venerdì 3 settembre 2010

Del Bosque, Scirea e la differenza tra classe e stile


"Il suo dolore, la nostra sofferenza, è servita a relativizzare i problemi, a capire che in fondo la vita ha altre priorità, altri ostacoli, altri doveri. E oggi siamo felici, Alvaro lo è e così i suoi fratelli".

Alvaro è un ragazzo quattordicenne, affetto da sindrome down, con un cognome "importante": Del Bosque. E' il figlio del tecnico della nazionale spagnola campione del mondo, il terzogenito a cui il padre aveva sempre negato il permesso di accompagnarlo negli spogliatoi della Roja. Era riuscito, con la sua insistenza, ad ottenere una promessa: nel caso in cui i risultati dell'avventura sudafricana fossero stati positivi, sarebbe potuto salire sull'autobus dei festeggiamenti con i suoi eroi. E così è stato: alla gioia per il trionfo si è unita la commozione di un paese intero per una festa particolare, genuina, di stampo familiare.

Vicente Del Bosque non è stato tifoso del Real Madrid sin da piccolo: prima di arrivarci, era sostenitore dell'Athletic di Bilbao. Poi, a diciassette anni, cominciò la sua nuova vita, proprio con i Blancos. Giocatore prima, allenatore poi. Una vita da vincente, in campo come sulla panchina.

Ma la sua non è la classica figura da "uomo copertina": non ha il fascino di un Lippi (del recente passato) o la capacità mediatica di un Mourinho. Lui è l'antidivo per eccellenza, l'uomo troppo normale per trovarsi a proprio agio in un mondo del calcio dove l'immagine conta (ormai sempre) più della sostanza, in cui quello che hai fatto sino a cinque minuti prima è già diventato storia.

Trentacinque anni a Madrid, in molti trofei esposti nella bacheca di quella società è presente il suo nome: cinque campionati vinti e quattro coppe di Spagna da calciatore; due campionati, due coppe dei Campioni, una coppa Intercontinentale, una supercoppa Uefa, una supercoppa di Spagna come allenatore.

Giocò, giovane, come centrocampista davanti alla difesa: da quell'esperienza imparò a dosare le parole come i passaggi che faceva in campo, a non lamentarsi mai, a correre e lavorare sodo. Per gli altri, per un risultato. Vestì la maglia della sua nazionale per 18 volte, senza immaginare che in futuro l'avrebbe poi allenata.

Perchè per lui esisteva solo il Real Madrid. Quello che perse, da un momento all'altro, perchè "non portava bene la cravatta". Non era l'uomo adatto a guidare la squadra dei galacticos, non aveva lo "charme" giusto, anche se se si trattava di un vincente: Florentino Pérez lo liquidò in quel modo, con poche parole, espressioni di una mania di grandezza di chi non capisce che i successi si costruiscono nel tempo, con il (piccolo) lavoro quotidiano.
Lo lasciò così, su due piedi, senza alcun dubbio e nessun rimpianto. In quel momento: perchè dopo arrivarono, tutti insieme.

Una carriera intera trascorsa in un club amato volatilizzata in pochi attimi. In che modo reagì? Con il suo stile: in silenzio. Aveva perso il fratello, vittima di una malattia che non riuscì a sconfiggere: erano altre le dure battaglie da affrontare. Questa, seppur dolorosa, poteva essere vinta. Come? Con il lavoro, sempre e comunque. Anche se in quel momento non c'era più: "Sono un disoccupato privilegiato, ma mi hanno ferito. Il lavoro è nella natura dell' uomo, non so che fare ora".

Dopo un'infelice esperienza nel Beşiktaş (2004) tornò in Spagna. Rifiutò l'incarico di guidare la nazionale messicana, per accettare quello di sedere sulla panchina del suo paese. Nel momento più difficile, verrebbe da dire: proprio quando - finalmente - aveva iniziato a vincere (l’Europeo del 2008, dopo quello del 1964). Doveva sostituire Luis Aragonès, e puntare al bersaglio grosso, quel mondiale mai raggiunto da una squadra che adesso iniziava a prendere coscienza delle proprie possibilità.

