Gianni Brera lo chiamava 'Ettorazzo', ma gli addetti ai lavori e i
tifosi lo ricordano con il soprannome di 'testina d'oro'. Ettore
Puricelli era arrivato a soli ventuno anni in Italia, a Bologna, nel
1938. Per i tifosi felsinei, che all'epoca dei fatti avevano il palato
fine, quel giocatore lungagnone e sconosciuto rappresentava soltanto un
oggetto misterioso. Niente a che vedere con l'idolo incontrastato di
casa, Angelo Schiavio, che aveva appena chiuso la carriera. Ma il
ragazzino riuscì presto a smentire gli scettici con una serie
lunghissima di prestazioni convincenti e la successiva conquista di due
scudetti, conditi da altrettanti titoli di capocannoniere. Amava giocare
con i calzettoni abbassati, alla “cacaiola”, come amava dire sempre
Brera.
Abituato in Uruguay, il suo paese d'origine, a giocare rasoterra, aveva
cambiato modo di trattare il pallone grazie alla cura di Arpad Weisz,
il tecnico ungherese che lo aiutò a diventare un grande attaccante. Lo
schema era apparentemente semplice: i movimenti continui e i cross dalle
fasce laterali di Biavati e Reguzzoni servivano per armare di munizioni
Puricelli. Così nascevano e finivano le azioni dei bolognesi, che
spesso terminavano con una rete messa a segno dal bomber venuto da
Montevideo. Di testa, appunto. Bruno Roghi, direttore de 'La Gazzetta
dello Sport' in quel periodo, era rimasto talmente impressionato dalla
sua bravura da coniargli la definizione di 'testina d' oro'.
Naturalizzato italiano, aveva giocato una sola gara con la maglia
azzurra, il 12 novembre 1939, contro la Svizzera, mettendo a segno la
rete della bandiera nella sconfitta subita per mano degli elvetici
(1-3).
Passato al Milan attraverso uno scambio con un altro attaccante
fortemente voluto dal presidente Renato Dall'Ara, Gino Cappello,
continuò a segnare reti a grappoli. A questo proposito resta memorabile
una tripletta realizzata proprio contro la sua ex squadra a Milano, nel
corso di una partita vinta dai rossoneri con il risultato di 4-2 (1
giugno 1947). Una volta appese le scarpette al chiodo cominciò una
seconda carriera, quella di allenatore, guidando le giovanili del
Diavolo. A stagione iniziata era subentrato in prima squadra a Bela
Guttman, il tecnico del famoso anatema scagliato contro il Benfica nel
lontano 1962, conquistando lo scudetto al primo colpo (1954/55). E'
grazie anche al suo intervento che si deve l'arrivo in Italia del grande
Juan Alberto Schiaffino.
Dopo l'esperienza milanese aveva poi girato l'Italia in lungo e in
largo, continuando ad esercitare con alterne fortune quel lavoro per il
quale aveva trovato una curiosa definizione: “Siamo come fagiani in riserva, ci sparano addosso senza pietà”.
Riconosceva l'importanza della scuola degli allenatori di Coverciano,
senza dimenticare di evidenziare un particolare da lui ritenuto
fondamentale: “Serve, eccome. Però occorre il tirocinio, conoscere
anche le amarezze. Coverciano è troppo bello. Ne esci con un sacco di
illusioni”. La sua ricetta per vincere era basata sulla praticità: “Per fare lo squadrone ci vogliono almeno due fuoriclasse. Se madre natura ti dà i due campionissimi, sei a posto”.
Era bravo ad individuare i giovani di talento. Capitò anche con
Giuseppe Savoldi, come aveva ammesso lo stesso attaccante nel corso di
un'intervista rilasciata nell'aprile del 2012: “Ho avuto fortuna. Va
detto e lo sottolineo. Nella vita ci vuole anche questo, altrimenti non
sarei mai diventato Savoldi. Entro all’Atalanta a 16 anni.
Calcisticamente sono già vecchio, due anni e poi subito in prima
squadra. Mi fa esordire “testina d’oro”, Puricelli. Si rivede in me, mi
fa esordire e faccio subito goal, in Coppa Italia, contro il Verona. A
diciott’anni solo io e Riva siamo già in A”.
Savoldi e Riva, due grandi campioni. Quelli che di solito fanno grande una squadra.Articolo pubblicato su
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2 commenti:
Sempre molto belli questi racconti di calcio Thomas.
Grazie
Grazie a te, Danny
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