ruiz: “Per me è stata una soddisfazione massima. Un'enorme soddisfazione. Questo era il mio desiderio, il mio sogno per il futuro dal primo giorno che ero arrivato al Barça. Vedere sul prato quel giorno contro il Levante undici giocatori fatti in casa mi ha ricordato di tutte quelle persone che 40 anni prima mi aveva detto che ero pazzo”. Lo aveva confessato terminando la frase con un sorriso.

Mentre seguiva alcuni provini di giovani calciatori in qualità di allenatore della scuola catalana Escolapis Sarrià, qualche anno fa, la sua attenzione era stata catturata da un ragazzino che tirava da solo dei calci al pallone contro un muro. Si avvicinò a lui, chiedendo che cosa stesse facendo. Con lo sguardo triste, il ragazzo aveva risposto di stare attendendo il padre, che lo avrebbe riportato a casa. Ruiz andò immediatamente dagli altri tecnici chiedendo il motivo della bocciatura di quel calciatore che a lui – invece – era piaciuto. La risposta lo fece arrabbiare non poco: per gli altri era bravino, sì, ma non avrebbe avuto alcun futuro come professionista.

Alla fine vinse il parere di Ruiz. Quel ragazzino si chiamava Albert Ferrer, protagonista di una carriera straordinaria al servizio del Barcellona di Cruyff, del Chelsea e della nazionale spagnola. Mentre citava il suo nome, concludendo il racconto, sul volto di Ruiz era comparso un altro sorriso.

Articolo pubblicato su Lettera43

4 commenti:

Giuliano ha detto...

c'ero ma non me ne ricordavo per niente... in effetti Real e Barcellona negli anni 70 non erano quelli di oggi. L'unica cosa che mi lascia perplesso è quest'idea di far giocare tutti con lo stesso schema, dai pulcini fino alla prima squadra... Mah. Può funzionare, e in questo caso ha funzionato, ma io sono cresciuto con Rocco, Liedholm, Vycpalek, Trapattoni...
Comunque sia, una bella lettura in attesa della partita più inutile dell'anno
:-)
però con misure di sicurezza da antiterrorismo, che tristezza.
:-(
direi che era meglio non giocarla...

Danny67 ha detto...

Partita più inutile dell'anno, ma quanto mi ha fatto godere il gol di Osvaldo al 94°...

Giuliano ha detto...

il campionato (adesso possiamo dirlo!) era finito dopo Juve-Roma 3-0...
:-)
per fortuna, domenica a Roma non ci sono stati incidenti

Thomas ha detto...

Sono d'accordo, Giuliano. Un conto è "educare" i giocatori a trattare con cura il pallone, e a passarselo con frequenza, un altro è fargli fare gli stessi movimenti fino alla (stra)nausea...
Si rischia di crescere degli automi, più che dei calciatori...

Un abbraccio!