Tensioni e aspettative, delusioni e paura di non farcela, critiche feroci: si trovò solo, contro tutto e tutti. Compreso quello stesso commissario tecnico del quale aveva appena preso il posto, timoroso che qualcuno potesse subito far passare in secondo piano quanto ottenuto da lui. Come si comportò Del Bosque? Da signore: stette in silenzio, si mise in difesa dei suoi ragazzi, così come da giocatore proteggeva i compagni difensori. Non rispose, se non con i risultati. Dispensò serenità, miscelando un gruppo composto più da giocatori del Barcellona (l’antica rivale) che non del Real Madrid. Ha finito con unire - per qualche momento - un paese nel nome di una vittoria che è già passata, lei sì, alla storia. Non poteva essere altrimenti, per un vincente come lui.

Pensi alla figura di Del Bosque, leggi le dichiarazioni al vetriolo di alcuni ex calciatori bianconeri di questi giorni, e capisci le differenze tra il concetto di classe (intesa come capacità individuali) e quello di stile, nello sport così come nella vita di tutti i giorni. Che è fatta - anche, purtroppo - di difficoltà, di percorsi in salita, di ingiustizie. Ci sono modi diversi di affrontarle, superarle, assimilarle, raccontarle a chi ti sta intorno.

C'è chi, in quei momenti, è più o meno dotato di capacità di resistenza, e non crede che il tempo sia galantuomo e il campo un giudice supremo. E' sempre più numeroso il partito di coloro i quali pensano di poter sistemare le proprie pendenze alzando la voce o attaccando per primi, per paura - forse - che gli altri possano smascherarli.

Ci sono - invece - uomini che hanno carattere, sono sicuri di se stessi, fanno della serietà e della serenità i loro punti di forza, e non hanno mai la necessità di discutere animatamente: i loro silenzi rendono inutili qualsiasi parola. Non sentono il bisogno di vendicarsi con qualcuno: vincono. Semplicemente.
Perchè il loro modo di affrontare la vita li fa partire da 1-0 ogni qualvolta mettono il piede a terra dopo essersi alzati dal letto la mattina.

I giocatori passano, le squadre rimangono. Così come le leggende.
Gaetano Scirea, del quale oggi si commemora l’anniversario della sua scomparsa, è una di quelle. Il suo ricordo non morirà mai, così come i suoi insegnamenti.
Prima o poi certe lezioni le imparerà anche chi non ha ancora chiara la differenza tra classe e stile.
Forse.

Ps: ciao Gai

Articolo pubblicato su Tutto Juve.com

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Forse.

Roberta

Thomas ha detto...

Infatti... ;-)

Father ha detto...

Mi è molto piaciuto il tuo articolo.

Più che una lezione di stile sono propenso a giudicarlo una lezione di vita.

Roba, insomma, che dovrebbe essere letta con un pizzico di umiltà da parte di certi giovinotti in brache corte che, dopo aver dimostrato la propria pochezza calcistica, proprio in questi giorni hanno spontaneamente rilasciato alla carta stampata dichiarazioni sul cui contenuto preferisco sorvolare.

Sono tuttavia lieto del fatto che tutti costoro si trovino assai bene nel paese in cui sono stati mandati, ed in ciò - quantomeno a livello propositivo - mi considero con orgoglio uno dei precursori.

Thomas ha detto...

@Father: grazie ;-)

Ne avrei avuto da scrivere ancora su di loro.
Su queste (presunte) vergini del calcio, illibate nelle intenzioni, un po’ meno nei comportamenti.
Tanto lo si sa: in questo momento sono – nel rapporto tifosi/società – con il coltello dalla parte del manico. Basta dire due cose e passare da vittime, per scatenare il putiferio.
Ma il tempo è galantuomo.
E ho deciso di seguire l’esempio di alcune persone che facevano – e fanno – del loro stile una ragione di vita.

Ps: molto carino il digitale terrestre formato “mini” che hai preso.
Mancano le istruzioni, e sto cercando di usare l’unico neurone del quale sono dotato per capirne i giusti collegamenti.
Se affacciandoti dalla finestra dovessi vedere un oggetto volare da un terrazzo a due piani sopra la tua testa… Tranquillo… Non è un ufo…
:-)

JUVE 90 ha detto...

Semplicemente complimenti e grazie per avermi fatto conoscere la storia di Del Bosque, non la conoscevo

Thomas ha detto...

Grazie a te, Sante.
Di cuore.
Perdonami per il ritardo nella risposta, ma oggi è stata una giornata impegnata.
Il sole e il mare non mi davano tregua
:-)
Un abbraccio!!!